UN CASTELLANO ALLA MODA

Di Antonio Gregolin                                             testo e foto riservati -Copyright 2013-

  SPECIALE 100MILA CONTATTI  

UN CASTELLANO ALLA MODA

Stefano Sorlini, è un imprenditore con una eredità storico-culturale di famiglia che l’ha trasformato da “castellano antico” a  moderno produttore di moda che “porta per strada la bellezza nazionale dei nostri quadri”. Come? Scopritelo…

Da castellano antico ad artigiano della bellezza del nostro tempo. Accade così che un figlio di un industriale bresciano, erediti un castello dal padre, e dopo essere cresciuto con il “bello” di famiglia, senta un forte richiamo verso l’arte. Un’arte che egli vuole oggi portare per strada”. Un percorso filologico che  in un momento di rapidi cambiamenti come questo, sta trasformando un rampante imprenditore come Stefano Sorlini, 49 anni, in un produttore di “bellezza alla moda”. Non è  però un’ardita impresa  per trovare sbocchi economici.  Il suo resta un sottile piacere di condividere la bellezza pittorica, che dalle tela di prestigiosi artisti, passerà alla stampa nelle pieghe di un vestito d’alta moda di seta pregiata.
Cosa di altissima maestria sartoriale, ma Stefano non è uno stilista: “Sono solo uno che ha delle idee -afferma-, che vorrei condividere con giovani promettenti artigiani del mestiere, capaci di trasformare un’opera d’arte in un’opera da indossare!”. Ecco come un castellano, proprietario di uno dei manieri più superbi e meglioconservati del Vicentino, quello di Montegalda che fu castello e poi villa veneta, si affaccia nel mondo della moda internazionale, non con la volontà di fondare una nuova griffe, ma piuttosto uno stile che sappia di autentico “Made in Italy”. 

Una maniera per fare indossare la bellezza nazionale:”Oggi più che mai -dice Sorlini- il nostro Paese deve trovare il modo per riportare la sua bellezza al centro del mondo. Abbiamo opere e monumenti che tutti c’invidiano, ma non sempre sappiamo valorizzarli. Anzi…”. Questione di marketing? “Anche, ma soprattutto di stile e gusto! Le opere sono già qui, basterebbe solo portare fuori virtualmente dai musei, per poi lasciarle camminare per strada…”.

Su dei vestiti ad esempio”. Il resto lo farà lo sguardo di chi guarda. Ha le idee chiare questo imprenditore prestato all’arte e alla moda, e sebbene l’idea di stampare l’arte dei vestiti sia già sviluppata negli anni dalle note firme internazionali, la società produttrice “Tyche Srl” di Stefano Sorlini, ha come valore aggiunto, la filosofia dell’utilizzo dell’arte nella moda. “Non sfrutterò l’immagine artistica per adattarla all’abito.
Al contrario, sarà l’arte per l’arte ad infondere al vestito la capacità di diventare portatore di bellezza  quotidianità. Mi spiego?”, anche se non sarà di certo a basso prezzo, vista la limitata tiratura degli abiti, realizzati tutti con raffinate sete e maestranze artigiane nazionali. 

La storia personale di Stefano Sorlini, s’intreccia fin da ragazzo con quella del castello di Montegalda, dopo che il padre Luciano nel 1971 acquistò il superbo maniero allora ridotto a una montagna di pietre, dalla storica famiglia Grimani di Venezia. Da quel momento il castello che domina da un mammellone di calcare sulla piana tra Vicenza e Padova, grazie ai suoi nuovi “castellani” bresciani ebbe una seconda rinascenza. Un simbolo, prima ancora che un’antica fortezza militare. Un modello d’architettura scampato al passaggio tra maniero a villa veneta. Presenza viva nel territorio Vicentino, il castello non ha emuli nonostante le tracce di altrettanti manieri medioevali nell’area, tutti andati distrutti dalla storia.

