MO: OTTANT’ANNI DA INVIATO SPECIALE

di Antonio Gregolin -copyright 2012-

SPECIALE 50 MILA CONTATTI

E’ la seconda intervista che mi concede Ettore Mo, storico inviato del giornalismo italiano che da poco (il primo aprile 2012), ha compiuto ottanta anni. Un traguardo che è anche un bilancio di vita professionale (e personale), fatto con la “semplicità e umiltà di un artigiano della parola” come vorrebbe essere ricordato.

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Non è più tempo per reporter!”. Non è più tempo –forse-, per quel giornalismo delle origini  di cui Ettore Mo si sente parte non solo per un fatto anagrafico, visto che da poco ha superato la soglia degli ottanta anni, ma soprattutto dopo l’avvento dell’era tecnologica. A dirlo è lo stesso anziano maestro, l’indomani del suo ottantesimo compleanno, il primo aprile scorso: “Oggi la tecnologia s’impone sulla notizia, senza più una verifica diretta!” . E’ il rischio che paventa l’inviato storico del Corriere, amico del comandante afgano  Massoud e di Oriana Fallaci.  Spegnendo sulle sue candeline è come se soffiasse su un’epoca: quella del giornalismo di strada.  Un mestiere che per lui resta un “atto di pura artigianalità, dove una parola dopo l’altra, si descrive quello che si vede, per raccontare il mondo” ancora con la sua inossidabile Olivetti 32, tanto cara anche a Indro MOntanelli. Ponte tra due epoche, questa intervista è pregna di quell’atmosfera pacata e famigliare che aleggia dentro il suo rifugio con veduta sul Lago Maggiore, dove le storie del mondo raccontato da Mo sembrano universi paralleli.

 Giornalista o reporter?Preferirei inviato, giusto perché sono uno che racconta ciò che vede. E sottolineo, che vuol vedere!”.

E se la chiamassi “maestro” visti i tanti anni (più di sessanta) d’esperienza giornalistica? (Scoppia in una risata). “Faccio il mestiere che mi sono scelto. All’inizio della mia carriera al Corriere, ogni volta che vedevo passare Egisto Corradi (storica firma del quotidiano), m’inginocchiavo dicendogli: “Maestro, dammi la tua benedizione”. E lui mi rispondeva: “Alzati, buffone!”.

Tralasciando i convenevoli, posso dirle che è un gagliardo ottantenne?  “Fa piacere saperlo, soprattutto a questa età. Giusto per dire che i giornalisti sono un po’ vanitosi…”.

Qual è stato l’augurio più apprezzato che ha ricevuto? “Stando nelle vanità è quando mi dicono che “mostro meno anni di quelli che invece  ho sulla carta d’identità. Ho avuto la fortuna nella mia vita di non  aver mai sofferto  di gravi malattie e conservo ancora un fisico che rispondere ai comandi che si adatta a tutto. Fare il reporter, non è facile se il fisico ti tradisce!”.

Una fortuna direi, visto l’intenso lavoro che continua a svolgere come inviato e scrittore!

“Il Corriere era il giornale di famiglia che iniziai a leggere fin da ragazzo. Leggevo avidamente i reportage firmati da Barzini, Tommaselli,Vergani,Vittorio G.Rossi. I primi passi nel giornalismo li ho fatti quando avevo già trenta anni e da allora non ho più smesso. Un pizzico di fortuna in questo mestiere serve eccome, e resta una delle componenti cui ci affidiamo ciecamente e  a volte incoscientemente! “.

Alla base però deve esserci un talento naturale. Non crede? “Quantomeno bisogna sapere tenere la penna in mano e intuire che il mestiere del giornalista è parte indispensabile  della tua vita”.

Intende dire “vocazione” giornalistica? “Giornalisti non si nasce, ma si diventa. Guardi me: io provengo vengo da una famiglia povera di operai piemontesi. Nessuno dei miei antenati aveva mai fatto il giornalista e i giornali era un lusso che si consumava all’osteria. Poi un passo dopo l’altro: la scuola, il diploma, l’iscrizione alla facoltà di lingue straniere di Venezia  che frequentai per un paio d’anni ma senza conseguire la laurea. Restava in me la passione per le lingue e i viaggi in giro per il mondo. Il lavoro come mozzo nella Marina Mercantile Britannica, e qualche anno dopo il colpo di fortuna per il giornalismo…”.

