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FANTASIA SENZA ALBERI
Uno speciale reportage natalizio, tra le foreste abbattute dalle forza del vento. Quando l’ecologia parla di fantasia.
Proprio così: questo è il Natale che non vorremmo. Non vorremmo vedere gli abeti trasformati in un tappeto di legno. Non vorremmo vedere le montagne spogliate delle loro foreste. I paesi scolpiti dalla forza del vento. I boscaioli e falegnami, preoccupati per il loro destino. I paesaggi cancellati. I meteorologi sconcertati. I politici con la solita nenia: “Non vi lasceremo soli!”. La stessa fantasia, scippata del suo contesto naturale. Quanto accaduto nell’ottobre scorso sulle nostre montagne, non è più un avvertimento sporadico, ma una conseguenza del repentino cambiamento globale. La ciclicità di questi “eventi estremi” è divenuta una costante, con le risposte della comunità internazionale in materia ambientale che tardano a venire, rimandandole nel tempo. L’ultimo caso è il summit COP24 di Kracovia in Polonia, appena conclusosi con impegni di facciata, un nulla di fatto, come se il futuro del pianeta e nostro, fosse frutto di un compromesso.
Stiamo noi stessi diventando resilienti alle catastrofi, scervellandoci semmai sui nomi da attribuire a questo o quell’evento per poi consegnarlo alla breve memoria. Per settimane si è discusso sulla classificazione da dare al “vento estremo” che ha spazzolato le montagne venete e trentine. Alla fine, la scelta tra gli studiosi è andata su “tornado e/o tromba d’aria” che ha sradicato tredici milioni di abeti. Numeri da ecatombe, con scenari di guerra e scenari fin’ora mai ipotizzati. E pensare che la lungimirante fantasia del bellunese Dino Buzzati, nel 1935 ne “Il Segreto del bosco Vecchio” parlava di una forza spaventosa “il vento Matteo”, rinchiusa e poi liberata da un antro delle Dolomiti. Simbolico linguaggio, certo, ma che alla visione dei fatti prende corpo e forma, dando alla favola il senso di una triste parabola per il nostro presente e futuro. “Hanno liberato il vento Matteo…” fa dire Buzzati alle creature terrorizzate del bosco.
E quel vento pare davvero essersi materializzato. “Torneranno le foreste e i prati?”, potremmo parafrasare citando l’omonimo film di Ermanno Olmi, girato per buona parte tra i boschi di Val Formica, oggi barbarizzati dal vento. Ha parlato di alberi anche un altro nostro grande montanaro, Mario Rigoni Stern, che così scriveva: «Tra i rami dei grandi alberi mi sono arrampicato per guardare il cielo. A loro devo la mia vita…». Il poeta Andrea Zanzotto, uomo di pianura, che volgeva lo sguardo verso la Pedemontana, ci offriva versi e riflessioni sul mutar del paesaggio:«Siamo passati dai campi di sterminio. Allo sterminio dei campi!» ammoniva con pragmatica saggezza.
Non voglio attingere alla troppa fantasia per immaginare cosa queste figure del passato, più che mai vive nella memoria, avrebbero detto su questo “fenomeno estremo” di cui siamo testimoni. Loro che il bosco lo vivevano come creatura, e non solo come oggetto economico. Che sentivano le foreste come casa e tempio, com’era fin dall’antichità. Spazi sacri. Luoghi di racconto. Ambienti fantastici. Spazi di poesia sposata con gli alberi. I “filò” poi delle serate invernali a lume di candela nelle stalle, narravano di selve impenetrabili, animate da magiche creature: fate, gnomi, salbanei e omeni selvadeghi, affidati ora solo ai nostalgici dell’infanzia perduta. Oggi, non solo abbiamo perso questa silvestre memoria, ma non riconosciamo più al bosco il suo arcano valore simbolico. Abbiamo disperso così la sua dimensione allusiva, come pure la reale funzione naturale: senza ecologia (cioè la “scienza della casa”) si estinguerebbe la stessa fantasia. Per questo il grande bosco è come la “rosa” de Il Piccolo Principe: un valore che va oltre la materia (il legno), che il Natale fa puntualmente riaffiorare.
“HO IMMAGINATO BABBO NATALE CHE….”
Proprio lui, l’immaginifico personaggio vestito di rosso (nato nel 1920 per una necessità meramente consumistica) è affiancato al simbolo stesso del Natale: l’abete (l’antico albero della vita e luce invernale). L’albero del dopoguerra, capace di cancellare le ferite del primo conflitto mondiale. Il mio è stato un pellegrinaggio fotografico, dall’Altopiano di Asiago, all’Agordino Cadorino, fino alla Val di Fiemme, colpite da un altro genere di guerra. Ma pur sempre una guerra: quella climatica. Qui ho immaginato di vedere con gli occhi della fantasia (di Babbo Natale) la devastazione arrecata. Le immagini che ne sono scaturite, vogliono essere una provocazione che va oltre l’apparenza. Una metafora di stretta attualità: con il simbolo che scruta quello che gli occhi faticano a vedere.
Talmente grande e grave il danno naturale in questi territori, che tutto ciò che si è visto in Tv e giornali, che non basta a descriverne la realtà. Ecco perché l’invito qui è una forma di cultura e sensibilità: andate a vedere dal vivo questi luoghi. Solo così toccherete con mano cosa sia il “global warming”, il cambiamento climatico. Ultima frontiera prima della nostra stessa estinzione. L’appello lo rivolgo in particolar alle scuole e insegnanti, perché salgano in montagna, per un’uscita didattica. Non farlo sarebbe un’occasione persa. Una speranza in meno per accrescere la coscienza civile-ambientale sugli scenari futuri che ci spettano. Come pure un pellegrinaggio laico alla cultura del bosco perduto, che tornerà, forse, con gli alberi che verranno ripiantati per le generazioni che verranno.
GALLERIA DELLA CAMPAGNA