Il frastagliato profilo di creste merlate si ammira ancora da chilometri di distanza, con mille anni di storia che dialoga con il territorio circostante, ponte tra i Monti Berici ed Euganei. “Un maniero medievale divenuto nel frattempo la mia seconda casa” come racconterà Stefano, coi ricordi di questo ambiente che fanno da sfondo ai momenti più significativi della sua vita. Uno è il ritorno a casa dopo essere sbarcato a Taranto da una nave militare dove aveva prestato servizio per due anni. Giunse a notte fonda, col congedo in mano, al castello di Montegalda: “Avevo poco più di venti anni e mio padre aprendomi la porta, disse: “ Sei arrivato? Domattina cosa vuoi fare: studiare o lavorare?”.
Gli risposi che volevo lavorare e mio padre aggiunse: “Bene, alle otto di domattina presentati a Brescia in ditta per lavorare come addetto consegne con il camion notturno che trasportava l’esplosivo in
dustriale che producevamo”.

 

Lo stipendio –precisò allora poi mio padre-, sarebbe stato il minimo e senza privilegi, per essere d’esempio agli altri dipendenti. Fu il mio ritorno alla vita civile e una lezione di vita!”. “Più che proprietari, oggi con le mie sorelle  Cinzia e Silvia, ci sentiamo custodi di quel tempo che ci unisce a queste pietre e torri”. “Una missione di responsabilità –quella di conservare e restaurare senza l’ausilio di fondi statali-, per qualcosa che vogliamo sia un bene di tutti: del paese, come della gente che quotidianamente gli volge lo sguardo. Per questo abbiamo il dovere di conservarlo per le generazioni future, trasmettendo questo sentimento ai nostri figli e nipoti cui passeremo il patrimonio”.  

Distaccatosi con gli anni dalla strada paterna, Stefano oggi sente il peso dell’eredità lasciatagli anche dal nonno Antonio, che l’ha contagiato: “Essere circondati dal bello è senza dubbio una  fortuna –aggiunge-, ma non è mai stato un privilegio scontato, visto che la fortuna devi creartela e semmai saperla conservare! Un castello o un palazzo, sono strutture vive che non transigono trascuratezza o inesperienza”. Oggi quella “bellezza” che ha respirato fin da bambino gli sta offrendo nuovi stimoli imprenditoriali: “Sarà forse per la maturità che avanza. Non farò mai lo stilista! Ce ne sono già troppi. Mi limiterò a soddisfare quel mio piacere che va oltre il senso economico dell’idea, con un nuovo genere di moda che non ripete quanto già visto”. “Che sia forse per il dilagare del brutto che vedo in giro, e non ultimo l’incuria con cui l’Italia tratta il suo patrimonio, ma sento il dovere di trovare nel bello un riscatto nazionale”. Ecco allora come volti di raffinate madonne e donne dell’arte rinascimentale,  stampati su seta, hanno visto nascere l’anno scorso la prima linea di abiti a tiratura limitata della “Tyche Srl”.

L’interesse di acquirenti e operatori della moda fu tale che il castellano prestato alla moda, c’ha preso gusto e oggi presenta la nuova collezione 2014 nei circuiti nazionali e internazionali. Da questo primo intuito, Stefano Sorlini oggi rivendica “il piacere appagante di sentirsi artigiano del bello”. Una volontà che corrobora al sostegno della cultura nazionale in quest’ora buia: “Un lavoro sinergico e famigliare con le mie due sorelle –conclude il castellano-, che alimenta gli stimoli  utili a ribadire come l’uomo non viva di solo pane; e come gli italiani potrebbero vivere della loro cultura”. Ribaltando così l’anatema di qualche illustre politico che disse come “con la cultura non si mangia”. Almeno, in questo caso serve a vestirci .

IL CASTELLO DI MONTEGALDA COME L’HO ILLUMINATO IN OCCASIONE DELLA TRE GIORNI DI MANIFESTAZIONI

 

 

PASSO DOPO PASSO FINO A GERUSALEMME

di Antonio Gregolin con testo e foto riservate Copyright 2013

speciale 90mila contatti

PASSO DOPO PASSO FINO A GERUSALEMME  

Per celebrare i 90mila contatti di questo Blog nato nel 2011, in regalo un singolare racconto che sa di storia antica, realtà e…”follia” moderna.

