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Un sacchetto di plastica con dentro due zoccoli di legno tarlato. La storia arriva anche così: “Sono gli zoccoli che papà indossava nel campo di prigionia in Germania…” spiega oggi la figlia, Donatella Boesso, dopo averli presi dalla vecchia casa di famiglia in contrada Colombara a Villabalzana nel Basso Vicentino, dove sono rimasti in soffitta per oltre cinquant’anni. E’ qui che tra le antiche case dai spessi muri di pietra resistono ancora i ricordi, lontani dagli occhi indiscreti e fragori moderni della pianura. Memorie ricoperte di quella polvere che ha privato questi zoccoli del colore naturale, imbruniti dalla tragica storia di un padre di famiglia, Sergio Boesso (nella foto) che per mezzo secolo ha taciuto sull’orrore vissuto in guerra.
A Villabalzana si sapeva che era partito per la Russia come bersagliere nel 1942, dove qui venne ferito in battaglia ad una gamba sulle sponde del Don. Rimpatriato e curato in Italia, nel 1943 venne rispedito nuovamente al fronte, stavolta in Jugoslavia. Per lui è una nuova guerra. In tasca porterà il proiettile russo che gli venne estratto dalla gamba, che molti anni dopo lascerà al figlio Gianni che oggi lo porta appeso al collo. L’8 settembre del 1943 l’armistizio con la Germania, il bersagliere coi suoi compagni viene fatto prigioniero a Belgrado e stipato su carri bestiame dai tedeschi, convinto di tornarsene a casa.
Quel treno invece, viaggerà per sei giorni col suo carico umano verso Dachau, poco distante da Monaco di Baviera in Germania. Ma alla famiglia restava la curiosità su quel passato: “Papà che ti è successo là?” gli ripetevano di tanto in tanto i figli. E la sua era sempre la medesima risposta, fatta di silenzio e occhi lucidi. Per decenni si tiene tutto dentro, confidando sulla complicità della moglie Cecilia che oggi ha 87 anni. Lei sapeva tutto, così come conosceva la storia di quegli zoccoli lasciati in soffitta che nessuno doveva toccare. Solo Sergio in inverno se li infilava di tanto in tanto , mettendoci dentro della paglia prima di infilarvi le scarpe, trascinandoli per la corte come se il peso andasse oltre l’umano. “Ste boni, voialtri non podì capire… “ripeteva i figli che insistevano per giocarci.
Trascorsero gli anni e quegli zoccoli (nella foto) risuolati più volte dal papà, vecchi e poco pratici, sembrava avessero qualcosa di speciale, pensavano i figli. Finché il giorno di Natale del 1994, la convivialità famigliare venne interrotta dal padre: “Ci guardò con lo sguardo severo come non mai”, racconta oggi la figlia maestra Donatella, rivangando quel momento. “Tasì, parchè voiatri non capì cosa voia dire morire de fredo, caminando nea neve coe scarpe rote! Quei“sabot” come quei che gò in sofita me ga salvà la vita!” gli rispose il padre.
Per la prima volta dopo mezzo secolo si spalancavano così i cancelli della memoria, liberando i ricordi che sarebbero stati peggiori di ciò che aveva raccontato sulla Russia e Jugoslavia. “A Dachau –racconterà Sergio ai figli–, scendemmo dal carro come bestie affamate, senza che nessuno sapesse dove eravamo”. Un soldato vedendolo robusto e forte, lo scaraventò a terra intimandolo di alzare una trave di ferro poco distante: “D’istinto riuscii ad alzare la pesante trave, senza immaginare che quella rappresentava per me la salvezza. In pratica ero stato selezionato. Venni allora rimesso sul treno con metà dei compagni, mentre quelli rimasti non li avrei più rivisti”. “Viaggiammo per altri cinque giorni fino a giungere a Witzendorf , Nord-Germania”.
“Qui leggemmo la grande scritta della stazione prima di venire caricati sui camion fino al campo di destinazione, dove entrammo come prigionieri di guerra, col triangolo rosso sul petto, abili al lavoro”, con quel documento che conserverà in un cassetto di casa (nella foto) senza mai mostrarlo ai figli. “Era un campo più piccolo di quello di Dachau, ma con le medesime baracche di legno, dove l’unica fonte di riscaldamento era un fusto di ferro”. Ai tedeschi serviva manovalanza per l’industria bellica, così ai prigionieri veniva dato di lavorare in una fabbrica di olio per armamenti: “Questo significava per noi uscire dal campo di giorno e rientrare la sera, dopo dieci-dodici ore passate a caricare fusti di olio sui treni. Un sacrificio, ma anche una liberazione…”.