Continui… “A diciotto anni scelsi d’imbarcarmi come steward su una nave mercantile inglese, attraversando in cinque mesi tre oceani. Alla mia partenza da Londra verso la fine degli anni’70, sottoposi a Piero Ottone, storico corrispondente del Corriere Sera da Londra, un paio di articoli con la speranza che giustificasse in qualche modo la mia ambizione di diventare un giornalista. Sbarcato dopo la lunga traversata oceanica a Hong Kong, trovai una lettera di Ottone che lodava sobriamente i miei scritti, dicendomi: “Lei sa tenere la penna in mano!”, poche righe  sufficienti per aprirmi le porte del giornalismo che conservo ancora nella mia casa piemontese. Ecco perché proprio il giorno del mio compleanno -il primo aprile scorso- ho telefonato a Genova a Piero Ottone, ringraziandolo ancora una volta per quelle quattro righe, servite a cambiarmi la mia vita”.

Se la sente di tracciare un bilancio della sua vita? “Gli inizi sono stati duri.  Ho fatto dieci anni di gavetta, con i miei pezzi da Londra che non venivano neppure firmati  e tanto meno siglati. Vidi stampata solo due volte per intero la mia firma, e fu per un’intervista a Laurence Olivier e poi a Eduardo De Filippo. Seguirono poi cinque anni a Roma per il Corriere, dove facevo il “raccattapalle”, cioè raccoglievo le notizie notturne per un collega di rango superiore. Ebbi comunque la fortuna di superare l’esame di Stato e diventare giornalista professionista. Finché un giorno…”.

Un altro colpo di fortuna? “Fatalità, se preferisce, nel 1972 venni trasferito a Milano presso la sede centrale del Corriere in via Solferino, dove mi diedero da occuparmi di  cultura e spettacoli. La svolta professionale però arrivò nel febbraio del ’79 con l’allora direttore Franco Di Bella, che mi disse: “ Khomeini è tornato a Teheran. Tu parti per l’Iran raccontaci cosa succede là!”. “Sei matto!” gli risposi io sbigottito. “Ricordati -ribatté  lui bruscamente-, io butto in acqua solo chi sa nuotare”  .

Così sanciva il talento? “Come dicevo occorre saper tenere la penna in mano. Ma se dall’altra parte trovi il caporedattore che non legge i tuoi scritti e magari li cestina, come oggi invece avviene spesso nelle redazioni, allora non hai né fortuna e tanto meno speranze. Ecco che allora torna la fortuna che non guasta mai!”.

Non crede che i giornalisti come lei, siano oggi come dei “panda” in via d’estinzione? “Nel processo e progresso tecnologico la testimonianza diretta è sempre meno fondamentale, almeno per la carta stampata. Ci si affida ciecamente alle agenzie e a Internet; cosa sbagliatissima perché non puoi verificarne l’autenticità. Ecco perché dico che mi sento un po’ confuso: so che non si può più fare l’invito come si faceva una volta. La possibilità di viaggiare come facevo io allora è sempre più rara. Come si possono raccontare cose che non si vedono? Io poi, sono uno dei pochi inviati che ha il privilegio di avere  al suo fianco da 17 anni un fotografo che è il mio braccio destro,Luigi Baldelli, la cui collaborazione è preziosa nel lavoro di ricerca e dei contatti. Insomma, quattro occhi valgono più di due!”.

Che idea ha del giornalismo moderno? “Credo che soffra del fatto che questa grande massa d’informazione non da più la possibilità di fare la verifica direttamente dei fatti. Il sistema è così complicato che la  testimonianza diretta è ormai rara. La tecnologia consente oggi trasferte lampo da un continente all’altro, ma nonostante questo, la  lacuna dei grandi giornali è quella di non mandare più in giro nessuno.

Coerenza e indipendenza sono sempre più a rischio in questo suo mestiere, basti vedere la posizione dell’Italia nella cclassifica mondiale per la libertà di stampa. Non siamo certamente un modello! “Qui parlo per me, nessuno mi ha mai detto cosa dovevo fare o non fare. Non ho mai avuto interferenze o censure particolari. Non sono un’analista dei fatti, ho sempre creduto e preteso di raccontarli per come sono. Non si poteva raccontare l’offensiva nel Vietnam o le vicende di Sendero luminoso standosene in un albergo di Saigon o Rio di Janeiro”.