5400 chilometri a piedi da Canterbury a Roma, e da qui giù fino a Gerusalemme. Dodici nazioni. Due paia di scarpe e come allenamento, tre volte il Cammino di Compostela. Così si può camminare per sport o passatempo. Per impeto religioso, per lavoro o per passione. Difficile però collocare il sessantatreenne pensionato vicentino, Giovanni Bruttomesso, in una di queste categorie. Lui rifiuta le etichette: “Me le sentirei strette, visto che cammino per il semplice gusto di farlo!” 

Canterbury-Roma e poi Roma-Gerusalemme a piedi come un antico pellegrino, il tutto in 160 giorni di cammino e  oltre cinquemila chilometri, con un compagno di strada trovato per caso in Internet, una settimana prima della sua partenza da Roma il 18 marzo 2013.

 


A
Gerusalemme quando i due arrivarono nel luglio dell’anno scorso, non ebbero un’entrata trionfale. Nessuno ad accoglierli, e curiosamente a Betlemme mentre chiedevano riparo per la notte, sperimentarono ciò che provarono Giuseppe e Maria,  duemila anni prima, quando bussarono anch’essi alle porte chiedendo ospitalità. Giovanni e Luigi si rivolsero da subito agli istituti cristiani, sentendosi però rispondere: “Ci spiace, ma siamo al completo!”. Così i due finirono con l’essere accolti in un campo profughi palestinese. 

E’ uno dei tanti episodi di “pellegrinazione” che  strappano ancora un sorriso a Giovanni quando lo racconta: “E’ paradossale, ma in sei mesi di cammino, con due scali tecnici per mare dalla Puglia all’Albania, e per il conflitto siriano da Tarso a Tripoli del Libano, i mussulmani ci hanno sempre accolto con entusiasmo nelle moschee, ostelli o case private, tutti sorpresi e affascinati dalla nostra avventura. I cristiani in generale invece, ci hanno sempre accolto con un senso di dovere, ma con un certo distacco”. Giovanni e Luigi non sono però dei professionisti o sportivi, e si affidano al destino della strada che li porterà ad avere straordinari incontri di umanità. A spingere l’ex-artigiano del tessile vicentino, non era neppure un gesto di fede che servisse  mortificare il corpo come era nell’antichità.

Non cercava neppure la sfida con se stesso: “Era dai tempi della scuola –rammenta Giovanni-, quando leggendo le imprese epiche di Marco Polo o dei crociati, che coltivavo il desiderio di provare sui miei piedi, cosa significasse compiere il viaggio fino a Gerusalemme. Non volevo però la sfida o l’impresa, ma semmai il piacere di camminare verso…”. “Verso l’avventura e il raggiungimento del senso di libertà che il camminatore di ogni tempo riceve come appagamento  del suo sforzo. 

Per Giovanni camminare resta un’autentica passione, esplosa con l’arrivo della pensione e su consiglio del suo medico che un giorno gli raccomandò: “Per moderare la pressione, dovresti fare qualche passeggiata…”. Non pensava certo quanto avrebbe poi compiuto il pensionato, che tutt’oggi copre 25km a piedi per quattro volte la settimana come divertimento. Prima di partire per Gerusalemme ha intrapreso tre viaggi sul Cammino di Compostela come allenamento. Così vedendo Giovanni con la faccia serena e un corpo asciutto per niente palestrato, viene oggi spontaneo pensare che la pensione faccia  miracoli di volontà! 

Nessun estremismo il suo, ma un senso di naturale movimento che non ha nulla a che vedere con le forme di tendenza di quanti oggi s’improvvisano camminatori-pellegrini: “Ne ho incontrati molti nei miei viaggi a Santiago, di pellegrini vocati alla sfida con se stessi, al limite delle forze, con un ostentato esibizionismo. Camminare oggigiorno equivale ad una sfida che va ben oltre la moda del momento, al punto che oggi nelle strade verso Compostela fatichi a trovare spazi di autentica solitudine. Il vero pellegrino-camminatore ha solo la meta come unico obiettivo. Ma la vera sfida sta tutta nel rapporto tra la mente e il corpo. Nel trovare l’equilibrio interiore che ti fa superare la fatica e le avversità del clima e ti permette di arrivare laddove volevi. In questo è racchiuso il segreto del camminatore di ogni tempo!”. 

