L’ECONOMIA VISTA DAL GURU

Copyright 2012 testo e foto riservate di Antonio Gregolin

 L’ECONOMIA DELLA COMPASSIONE 

“L’altro lato della crisi economica è un’opportunità storica per la spiritualità” lo sostiene sua Santità swami Radhanath, guru carismatico mondiale degli Hare Krisna, in questa intervista a piedi scalzi. 

L’economia manca di moralità? E con più moralità, usciremmo prima dalla crisi? “Sì, se usiamo la compassione” è la proposta del guru degli Hare Krisna “Swami” Radhanath, in contrapposizione alle più avventate teorie economiche per arginare la deriva globale. Il guru Radhanath, al secolo Richard Slavin, è un americano che negli anni ’70, poco più che ventenne, scoprì in India la dottrina  del maestro e fondatore degli Hare Krisna, Bhaktivedanta Swami Prabhupada, di cui poi diventerà uno dei discepoli più apprezzati nel mondo. Oggi è uno dei più affermati mediatori del dialogo interreligioso, ricevuto da capi di stato e religiosi di tutto il mondo, non ultimo il presidente americano Obama. Il minuto “monaco di compassione” dallo sgargiante chadar arancione ha fatto tappa in questi giorni nei principali centri spirituali Hare Krisna in Italia, per presentare il suo primo libro “Ritorno a casa” (EIFIS Editore) dove il maestro racconta la sua intricata e affascinante esperienza spirituale. Il libro è già stato tradotto in 20 lingue e l’edizione italiana è stata curata dai vicentini Tiziano Valentinuzzi e Annalisa De Stasi. Ad Albettone,  nel verde delle colline che dividono i Monti Berici dagli Euganei, sorge la grande villa settecentesca di Albettone (Vi), venduta negli anni ’80 dai benedettini di Padova alla comunità orientale. Da un decennio la villa è stata trasformata nel tempio Prabhupada Desh, sede dell’Associazione culturale “Vaishnava”, dove lo swami è stato accolto con tutti gli onori riservati ad una grande guida spirituale. Questo è il secondo centro italiano per importanza degli Hare Krisna, dopo quello di Firenze, che raggruppa una decina tra monaci e monache ed è punto di richiamo per un migliaio di fedeli sparsi nel Triveneto. Occasione di ritrovo è stato l’incontro con  swami Radhanath, che si è poi concesso ad una intervista, rigorosamente a piedi scalzi, sull’economia della compassione.

Santità Swami Radhanath, Lei si trova in una terra (Nordest italiano) particolarmente colpita dalla crisi economica, con suicidi di imprenditori per via dei debiti. Qual è la sua idea sulla situazione economica attuale?

“Il problema è dell’Occidente intero. Bisogna però prima comprendere che tutto, ma proprio tutto, è proprietà e creazione di Dio. Tutto è energia sua, quindi tutto è sacro e quando noi vediamo tutte le cose create nel mondo in relazione a lui, allora possiamo vedere la sacralità che c’è in ogni cosa. Diversamente se vogliamo usare le cose solo per soddisfare noi stessi, intendo gli uomini, allora vediamo unicamente il mondo materiale. Eccole un esempio: un coltello, è buono o cattivo? Se questo va in mano ad un ladro potrebbe uccidere qualcuno. Se invece quello stesso coltello viene usato da un chirurgo, salverà qualche vita. Così allo stesso modo ogni cosa di questo mondo può essere buona o cattiva, in accordo con chi la usa”.

Vedendo come l’uomo sta abusando di tutto, economia compresa, il coltello ce lo stiamo puntando contro. Non crede?

Certamente, il mondo c’influenza in maniera da farci vedere quello che non abbiamo, piuttosto dei tanti doni che possediamo. In qualche modo dobbiamo adattarci alla situazione  e cercare di crescere. Se noi andiamo alla ricerca della grazia divina, in qualsiasi situazione noi siamo, la troveremo. Dovremmo fare in modo di cercare di sistemare l’economia nostra e degli altri, facendo come le sequoie della California che hanno radici superficiali che le farebbero cadere al minimo movimento di vento. Invece, stando tutte vicine si sorreggono l’una con l’altra”.

