di Antonio Gregolin -© riproduzione vietata di testo e foto –
SAIO, SANDALI E TOLLERANZA
A tu per tu con il Custode di Terrasanta
Il “saio” in Israele si integra con la quotidianità, restando il simbolo di un possibile dialogo a distanza tra l’Oriente e l’Occidente, avviato con l’utopia di Francesco di Assisi . Da allora, il pertugio del confronto perseguito dal francescanesimo vede spiragli di lucidità religiosa e politica, riconosciuta da palestinesi e israeliani. Chi sta a cavallo di queste due realtà da qualche anno è padre Gianbattista Pizzaballa(è nato a Cologno Arsero- Bg- nel 1965 ) investito oggi del ruolo di Custode dei Luoghi Santi. La sua formazione pastorale come assistente spirituale dei cattolici israeliani e palestinesi gli permette di conoscere a fondo il pensiero che permea le diverse comunità. Parla ebraico ed è un uomo pacato quanto determinato al dialogo.
L’ho conosciuto nella sua comunità di Gerusalemme poco prima che ricevesse la nomina di Custode. Per capire la sua esperienza, basti ricordare che nei pressi del suo convento in Jaffa Street in tre anni (2002-2005) si sono verificati più di tredici attentati kamikaze: “Vivere in Israele – mi disse allora- non è uno scherzo! Ma nonostante tutto rimane una Terra Santa!”. Da allora mi rinfaccia una mia battuta rivelatasi poi una intuizione: ” Ti vedrei bene come Custode …” gli dissi. Quanto segue è il sunto di più dialoghi avuti con lui in questi anni di amicizia, che dimostrano la vivacità culturale di un frate dinnanzi a due civiltà allo scontro.
Da quanti anni si trova in Israele?
Dal 1990, dunque venti anni, di cui gli ultimi cinque come Custode francescano di Terra Santa.
Come sta vivendo questa ennesima crisi tra Israele e Palestina (dal 2003 ad oggi)?
Purtroppo con una certa abitudine. Non è la prima volta e dico con altrettanta sofferenza che non sarà l’ultima, in cui la voce delle armi spazza via ogni possibilità di riconciliazione. Chi vive in questo contesto, non si stupisce più davanti alle reazioni più estreme. Solo che nel caso di Gaza, l’impatto emotivo e mediatico che si è avuto in Occidente, ha fatto crescere l’eco senza però risparmiare sangue innocente.
Quali sono secondo Lei, le condizioni imprescindibili tra le parti per una pace stabile?
Non si può pensare che le armi stabilizzino l’area. Anzi, ne peggiorano le conseguenze. Per poter parlare di un cammino sostanziale quanto efficace di pace tra israeliani e palestinesi, è fondamentale che vi sia il coinvolgimento di tutta la società. La politica da sola non basta, anzi alle volte peggiora le situazioni. Qui bisogna coinvolgere i settori sociali, partendo dalla scuola, opinione pubblica, industria, agricoltura. Insomma, tutti quei settori che sono vicini alla gente e ai popoli. E’ da questo che decollerà un processo di pace irreversibile, per ora ignorato dalla grande politica globale.
Lei ha la possibilità di vedere il conflitto con due visuali diverse: Occidentale e Medio orientale. Quali sono le rispettive differenze?
La visione orientale è carica di rancori, come riflesso di libertà negate e prospettive represse. Nell’ottica occidentale invece, prevale una politica razionalista che mal si adatta alla cultura araba. Vi è in questo senso, una politica internazionale che si schiera da una dall’altra parte a seconda delle proprie convenienze come si vede in questi giorni. In questo la scuola europea e italiana ne è un esempio eloquente…
Qual è la situazione degi cristiani arabi?
Come tutti gli altri arabi. Non stiamo parlando di un popolo distaccato dalla realtà. La differenza semmai degli arabi cristiani è che loro non coltivano rancori o vendette, ma subiscono le stesse frustrazioni e vessazioni di chi è sottomesso con le armi.
Sono decenni che il percorso di pace in fa un passo avanti e tre indietro:c’è uno scontro di civiltà?
Non credo, anche se i rischi non mancano e sembrano aumentare.
Visto con gli occhi di un europeo, ci sono sufficienti motivi per accusare e assolvere tutte le parti in conflitto. Come disse Pilato a Cristo proprio in questa terrà: “Cos’è la verità?” anzi, dove sta la verità in questo momento?
Non è facile rispondere. Compito della nostra missionarietà non è quello di esprimere giudizi, stabilendo ragioni o torti. Noi siamo qui per aiutare le persone a crescere nel dialogo, allontanandole da questo circolo vizioso di sangue che non si interrompe dal 1948. Qui, nessuna parola esclude l’altra come nessuna verità. Per cui cosa sia la verità non è una preoccupazione assoluta. Per noi cristiani conta l’incontro, il dialogo con l’altro: ebreo o arabo. Col giusto o con l’iniquo. Non facciamo politica e non siamo dei chiaroveggenti. Ci basta essere tra la gente e con la gente.