Equilibrio di cui Giovanni pare essere  dotato naturalmente, visto come oggi parla serafico dal divano di casa, dei suoi cinquemila chilometri  a piedi, come di una passeggiata: “Una lunga camminata –precisa lui-, chiedetelo a mia moglie Maria Pia che mi ha atteso per sei mesi, sentendomi al telefono due volte la settimana”. 

Il suo avvicinamento al pellegrinaggio su grandi distanze, fu però graduale: “Nel 2010 e 2011 il ripetuto Cammino di Santiago, poi nel 2012 la Via Francigena, da Canterbury a Roma, e l’anno dopo da qui a Gerusalemme”. La prima tratta di duemila chilometri dall’Inghilterra a Roma fu in solitaria, per un totale di 56 giornate di cammino; mentre l’ultimo lungo tratto di 3500 km fino alla Terra Santa, dal 18 marzo al 2 luglio 2013 l’ha compiuto in compagnia dell’amico Luigi. Il tutto senza sponsor e assistenza tecnica:

 “Quando cammino voglio essere libero da ogni condizionamento –precisa Giovanni-, solo così sento e vivo la strada diventare incognita e risposta nello tempo stesso. Non cerco l’ostentazione dell’ impresa, ma solo emozioni! Chissà quante migliaia di pellegrini prima di me hanno percorso questo tragitto? Io ho portato i miei piedi sui loro passi!”. Semplifica il camminatore, al punto da rendere facili anche le immaginabili difficoltà: “Abbiamo viaggiato sotto il sole e la pioggia –racconta-, salendo montagne, laghi salati e deserti. Camminando dal sorgere del sole fino all’ora di pranzo, per poi trovare riparo dal calore, ritrovando  tutti gli equilibri naturali che abbiamo perso. Mangi quando ha fame e appena puoi. Il  tuo peso corporeo diventa un tutt’uno con lo zaino che porti sulle spalle. Devi farti leggero, nel pensiero come nel movimento: così che tutto si assottiglia fino a diventare essenziale, riscoprendo il poco che ti serve e il superfluo che hai . Pensiero e piedi si fondono, facendoti sentire il contatto con la terra, spingendoti a cercare momenti di autentica solitudine che per la strada sono essenziali tanto quanto l’acqua o il pane, trovando  il tuo passo, distanziandoti spesso di qualche centinaio di metri dal tuo vicino. E’ questo lo sa bene chi cammina in coppia”. Un decalogo del buon camminatore, frutto d’esperienza pratica più che di idealità: “La strada resta maestra di vita –aggiunge Giovanni- al punto che a 63 anni sento ancora di dover maturare e di voler imparare…”. E’ questo,  il vero “motore mentale” di cui il nostro camminatore fa spesso riferimento: “Oggi abbiamo perso ogni forma di contatto con i nostri piedi e con la terra stessa. Facciamo palestra, standocene fermi nello stesso luogo.  Ma che noia!”.

Parla dei suoi incontri come dell’incommensurabilità dell’esperienza: “Ricordo l’arrivo a Gerusalemme quel pomeriggio del 5 luglio 2013: eravamo al tramonto e il sole gareggiava con la lucentezza della moschea della cupola d’oro. Avevamo la meta a portata di mano. Il pellegrinaggio si chiudeva così, con la stanchezza che si frapponeva alla nostalgia del traguardo. Sentivamo che la storia era davanti e dentro di noi, al punto da portarci alle lacrime. In quei pochi istanti senti la leggerezza addolcire il peso dei mesi di cammino, con i ricordi che ti riportano a gesti, sguardi, abbracci che hai ricevuto da un’umanità multicolore che si è avvicina a te. Gente di ogni lingua e fede, con cui spesso hai comunicato  solo a gesti, sufficienti però a farti spalancare le porte del loro mondo, senza pregiudizio”.