 Crede che sia il denaro l’origine di ogni   male?

“L’economia diviene malvagia solo se noi siamo malvagi. Se però siamo persone buone, anche i soldi sono cosa buona. Non chiamerei malvagi coloro che abusano del denaro, ma piuttosto persone che si sono scordate della loro vera. Di quella grazia che alberga dentro ognuno di noi , che però siamo liberi di vedere o non vedere. A noi la scelta…  ”.

Lei ha parlato di concetto”educativo” nel saper vedere le cose.

“C’è una verità che non cambia mai: la vera felicità va trovata dentro di noi, solo che le cose più belle di questo mondo ci distraggono dalla solitudine che abbiamo dentro il nostro cuore. In realtà, se noi non riusciamo a trovare questa felicità nel nostro cuore, allora saremo infelici in qualsiasi situazione esterna. Quando noi dimentichiamo  di amare ogni essere vivente,  allora sostituiamo questo profondo piacere dell’anima con qualcosa di esterno. Ricordo che  incontrando Madre Teresa di Calcutta nel 1971, lei mi disse: “Il più grande problema dell’umanità è la fame nel cuore”, e soddisfare questa fame significa amare ed essere amati. Il problema è che le persone stanno dimenticando chi sono veramente e fanno cose che le rendono frustrate. Per contro, questo credo sia il momento storico migliore per una rinascita spirituale, non nel senso di settarismi o altro, ma di autentici principi universali di verità. Resto convinto che ci sia un’essenza comune nelle religioni che può trasformarci in esseri compassionevoli”.

Cosa intende per “compassione”?

“Significa che la felicità degli altri è la mia felicità. Lo stesso vale per il dolore. La compassione quando è completa vale per il corpo, la mente e l’anima. Così che amare gli altri in maniera completa porta come frutto la felicità. Nella mia ricerca personale attraverso l’ebraismo -sono di origine ebraica-, il cristianesimo, l’islam, l’induismo,  ho trovato un’essenza comune che si sintetizza nel bhakti yoga, insegnatomi dal mio maestro spirituale, Bhaktivedanta Swami Prabhupada. Per questo ritengo che la compassione può anche essere un’efficace “arma” contro questa crisi globale”.

 “Compassione come regola di mercato?” Mi pare cosa ardua…

“Certo non è facile da comprendere se ci basiamo solo sulle regole economiche, ma appena usciamo da questi schemi e troviamo l’amore, allora cambiano tutte le regole. Se sapremo essere compassionevoli, il mondo sarà compassionevole anche verso di noi”.

E’ questo che prevede per il futuro?

(Ride…)

Debbo considerarla una risposta?

“Cos’altro possiamo fare in questo momento, se non sorridere? Nel futuro credo che le cose polarizzeranno e le cose andranno pure peggio perché c’è tanta avidità e arroganza nel mondo. Nel frattempo però,  vedo molte altre persone che s’interrogheranno, domandandosi: “Sarà questo l’unico modo di vivere o c’è qualche altra alternativa?”. Poiché la situazione è così grave, credo che le persone  non si rivolgeranno alla spiritualità in modo bigotto, ma con sincerità  e impegno di cuore. Più diventa buio, più le persone realizzeranno la necessità di vivere nella luce. Questo è uno degli insegnamenti comuni delle grandi religioni monoteiste”.

Lei ha incontrato personaggi dello spettacolo, cultura, capi di Stato e di Governo. Qualche anno fa è stato pure ascoltato dalla Camera del Commewell e solo un mese fa dal presidente Obama. Cosa vi siete detti?

“E’ stato grazioso sia lui che la sua first lady. Abbiamo condiviso i nostri pensieri in modo onesto e sincero”.