Qualche mese dopo, grazie proprio alla sua prestanza fisica, Sergio verrà notato dal responsabile civile dello stabilimento con cui stringerà un legame di stima tale che, non era raro lui gli offrisse del cibo anche per i compagni di baracca: “Quel tedesco era un uomo buono –ripeterà spesso Sergio-, mentre tra noi giravano voci su quello che fuori stava accadendo agli ebrei. In cuor nostro, tutti pensavamo che avremmo fatto la stessa fine”. Per i sei figli il nuovo capitolo di vita del padre era un salto nel buio, ma i dettagli erano troppo lucidi con l’ombra costante della morte su ogni sua parola: “Scarpe, abbigliamento e freddo, per noi significavano vita o morte, al punto che dormivamo accatastati su tavolati da sei, uno vicino l’altro -racconterà il padre- con le scarpe come cuscino per paura che ce le rubassero…”. I figli non sapranno mai chi in realtà diede al padre quegli zoccoli: “Era l’unico lusso che ci permettevano i tedeschi. Diversamente saremmo morti congelati”. La verità di quella storia, stava però cambiando il senso di tutti i restanti natali. Sergio racconterà anche quei suoi due natali passati nel campo prima di essere liberato dagli americani nel 1945: “Il primo Natale riuscimmo a mangiare coniglio”, che in realtà altro non era che un gatto catturato nelle vicinanze delle nostre baracche.
“L’odore-profumo che fuoriusciva dal camino insospettì i soldati di guardia che fecero un’ispezione su tutte le baracche. Nascondemmo la carne sotto il tavolato del pavimento, eludendo così la sorveglianza e quel giorno mangiammo carne e terra assieme,. Ma per tutti fu ugualmente una festa…”.
Sempre per la fame, un giorno Sergio sfiorerà nuovamente la morte: “Scoprii che l’olio che usavamo in fabbrica, andava bene anche per insaporire la nostra “sbobba”. Così a piccole dosi lo portavo di nascosto dentro il campo . Una soffiata e le SS trovarono uno di noi con l’olio nascosto sotto la giacchetta. La loro reazione fu immediata: un colpo alla nuca davanti ai nostri occhi. A me avrebbero riservato l’interrogatorio. Venni pestato a sangue con la grave accusa d’essere complice di un furto all’esercito tedesco. Non avrei avuto scampo, se non fosse intervenuto immantinente quel mio direttore di fabbrica (nella foto sopra) che disse ai soldati:
“Questo uomo serve più da vivo che da morto. Da solo riesce ad alzare un fusto d’olio…”.”Conciato come ero alle SS quelle parole dovettero sembrare quasi una sfida. Così mi ordinarono di alzare un fusto poco lontano. Non so come, ma riuscii a sollevarlo, e per la seconda volta la mia forza e volontà mi salvarono la vita”.
“Liberato qualche mese dopo dagli americani, Sergio tornerà a casa che pesava meno di cinquanta chili con il foglio di carta nascosto sotto la canottiera, su cui aveva annotato durante la prigionia tutti i nomi dei suoi compagni di baracca, immaginando che non sarebbe sopravvissuto”. “Quando Sergio tornò dopo due anni di prigionia –spiega oggi la moglie Cecilia-, i suoi famigliari stentarono a riconoscerlo. Da uomo forte e robusto, era diventato come un foglio di carta raggrinzito…”.
Quel Natale del 1993 squarcerà così il velo di silenzio del padre, svelando a tutta la famiglia Boesso la vera storia di quegli zoccoli lasciati in soffitta, sospesi nel tempo. Oggi quando passano di mano in mano, dai figli ai nipoti, qualcuno li tocca teneramente come se stessero facendo una carezza al padre o nonno. Una carezza alla memoria.
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“GLI ZOCCOLI DELLA MEMORIA” IN MOSTRA
Faranno parte della mostra “Terra nelle Scarpe” gli zoccoli che Sergio Boesso ha indossato nel campo di concentramento di Witzendorf. La volontà di poter esporre tra le “scarpe della storia” anche un paio di “sabot” indossati dai deportati della Seconda Guerra Mondiale, riempie qui un vuoto temporale. Dopo le scarpe dei soldati italiani e austriaci della Grande Guerra, a rappresentare il conflitto del ’40-’45 ci saranno queste scarpe come testimonianza delle atrocità compiute dal nazismo.
“Quando ho sentito l’ardore con cui gli organizzatori della meravigliosa mostra cercavano delle scarpe usate da qualche deportato nei campi di concentramento, – ha detto Donatella Boesso, subito dopo aver visitato l’esposizione- mi sono tornati subito alla mente gli zoccoli di papà, conservati in soffitta. Lui parlo della storia di quegli zoccoli dopo mezzo secolo dai fatti. Il suo silenzio, è e resta per noi l’emblema del dolore più muto e profondo che può provare una persona”. “Vederli ora in mostra per il loro significato, mi pare il giusto riconoscimento alla sua memoria, come di quanti hanno sofferto in quei drammatici anni” ha spiegato la figlia.
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