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Gli ultimi “scopettari” che stanno per entrare nella leggenda
E’il felice epilogo del film del 1951 “Miracolo a Milano”, tratto dal romanzo Totò il buono di Cesare Zavattini), capolavoro indiscusso di Vittorio De Sica, quello delle scope volanti che invadono il cielo della metropoli meneghina, parodia di una città che oggi invece soffoca nel suo traffico urbano. Per curioso che sia, anni dopo, Steven Spielberg si ispirò a quelle scope volanti per la celebre scena di E.T in versione bicicletta. Non sappiamo però se quelle scope di De Sica provenissero dalla Valdambra (Toscana), dove da millenni si perpetua la tradizione della fabbricazione delle scope di erica. Qui vantano il primato di produrre le scope più antiche d’Italia.
Sarà lì che forse conservano la formula per far levare le scope magiche? Non è dato a sapersi, anche se frequentando quella popolazione, il dubbio che la formula sia conservata gelosamente dentro i piccoli e pittoreschi borghi di Ambra e Pietraviva (Ar), incastonati negli Appennini, c’è eccome! Siamo nella patria incontrastata delle scope fatte con fasci di saggina. Un avamposto della tradizione come ultimo caposaldo di una sapienza artigiana, ormai quasi estinta. Luoghi semplici dai sapori antichi, dove le gesta quotidiane profumano ancora di una storia come si scorge osservando il mestiere degli ultimi artigiani “scopettari o scopaioli”.
Se poi da queste parti chiedete in giro dove sia “Bruna, la Mirella o Mario?” tutti vi rispondono: “A far granate!”. Questo potrebbe non rassicurarci, sentendo il termine, ma fanno presto a spiegarti che in pratica è il termine vernacolare con cui qui chiamano i fasci di “saggina o erica scoparia “. “Ma che avete capito, – rassicura la gente di queste valli -, le nostre granate non fanno male a nessuno. Al massimo, servono per un colpo al fondo schiena…”.
“Se le vere guerre fossero tutte così a di colpi scopa, -scherza Bruna Bianconi , 68 anni, costruttrice di scope-, c’è da scommetterci che non ci sarebbero morti e noi avremmo assicurato per molti altri anni ancora, questo nostro mestiere che sta per sparire. Anzi, è ormai scomparso, visto che noialtre siamo le ultime…”. Anche se qui, nelle valli boscose tra Siena ed Arezzo i borghi antichi e i mestieri artigiani sembrano proprio non volersi arrendere al tempo, la globalizzazione fa arrivare i suoi contraccolpi. Fatali, per un’attività che ormai conta appena una decina di artigiani. Ad accrescere il fascino del luogo che visitiamo, sono grandi cataste di saggina che somigliano a case abitate da personaggi delle fiabe.
“Granate” ben accatastate e pronte a partire per i mercati italiani. Nemmeno il mitico Herry Potter avrebbe trovato fortuna da queste parti. Questa è gente disincantata che mostra i suoi anni e le fatiche di un mestiere che nessun altro vuole fare. Nessuno dei giovani intende oggi occuparsi di queste cose. Loro vanno altrove, nelle città, lasciando il piccolo paese d’Ambra nelle mani agli ultimi baluardi di una tradizione che nei secoli passati ha fatto la gloria di questo scampolo di terra .Un mestiere quello di fabbricare scope a mano, che oggi sopravvive in piccoli laboratori, ancora in grado di produrre fino a 150 scope al giorno.
“Le nostre “granate” sono speciali, – afferma con orgoglio Mirella Galimberti, 55 anni, un’artigiana che ha ricavato il suo laboratorio sotto un antico portico di casa -, perché la nostra fortuna sta nell’avere la materia prima naturale, l’erica scoparia (8 specie diverse sono quelle presenti in Italia) che cresce spontaneamente in questi boschi. Ancor oggi questa particolarità permette di far volare il nostro prodotto fino all’estero con un incremento commerciale che però non lascia molte illusioni sul futuro”. I gesti sono gli stessi di sempre e le scope toscane hanno un metodo di lavorazione che parte dal bosco e finisce poi negli sgabuzzino di casa nostra. Si inizia con l’andare nei boschi dove si falcia l’erica arborea per poi si essiccarla al sole dividendola in maschi e femmine. “Avete capito bene, – sottolinea la signora Bruna-, le scope possono essere “maschi o femmine” per vie delle due varietà di erica scoparia che qui raccogliamo nel bosco”. Gli uomini tornano in paese a sera con il loro cargo di fasci d’erica, mentre le donne rimangono in casa a fabbricare “granate”. Le più brave riescono a confezionarne una in meno di un minuto, con abili e precisi gesti. Peccato solo che questo lavoro permette a malapena di sopravvivere, e la pubblicità stia “spazzando” via un mestiere che non è più competitivo.
La colpa in fondo, è l’avvento delle moderne scope di plastica. “I tempi son davvero cambiati, – sottolinea Cinzia Sani, una commerciante il cui bisnonno commerciava scope già un secolo fa – dal boom degli anni ’60, quando cioè in paese erano decine gli artigiani come noi. Resta un lavoro povero che richiede sacrificio, e il guadagno è rimasto identico a quello di un decennio fa. Una scopa fatta interamente a mano, costa al produttore non più di sessanta centesimi. Fate un pò voi! Ancora troppo se si considera l’insidia che questi artigiani debbono fronteggiare con l’avvento della concorrenza cinese.” Dalla Cina, infatti, giungono le scope di bambù che hanno soppiantato quelle tradizionali dei nostri negozi. In tutta Italia, ormai le scope sono “Made in China”. Anche loro, gli spazzini ovvero i clienti più tradizionali della Valdambra, sembrano aver tradito le “granate” italiane per le scope cinesi, meno durature ma più economiche.