 

Di tutte le grandi personalità qual è stata quella che le è rimasta più impressa?

(Lunga pausa di silenzio…) E’ stata la filosofia e la compassione del mio maestro indiano Shrila Prabhupada. Come pure quella di S. Francesco e Gesù che mi hanno sempre ispirato, tanto che negli insegnamenti del mio maestro spirituale c’è molto di quello spirito. Oggi sono molto felice che abbiate un papa di nome Francesco. E’ un buon segno per l’umanità. Francesco di Assisi  fu un uomo molto compassionevole. Per questo piace agli uomini di tutte le religioni”.

 

ALEX ZANARDI: “Il pepe e sale della mia vita”.

Di Antonio Gregolin  copyright 2013 riproduzione di testo e foto vietata

 ALEX ZANARDI: UN “ALIENO” PARALIMPICO

A io’ vèst un marziàn” è il concetto che in dialetto romagnolo potrebbe calzare a pennello per un bolognese di nascita, ma padovano di adozione. E’ la frase che gli disse parafrasando il titolo della sua omonima canzone di trent’anni fa un altro emiliano verace, il cantautore Andrea Mingardi, dopo aver Alessandro (Alex) vincere il doppio oro alle Paralimpiadi di Londra 2012 . Un marziano hli è sembrato l’amico dell’impossibile, scendere dalla sua and-bike e baciare l’asfalto. “Ringraziavo quell’asfalto che tanto mi ha dato nella vita…” dirà poi Zanardi. L’abbiamo incontrato nella sua casa padovana: una “tana del lupo” al limite tra campagna e città, lontano dalla pista o strada dove si allena, come dagli studi televisivi. Troviamo così un campione nella sua “normalità” quotidiana, in compagnia della moglie Daniela e figlio Niccolò. Un quadretto famigliare quasi normale, se non fosse che in quella casa spaziosa e luminosa, brillano tre medaglie paralimpiche e un fenomeno di cane. Ad aprirci letteralmente la porta c’è “Billo” il mio “bodyguard col pelo” come Alex chiama il superbo esemplare di pastore tedesco che riesce ad aprire, ma non chiudere, le porte di casa appoggiandosi alle maniglie. Se questa è la casa di un campione, quel cagnone gli fa buona  guardia. “Vi spiace se andiamo a parlare in cucina, piuttosto che in salotto? E’ più famigliare…” aggiunge Alex entrando nello spirito della nostra conversazione, che qui mette in luce il lato più semplice del pluricampione.

Intendo partire da un gesto che a mio dire vale di più di una medaglia. Quello che nell’ultima maratona di Venezia ha compiuto a pochi metri dall’arrivo (ed era primo), si è voluto fermare per spingere un altro atleta portandolo fino al traguardo assieme. Cos’é,  altruismo, eroismo, protagonismo o senso della nobiltà dello sport?

Quello che spesso ci manca nella vita sono gli occhi per vedere le persone. A me è stata concessa questa “grazia” visto che nella vita sono finito con l’accumulare una serie infinita di esperienze uniche.. Ma  al tempo stesso, affermo che non c’è nulla di miracoloso  in quello che ho fatto: sono semplicemente stato più fortunato di altri e oggi per me rilanciare è diventato molto più semplice grazie anche a quelle tre medaglie olimpiche. Sarei arrogante se le volesse dire che l’ho fatto per impietosire qualcuno. Scendere dalla bicicletta mi sembrava la cosa più normale da fare in quel momento, pensando che avevamo fatto una gara eroica con il giovane Erik,  trovando ogni sorta d’espediente un po’ alla Mc Gyver,  arrivando al traguardo contro mille ostacoli: pioggia, acqua alta, quattro gradi e la bora che soffiava. Ad un certo punto mi accorsi che quel ragazzo era un po’ come un passeggero impotente, quasi completamente paralizzato,  ma con una forza di volontà che ti porta a dire: guarda che razza di persone ci sono al mondo! Fin lì c’eravamo divertiti molto e proprio quando tutto sembrava dover finire, tesi una mano verso uno che mi era stato affianco fino a qualche chilometro prima. Ma non chiamiamolo eroismo, per carità del cielo! Molte volte in pista ho avuto l’auto migliore, poi accadeva qualcosa durante la gara e finivo ultimo. E’ successo che sono riuscito a rimontare e vincere. Altre a perdere, senza però mai sottratto al mio compito. Dico “sottrarmi” perché se è tecnicamente possibile, perché non farlo? Questo stimolo  mi è tornato utile anche dopo l’incidente di undici anni fa con la mia nuova condizione fisica e mentale. Sono fatto così, non posso farci nulla…