Un giorno lei mi disse si sentirsi “ un artigiano della parola”. Questo resta valido anche sulla soglia degli ottanta anni? “Assolutamente, scrivere è un cosa seria”.

Cosa ha dovuto rinunciare per la sua carriera? “Rinunciato a niente! Ho faticato perché sono partito dal basso e non conoscevo nessuno. Alla fine però ho fatto ciò che volevo fare. Ecco perché posso dirle che oggi mi sono guadagnato una fetta di felicità”.

Chi erediterà il suo patrimonio giornalistico? “Ci sono tanti bravi ragazzi in giro, anche se so bene di essere uno degli ultimi della vecchia guardia. Quando i giovani mi dicono”vorrei essere come lei” gli rispondo: “Non è più tempo!”.

Neppure uno dei suoi figlio farà l’inviato? “Nessuno, le mie due figlie vivono in Inghilterra e il figlio si occupa di compagnie aeree in Italia”.

In tutti questi anni ha incontrato molti personaggi che hanno fatto la storia. Quali sono quelli che le sono rimasti più impressi? “Il comandante afghano, Amhad Sha Massoud (ucciso la vigilia dell’11 settembre 2001), considerato il leone del Panshir, l’eroe della resistenza anti sovietica”.

Qual è il personaggio che  avrebbe voluto intervistare, ma non ci è riuscito? “Fidel Castro e Pol Pot”.

La storia più bella che ha raccontato? “Difficile dirlo”.

La più drammatica? “Quando in Afganistan chiesi ed ottenni d’intervistare Gulbuddīn Hekmatyār , capo dei mujahidin e appoggiato da Al-Qaeda. Sapevo che era una testa calda. Raggiunsi il suo rifugio tra le montagne con un collega della Tv afghana. Lo intervistammo e alla fine Hekmatyār rivolgendosi al mio collega disse: “Chi ti paga per criticarmi in televisione?”. Tornando venimmo bloccati da tre uomini mascherati e armati che sequestrarono l’afghano. In quel momento lui mi disse: “Vai Ettore, vai, per me è finita!”. Credevo di essere giunto alla fine anch’io. Invece mi lasciarono andare e arrivati a Kabul venni a sapere che avevano giustiziato il mio collega. In quel momento pensai: chi me l’ha fatto fare?!”. 

Come giornalista è passato spesso per la cruna dell’ago? “Sì,  forse perché sono piccolo di statura e faccio prima! In realtà, mi sono occupato di spettacolo e  mondanità  quando da giovane  facevo la “riserva” al giornale. Mi sono trovavo bene, mi creda, anche perché  il mio grande sogno fin da ragazzo era diventare un cantante lirico. Invece. Mi sono dovuto accontentare di fare la cronaca degli spettacoli.

Si è formato nella vecchia scuola di giornalismo. Molti dei suoi colleghi, da Biagi, a Montanelli, ecc. hanno fatto carriera fino a diventare direttori. Perché lei no? “E’ un ruolo che non mi appartiene assolutamente. Sinceramente non c’ho mai pensato!”.

Alcuni come la sua amica Oriana Fallaci, sono diventati addirittura “profetici”. Lei invece ha sempre mantenuto un profilo pacato. E’ solo questione di carattere? “Sì. La Fallaci aveva un talento enorme e un temperamento generoso quanto imprevedibile. Io, come vede, sono un uomo normale…”.

C’è un particolare di lei che mi sorprende: l’umiltà che ha poco a che vedere coi personaggi  mediatici cui siamo abituati. (Sorride) Grazie! Questa cosa mi fa  particolarmente felice”.

Come giornalista crede più di piacere o disturbare? “Mi auguro che gli argomenti che tratto provochino delle emozioni. Molti lettori poi mi scrivono dimostrandomi la loro fiducia”.

Mai pensato di “appendere ” la sua macchina da scrivere al chiodo?Mai!”.

Continua a non sapere usare il computer?Certo, per pigrizia e paura”.

Questo lo rende quasi un personaggio mitologico visti i tempi: così non naviga in Internet e non ha Facebook? “E’ un linguaggio che non capisco, anche se so che il mondo intero è dentro il computer”.

Questo non la rende distante dai moderni mezzi d’informazione?