Da pellegrino –continua Bruttomesso-, sai di avere bisogno di tutto e tutti, e questo a distanza di secoli, resta il patto di fiducia con la strada che hai davanti”. Se il Cammino di Compostela è ormai una meta di tendenza, diciamo pure alla moda, congestionato da uomini di tutto il mondo, l’antico cammino dei crociati e pellegrini verso Gerusalemme, rimane oggi pressoché spopolato: “Non abbiamo mai incontrato nessuno come noi diretto a Gerusalemme. Difficile è stato ritrovare l’antico tracciato punteggiato di caravanserragli ormai ridotti in ruderi. Di monasteri e villaggi millenari di cui rimangono solo fondamenta e polvere, mentre montagne, deserti e fiumi restavano gli stessi”. Pragmatismo del cammino e icona del pellegrinaggio terreno, con scarpe e sandali impolverati che diventano simboli del vissuto e del vivere.

Per questo Giovanni al suo rientro ha voluto donare i suoi  scarponcini alla mostra “Terra nelle scarpe” dove verranno esposti nella sezione “Scarpe dello spirito”. Lo spirito del camminatore è quello di vivere  la meta non come un fine, ma una tappa: “Ecco perché ora stiamo pianificando –ma in realtà hanno già deciso-, d’intraprendere a marzo un’altra storica strada dei pellegrini. Stavolta andremo in India, dove percorreremo il sentiero dei quattro santuari induisti alle sorgenti del Gange”. Ottocento chilometri impegnativi, con grandi dislivelli che li porterà fino a 4mila metri d’altitudine, ai piedi della catena himalayana:

Qui –conclude il pensionato-camminatore-, ci confonderemo con i pellegrini di una diversa religione, sapendo che la strada resta l’unico spazio di vita che ci rende tutti uguali. Ultreya o Suseya”.  

   PS. Si tratta dell’antico augurio-incitamento dell’inno medievale (tuttora in uso) dei pellegrini verso Compostela.  Al saluto  ULTREYA” l’’altro pellegrino rispondeva “SUSEYA”. Anche se questo modo di salutarsi e incitarsi non trova riscontro in nessun documento ufficiale, ancora oggi durante il Cammino  nei momenti di difficoltà, si possono udire queste parole magiche.

STORIE DI STRAORDINARIA NORMALITA’

di Antonio Gregolin                  copyright 2012 divieto di riproduzione di testo e immagini

Due racconti diversi e lontani tra loro. Storie credibili e semplici di chi non fa notizia, capaci però d’infondere quel “gusto del vivere” che  non si trova tra le pagine dei quotidiani. Non eroi, ma uomini e donne che a loro modo salvano un/il mondo…

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COSI’ SALVO LA MIA AMAZZONIA

La storia di una vulcanica religiosa vicentina che salva vite per salvaguardare la “sua foresta”

Cè l’Amazzonia devastata per le sue risorse naturali e quella che qualcuno tenta di salvare con le sue risorse umane. Un piccolo ma sostanziale contributo, lo offre da oltre trent’anni un’audace e vigorosa donna vicentina, religiosa delle Figlie di Maria Ausiliatrice,e infermiera dei poveri. Lo dimostra l’anello di legno tropicale scuro che porta al dito: “Un segno distintivo –spiega suor Rosy Lapo, 64 anni -, che mi è stato offerto dalla gente dell’Amazzonia. Qualcosa di più di un voto religioso. Un  patto scritto nel cuore mio e loro, che vale quanto un passaporto ufficiale in quelle terre sconfinate”. L’Amazzonia vergine di cui parla la suora, appare inimmaginabile dal salotto di casa a Longare (Vi), dove la religiosa è ritornata dopo quattro anni di assenza dalla famiglia. “E’ tornato l’uragano…” commenta uno dei suoi nove fratelli, di cui uno missionario salesiano in Brasile, descrivendo la grinta della suora.