“E’ un problema che crea svantaggi culturali e ambientali” dicono gli artigiani. “Cominciando dalla pulizia dei boschi, che sono sistematicamente abbandonati con il rischio d’incendio. L’unica vera scopa ecologica che va contro ogni pubblicità, rimane quella della Befana, visto che si utilizzano le verghe, le foglie come concime, gli scarti e la stessa scopa può diventare legna da ardere una volta consumata.” “Non resta che consolarci con un piccolo momento di gloria di due anni fa, -conclude Cinzia Sani- , quando Benigni ci chiese la fornitura di centocinquanta scope per la scenografia del film “La vita è bella” cui poi hanno dato l’Oscar.”Purtroppo però, la mitica “Nimbus 2000” di Herry Potter, non ha saputo fare di meglio per incrementare le vendite. Qui le scope volano davvero, ma sui carghi aerei con destinazione Svizzera e Germania, dove quelle italiane sono assai ricercate. Come a dire che: la scopa del vicino è sempre la migliore! Nella Valdambra intanto, il tempo passa e c’è chi in maniera sibillina spiega come presto, molto presto, questo mestiere scomparirà prestissimo dalla Valle. “Diventerà un ricordo perché non ci sarà più nessuno disposto a trasmettere l’arte artigiana delle “granate”. Allora, anche la fantasia delle fiabe dovrà cercarsi un mezzo con cui sostituire quella semplice quanto utile scopa di erica. L’unica differenza allora, la facciamo noi consumatori da supermercato, quando nel momento di scegliere una scopa per casa ci poniamo la questione: la vogliamo italiana o preferiamo quella cinese. Da questa scelta dipende il futuro di un manipolo di artigiani e della loro tradizione che alimenta ancora la fantasia di mezzo mondo.
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LA “SPASAORA” VENETA
Paese che vai, scope che trovi! Pare di sì, visto che i modelli sono gli stessi benché cambino i materiali. Alle più illustri “granate” toscane, nel Veneto esiste un’altrettanto antica tradizione: quella delle “spasaore”. “Far scoe da ara o cusina, – racconta Osvaldo Toffanin, 70 anni di Montegaldella (Vi) – era un’abitudine che occupava il tempo invernale, quello dei filò accanto ai focolari o nelle stalle, di quasi tutti i contadini.
Oltre che una tradizione, allora per noi era una consuetudine che si tramandava di padre in figlio.Fu mio padre all’età di quindici anni – continua l’agricoltore- ad insegnarmi come raccogliere le “naje de grena” i fasci di saggina, e raddrizzarle con una stecca di legno per poi legarle assieme, seguendo poche regole pratiche e un pizzico d’esperienza…”Abili mani che sapevano intrecciare “strope” di salice o saggina , sembrano oggi avere perso l’antica dimestichezza: “Ancò semo tuti pì siori – commenta ironicamente Meneghini-, così che farse le scoe ze masa fadiga e ze un lavoro da poareti!” Toni Pierantoni, 72 anni da poco, sebbene ammetta che in casa sua ormai le scope non siano più come quelle che lui costruiva, la soddisfazione di poter scopare il cortile con una “spasaora” non gli è passata.
“Quando ze el momento, -dice il contadino veneto -, qualche vecia scoa ea salta sempre fora, anca parchè non me so desmentegà de come le se fa!” Come ogni inverno, questi temprati contadini sono soliti a sfrondare le siepi cercando verghe di salice o sandena : “Ormai anca voendo far scoe, non te cati più i grandi siesoni de sti ani, e tutto ze deventà come un deserto!” Nel frattempo, il vero problema è che nessuno dei loro nipoti sembra più mostrare interesse per l’arte dei nonni: “Figuremose se i ga voja de far fadiga – replica Meneghini-, i gà ea teevision che ghe insegna tutto!”
Nessuno di loro saprà più a cosa servisse il “tamaro”, impiegato allora per raddrizzare i rami delle “scoe da ara”. Si perderanno quei piccoli segreti, come “el saper tajare il legno quando caea la luna …” dice Osvaldo Toffanin. Allora si dirà: “C’erano una volta i costruttori di scope…”, così i nostri giovani maghetti del video, non sapranno mai che le sementi raccolte dopo aver pettinato con la “streja” i fasci di saggina, erano dati in pasto alle tacchine in cova perché ricchi di sostanze nutrienti.
“Non ze soeo questo, – risponde Toni Pierantoni- , ze drio n’andare a ramengo tutta la cultura dei campi e dea campagna!”. “Non ze rimasto ormai pì gnente de queo che fasevimo stì ani…”. Salviamo le scope dunque, per salvare uno scampolo di cultura: per questo qualcuno sta già pensato ad un originale marchio : dopo il D.O.C arriva oggi il “D.O.F.” (Denominazione Origine Fantastica). Per dire che le “spasaore venete come le granate toscane”, sono il simbolo di una civiltà prossima alla scomparsa.
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