“Ho Luigi Baldelli e la mia famiglia che provvedono a rendere meno totale l’isolamento. Con Baldelli  viaggio da 17 anni.  A lui affido i miei scritti che li ribatte e spedisce al giornale. A casa invece uso la mia inossidabile “Olivetti 32”.

Una follia che ha fatto nella sua carriera? “Non ho fatto follie, forse perché non mi è stato dato tempo per follie o eroismi”.

Delusioni? “Inizialmente tante. Soprattutto, quando ero giovane e mi aspettavo qualcosa di più…”.

Gioie? “Quando agli inizi potevo mostrare la mia firma sul giornale a papà”.

Come descriverebbe il mondo che fu e quello che è? “Oggi sono confuso. Mi parevano gravissime le cose che raccontavo quando ho iniziato a scrivere per il Corriere, passando dagli spettacoli ai fronti di guerra.. Ma devo ammettere che le cose non sono migliorate. Guardi l’Afganistan, il Medio Oriente, l’America del Sud,  l’Africa”.

Quando non fa l’inviato, vive tra il lago Maggiore e Londra. Dove le piacerebbe fermarsi?  “Un po’ qui e un po’ là. Entrambi sono miei  paesi, tanto che in redazione qualche collega mi chiama “Hector the englishman”.

Come vede l’Italia di oggi? “Come tutti: c’è poco da stare felici”.

Ha sfiorato molte volte la morte, documentandola e raccontandola. Le capita di pensare alla sua di morte? “Ogni tanto ci penso e spero sia tranquilla. Ma non è un pensiero che mi angoscia. Non ho problemi religiosi e vivo alla giornata. Quando vedo un amico che se ne va, allora, data l’età, la prendo seriamente in considerazione”.

Le viene data la possibilità di portarsi nell’aldilà una sola storia che ha raccontato. Quale porterebbe? “Forse il racconto del mio primo incontro con Massoud, nella Valle del  Paschir”.

Non mi dica che si auspica di fare il reporter anche nell’altro mondo?

“Visto il mestiere che faccio, dovrei finire all’inferno, dove troverei certamente  storie particolari da raccontare. Non crede?!”.

Ettore Mo con Antonio Gregolin

Che domanda gli farebbe allora al Padre eterno? “Beh, gli chiederei se ha un posticino per me lì vicino, non troppo scomodo. Guardi che non scherzo!”.

Auguri vivissimi per la strada che ancora vorrà percorrere! “Finche’ posso, non mancherò…”.

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CURIOSITA’

LE SCARPE DI MO ALLA MOSTRA “TERRA NELLE SCARPE”.

Sono stati scelti solo due giornalisti della “vecchia guardia” come Ettore Mo per la carta stampata e Toni Capuozzo per la televisione, come esimi rappresentanti del mondo del giornalismo “di strada”. Esempi di professionalità e capacità, ma soprattutto maestri di semplicità tale da renderli uomini “coi piedi per terra”.
E’ questo il motivo per cui sono state scelte le loro esemplificative “scarpe da reporter” che sono esposte all’interno del percorso meta/espositivo della mostra unica in Italia, Terra nelle scarpe che in questi mesi ha iniziato il suo percorso itinerante per le città del Veneto. La scelta su Ettore Mo, è bene esplicata in questa nota redatta per la mostra: 

ETTORE MO, classe 1932, è tra i più famosi reporter italiani. Inviato storico de Il Corriere della Sera, continua tutt’oggi a inviare i suoi reportage dal mondo. Con le sue scarpe continua a muoversi tra l’Afganistan, l’Estremo e Medio Oriente e il Sudamerica.

 “Questi sono gli scarponi che mi hanno accompagnato nel mio primo viaggio nel Panshir  (Afganistan 1981), dove incontrai il leggendario comandante Massud, che divenne poi mio grande amico. Gli stessi scarponi li ho calzati in altre “escursioni” non proprio turistiche nel Medio Estremo Oriente, in Africa, in Sud America, ecc….   Che resistenza, questi scarponi!”. “Sono curioso –spiega il reporter- e le mie scarpe mi portano laddove arriva la mia curiosità. Vedere i fatti e ben diverso che raccontarli per sentito dire…”.

Oggi viene considerato uno degli ultimi grandi maestri della vecchia scuola di giornalismo: quella dei fatti e non solo delle parole.

LINK UFFICIALE DELLA MOSTRA

https://www.facebook.com/TerraNelleScarpe

 

                     


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