Di energia Rosy, come preferisce essere chiamata lei, ne ha da vendere e altrettanta gliene serve per vivere in un’area sul confine tra Brasile e Colombia, laddove il Rio Negro è l’unica via di comunicazione dentro la foresta, con la capitale Manaus che dista 1200 chilometri dalla  sua missione; con cascate da superare e più di cinque giorni di barca con diversi trasbordi. “In pratica –racconta Rosy-, per  far ritorno in Italia ho impiegato otto giorni tra cammino, barca e aereo. Forse più di un pellegrinaggio e lo stesso mi aspetta al ritorno ai primi di ottobre (2013)”. “La foresta non è il paradiso terreste come  la s’immagina da qui, -aggiunge la suora- con i confort turistici. E’ un mondo a noi inimmaginabile per grandezza, bellezza e difficoltà”. E’ il mondo degli indios, dei poveri ma ricchi di dignità, che esigono di continuare a vivere di foresta: “Siamo nell’altro mondo –racconta la suora-, dove non c’è elettricità. Non esiste la moneta, ma solo il baratto. Dove si coltiva solo ciò che basta per sopravvivere. Nella missione e nell’ospedale che dirigo, abbiamo cinquanta telefoni, ma solo uno funziona un’ora al giorno”. Così possono trascorrere mesi prima che suor Rosy chiami a casa: “I miei fratelli sono abituati – aggiunge con ironia- e sanno che riesco a cavarmela bene. Ho due braccia e due gambe forti…”. C’è tutto il pragmatismo di una missionaria e la tempra di una donna venuta dalla campagna veneta “de stì ani”: “La foresta non ha alcun paragone con gli ambienti nostrani –spiega-, ma gli uomini sono tutti uguali con le medesime primarie esigenze. Con una sola sostanziale differenza: da noi i bambini hanno tutto, ma appaiono tristi. Là invece, hanno poco ma con un sorriso che mi ripaga di ogni sforzo. Ecco perché ogni volta che aiuto nascere un bambino vedo il sorriso di Dio.

Oggi la mia presenza non è quella di “evangelizzare”, ma di essere testimone. Difatti, non chiedo mai il battesimo, sono loro che ne esprimono la volontà. Il cristianesimo per noi è altro. E’ vita quotidiana con i fratelli…”. Si spinge pure a fare un calcolo approssimativo: “Il più di trentacinque anni di missione amazzonica, senza contare quelli trascorsi prima in Africa, devo aver fatto nascere circa quattromila bambini” dice sorridendo la suora.

 La gioia però si scontra con la realtà, e le “comodità” di cui parla Rosy, sono quelle di dormire in un amaca condivisa in una capanne con altre settanta persone. Di alzarsi alle cinque del mattino per farsi il bagno nel fiume, prima che si svegli la tribù e gli rubi tutto il sapone. Delle cene a base di pesce, carne e frutta che la foresta quotidianamente offre alla sua gente: “Nella foresta si può morire di diarrea, come per un morso di serpente o un’infezioni. A queste necessità cerco di porre rimedio io con le altre mie tre consorelle della missione. Curiamo gli indios che arrivano dal fiume fino all’ospedale. Oppure, andiamo noi, seguendo il fiume, fino ai villaggi più lontani. E’ come la vita che si  faceva da noi più di cento anni fa, quando ci si muoveva solo per necessità e la vita era condivisa con gli altri. Quella solidarietà che in foresta è vitale, dove ci si aiuta l’uno con l’altro”. I rischi imposti dalle grandi industrie di legname sono una minaccia ancora lontana dalla missione di Rosy, anche se l’aspetto ambientale è al centro della sua cultura di formazione: “Negli anni ho visto gli indios cui facevo scuola, diventare loro stessi insegnanti.

Grazie a questi, cerchiamo di diffondere il rispetto verso la terra. Gli indios sanno bene che la terra è vita. La loro vita. Per questo disboscano, bruciando solo piccole porzione necessarie al loro sostentamento. Insegniamo che non è importante la quantità di cui siamo malati noi occidentali, ma la conservazione”. 