La sua nomina a Custode ha da subito suscitato un certo stupore. Si tratta di un segnale che prelude ad una svolta?
Non posso negare che la novità lo è stata innanzitutto per me! Per il fatto di avere scelto un frate qualsiasi quale sono: uno degli ultimi arrivati (sebbene abbia già un trascorso di quattordici anni in Terra Santa ndr), considerando la veneranda saggezza di molti miei confratelli. La nostra presenza nei luoghi santi è per definizione e volontà dello stesso Francesco, un segno che nei secoli si è consolidato nella tradizione di questa terra e della sua gente.
Il coraggio non è tanto mio sapendo di dover custodire questa antica missione; semmai, di tutti quei miei confratelli che hanno creduto nominando un frate come me, di dare un segno alla realtà storica di oggi. Sì, diciamo pure che il segnale di rinnovamento, arriva dall’Ordine dei frati in un momento in cui i cristiani in tutto il Medio Oriente stanno vivendo un momento difficile. Basti pensare al loro spopolamento in molte aree geografiche, così come di quei luoghi ritenuti santi, ma non meno sicuri, come sta accadendo in Palestina. Vi è poi la gestione dei 300 nostri frati disseminati in tutto il bacino Mediterraneo. Trecento frati che possiamo dire valgono per tremila, considerando il lavoro che quotidianamente sono chiamati ad esercitare: dalla custodia dei luoghi santi, all’educazione, alla assistenza verso i più bisognosi, alle famiglie cristiane, arabe o ebree.
Non dimentichiamoci che sono chiamato a perpetuare una tradizione secolare, che vede una prima difficoltà nel differente valore tra la cultura occidentale da quella orientale. E’ difficile comprendere quanto questo incida nella realtà locale, se non si conosce e si condivide questa stessa realtà. Da parte mia – e lo dico con molta umiltà-, ho un’esperienza decennale con i cristiani di origine ebraica, con cui ho sviluppato una pastorale tutta incentrata sul dialogo e la disponibilità. E’ dunque difficile spiegare ad un occidentale la poliedricità di questo mondo, se non ci si immerge in questo mondo. E’ forse per questo mio assorbimento culturale, fatto di esperienza e cultura che confesso tutto il mio amore per questa terra, fatta di contrasti e di ombre, ma anche di segni di resurrezione che spesso non trovano la giusta considerazione che dimostri quanto qui la speranza sia viva nell’animo del popolo. Se vogliamo questa è già una svolta decisiva. Nonostante la mia personale esperienza di vita passata nella casa francescana di S. Simeone e Anna, nella centralissima Jaffa Street, dove in tre anni sono avvenuti più di tredici attentati suicidi con decine di morti, tanto che gli attentati ho imparato a riconoscerli dai rumori, posso dire ora più che mai quanto la speranza non sia colpita a morte. Anzi, è proprio in questo contesto così articolato che la nostra presenza in Terra Santa, continua ad avere un valore assoluto di testimonianza ed accoglienza.
Un impegno il suo che per tradizione è inevitabilmente anche un ruolo “politico” e sociale.
Il mio ruolo ha certamente diverse sfaccettature. La prima è di ordine religioso rivolto al mondo cattolico-cristiano, come verso le altre fedi, considerando che si tratta della terra madre delle tre fedi monoteiste. La seconda è di carattere sociale; indubbio è l’esempio di Francesco che seppe dialogare con il saladino. Su queste tracce perseguiamo il cammino del poverello che oggi calza i nostri sandali. Non a caso il compito che vorrò perpetuare sarà quello di ascoltare tutti. Dai pii religiosi ai politici estremisti, senza però mai tralasciare quel senso di dialogo che ci rende liberi di esprimere con coraggio e determinazione anche sulle questioni più spinose di questi popoli. Se serve lo ribadirò a tutti i capi religiosi e politici, Sharon incluso.
Non teme per questa sua nomina (2005) in un momento storico tanto delicato?
Paura no! Sono sereno perché sono tra la mia gente e solo Dio sa di quanta sete di speranza ha bisogno questo popolo. Fare in modo che i pellegrini tornino in Terra Santa, aiuta questa gente e può aiutare anche noi nella nostra missione di custodi dei luoghi santi. Ripeto, resta difficile per voi in Europa comprendere il pensiero e la cultura di questa terra . Il rapporto con la tradizione è inscindibile. Cercherò semmai di allentare i formalismi in modo che, emerga la sostanza piuttosto che la forma. In fondo, la semplicità rimane “un arma” che per noi francescani è un valore inalienabile, davanti cui possono cadere molte barriere…
Barriere?! Intende il muro di sicurezza voluto da Israele per difendersi dagli attacchi palestinesi?
Comprendo fino in fondo, in virtù anche della mia personale esperienza, il bisogno di sicurezza che rivendicano gli ebrei con l’edificazione del muro, ma non penso che sia questa la risposta che risolverà i problemi di questa terra. Lo dico basandomi sulla mia esperienza, pensando anche a ciò che i nostri muri occidentali hanno creato nella storia e nelle persone.
2 Responses to ISRAELE VISTO DAL CUSTODE DI TERRA SANTA