In Amazzonia –conclude la suora- si giocano le sorti del mondo. Le sorti di ognuno di noi che direttamente o indirettamente dipendiamo da questo ambiente unico sulla terra. La nostra resta un’area ancora incontaminata dove la grandi multinazionali non sono ancora arrivate. Ma il pericolo è dietro l’angolo. Per questo, cerchiamo di formare i veri abitanti della foresta anche sul piano legale. Puntiamo sulla coscienza di chi la abita, la vive, la usa, pur sapendo che il futuro della sua popolazione potrebbe essere determinato da coloro che vogliono solo sfruttarne le risorse naturali. Errore che noi occidentali abbiamo già compiuto in passato, verso molte civiltà, ma che stavolta mette a repentaglio il futuro stesso del nostro pianeta. Una partita che non dobbiamo e possiamo permetterci di perdere!”.

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ALPINO,POETA  E CONTADINO

Il vicentino Eugenio Serafin, 94 anni,  è uno degli ultimi reduci d’Albania. Tornato dalla guerra, scopre una vena poetica che oggi è diventata un libro 

Eun vecchietto “innamorato” della vita, di sua moglie, della storia e poesia: “Animo anziani! Non siam fragili pioppe/ ma robuste querce. Seppur con molti stenti/ abbiam resistito all’infuriar dei venti…Quanto è dura la vita/eravamo dediti a dire/ ma quanto bella ci sembra or che sta per finire”. Sono i versi di Eugenio Serafin, per tutti “Gino”, un contadino divenuto poeta a settant’anni che oggi a 94 anni, seguita a vive in un minuscolo paesello del Vicentino, dov’é uno dei reduci alpini e medaglia di guerra più longevi della provincia veneta. E’ qui che lui scrive poesie su uomini e terra, compreso il segreto della sua vitalità: “Ridi de tuto e de tuti/ anche de te steso/ ma par rèndare manco dura la vita/ non par dispresso”. Un anziano innamorato della vita quanto della moglie Domitilla, 85 anni, che dopo le nozze di diamante, guardando il marito ripete: “E’ il mio tesoro. Bello oggi come allora. Adesso poi che si sente pure poeta…”. Un poeta con un casto romanticismo e ottimismo. Ottimista lo fu anche quando nel 1940 si trovò nei campi di battaglia dell’Albania.Ora che la sua lunga vita è diventata un libro bibliografico dal titolo “Dicono ch’io son poeta”, scritto dal conterraneo e alpino Livio Rappo, dove tra le righe Gino miscela l’orrore della guerra con la mitezza del suo poetare. Vita da contadino, con la quarta elementare e un amore per l’italiano e la poesia: “Pascoli, Carducci, ma soprattutto Leopardi, mi sono sempre piaciuti” racconta l’anziano che ha vissuto la sua vita tra il casolare paterno in via S.Salvatore, ancora lì com’era quando vi è nato, e la casa degli anni ’70 a pochi metri di distanza, dove i due anziani oggi vivono. “Mi ripeto ancor oggi che dopo aver visto la morte in faccia e gli orrori della guerra, tutto il resto della mia vita è stata una passeggiata…”.

Un dato storico: “Del mio Battaglione Alpini Vicenza della Divisione Julia, di 1500 soldati  tornammo in appena 70 da quella che fu una delle più vergognose e sanguinose campagne militari della Seconda Guerra”. Da qui parte la sua storia: “Quando, il 28 ottobre del 1940 in Albania iniziò per noi, giovani arditi, la guerra, che sarebbe stata un’azione lampo -ci dicevano- e in sette-otto giorni avremmo conquistato l’Albania e la Grecia”. La realtà fu ben altra: “Poche ore dopo l’inizio delle ostilità, stavo già piangendo la morte del mio commilitone e compaesano, Giovanni Schievano”. I giorni sul fronte diventeranno settimane e anni: “Pidocchi e cattivo equipaggiamento avrebbero fatto il resto”. Ma la fortuna sorride e per Gino qualche settimana dopo l’inizio della guerra, un incontro con un dottore impegnato nell’ospedale militare che lo volle come assistente, lo sottrasse ai rischi della prima linea”. Pochi mesi e la situazione militare per gli italiani sarebbe peggiorata: “I rifornimenti finirono già il sesto giorno dopo l’inizio delle ostilità, e c’eravamo ridotti  ad essere straccioni con il fucile. Le divise verdi erano diventate marroni, sporche e lise al punto che al posto delle scarpe usai una “musetta” per asini. I bombardamenti si fecero sempre più intensi e in uno di quei drammatici momenti, ebbi la fortuna d’incontrare mio fratello maggiore Bruno, alpino pure lui impegnato sul fronte”. Racconta nel libro: “Stavo cercando una buca dove ripararmi dal freddo della notte, quando scorsi un soldato spaesato che brancolava nel buio. Io pieno di pidocchi, smagrito e con una divisa a brandelli e lui con lo sguardo di uno spaventato. Gli dissi: Bruno! Mi rispose: “Gino, sito tì!? Varda come ti sì ridoto!”. Ci abbracciammo e scoppiammo in un pianto”, questo sarebbe stato l’ultimo abbraccio tra i due fratelli. Con i greci che avanzavano, l’esercito italiano era ormai in rotta: “Alle cinque del pomeriggio del 24 febbraio 1942 – l’ora Gino se la ricorda bene-, un aereo inglese iniziò a bombardare il campo in cui ci trovavamo. Mi rifugiai ai piedi di un masso, ma non ero al sicuro. Finii  col mettermi sopra un giovane sergente friulano che si era rifugiato dentro una buca. Pochi istanti dopo una bomba colpì proprio il masso da cui mi ero appena spostato. Sentii un calore improvviso al costato. Mi toccai e vidi la mano riempirsi di sangue. Sotto di me il sergente che rantolava. Lo fissai e lui mi disse: “Mi hanno colpito. Ciao mamma” e spirò”.

La scheggia che l’aveva oltrepassato si era fermata nel corpo del sergente. Quel giorno di 120 alpini sul campo solo 17 sopravvissero, e Gino era tra questi: “Mi trasportarono in un ospedale, sotto la minaccia delle bombe. Qui dopo una spartana medicazione alla ferita larga quattro dita e varie schegge al braccio, riuscii ad allontanarmi da solo, spinto dalla paura di morire sotto i bombardamenti”. Quel campo sarebbe stato poi bombardato due giorni dopo. “Andai verso il ponte sulla Vojussa, dove sapevo dell’esistenza di un campo di alpini più sicuro”. “A trovarmi incosciente, moribondo  e sospeso sulla passerella, fu il colonnello Paolo Signorini, che morirà successivamente sul fronte russo. Fu lui ad ordinare di portarmi fin all’ospedale militare di Turano. A lui devo la mia vita”. Gino qualche giorno verrà tradotto a Valona, pronto per essere imbarcato su una nave ospedaliera verso l’Italia: “Era il 6 marzo del ’43, quando stavo raggiungevo la nave “Po’”, all’improvviso un caccia inglese sganciò un siluro, affondandola in pochi minuti”. Gino si salva nuovamente e verrà poi caricato sulla nave “California”: 

“Su questa nave –che lui rivedrà tra le lacrime settant’anni in una foto pubblicata nel libro di Rappo- per curarmi la ferita m’infilarono dentro la ferita e senza anestesia un asciugamano facendolo scorrere da una parte all’altra del costato”. L’alpino “fortunato” arriverà così all’ospedale di  Gorizia: “Qui venni a sapere –scrive nel libro-, che potevo essere rispedito sul fronte russo”, dove nel frattempo il fratello Bruno era già tra i dispersi”. Questo accelererà le pratiche per il suo rientro a casa nel Vicentino, dove riprenderà la “vita da contadino a misura d’uomo e non di macchina – come precisa lui-, dove la vita era dura, ma mai quanto la guerra da ero venuto”. E’ anche per questo, che lui oggi seguita a scrivere poesie di vita e ottimismo, sapendo che il peggio è ormai passato: “L’orrore che ho vissuto mi è bastato e seppur con molti stenti/abbiam resistito all’infuriar dei venti. Se poi lieve, è il soffrir/ dell’ultima meta, l’attesa  –scriverà molti anni dopo- si è consolati dal pensier d’una vita ben spesa”.