Ma ci sarà stato un momento in cui ha ceduto allo sconforto e alla tentazione di ritirarti? Mi viene in mente quello che dice: mi ritiro col titolo mondiale in tasca per non rovinare la mia immagine! Se tue sei diventato campione del mondo, non puoi averlo fatto solo per mera ambizione. Per sola ambizione non ci arrivi! Lo fai perché vivi una sconfinata  passione. Uno sportivo è un uomo che può anche avere l’ambizione, un aspetto narcisistico, ma soprattutto ciò che ti guida è la passione. Essere arrivato primo e privarsi della cosa che ami fare soltanto perché vuoi lasciare un buon ricordo negli altri,credo sia la cosa più stupida del mondo. Il piacere della vittoria è solo un valore aggiunto nella vita.   

E’ vero che“ci si può drogare di cose buone… E una di queste è certamente lo sport ”? Tutta la vita è una “droga”, perché finché  c’è né, ed hai l’opportunità di fare, la vita è una opportunità unica. E’ però fondamentale accontentarsi, io viaggio molto per  i miei diversi impegni, ed una delle cose più belle del partire e sapere di tornare. Mi capita di rientrare a casa a mezzanotte, e trovare mio figlio e mia moglie già addormentati. In torno a me c’è il silenzio, allora  faccio un giro per casa, guardo le mie cose, e magari apro la scatola delle medaglie: le guardo e sono molto felice di quello che h, incluse le tante opportunità di avere tra le mani. Mi dico sempre: “ Perché non provarci!?”. L’esempio è quello di quanti mi dicevano: “Chi te l’ha fatto fare dopo quello che ti è successo a ritornare a correre in macchina?”. Ma perché non avrei dovuto? Se c’è una cosa che può essere fatta e desidero farla, perché non provarci!


Ciò non significa voler sfidare continuamente la sorte? 
La mia disavventura fin dai primi momenti l’ho vissuta come una cosa che può succedere nel mestiere. La statistica era però contro la possibilità che ciò mi accadesse davvero un giorno. Credo di essere l’unico pilota al mondo che ha perso entrambe le gambe in un incidente,visto che nel campo dell’automobilismo sportivo o resti vittima oppure ne esci illeso, e qui gli esempi non mancano. Tecnicamente dunque,  era estremamente improbabile che finisse così. Ma la vita non è solo tecnica e le cose possono accadere. E’ voler dire di acquistare un biglietto della lotteria e poi licenziarsi dal proprio posto di lavoro convinto di vincere! E’ come il grande marinaio che non sa domare il mare in tempesta. Ma proprio quando il mare fa la voce grossa lui sta pacciarotto ormeggiato dentro il porto, perché ha controllato prima le previsioni del tempo, mentre è un problema per chi trovandosi davanti ad una bella giornata di sole si ritrova poi nel pieno di una tempesta marina. Il pilota consapevole, è colui che dentro una galleria autostradale può e sa anticipare il rischio. Andai poco dopo l’incidente al centro riabilitativo e trovai le corsie erano zeppe di persone accidentate che avevano perso gli arti in incidenti domestici, stradali o sul lavoro. Per cui rispondo: io non me la sono andata a cercare, visto che lì dentro ero l’unico pilota automobilistico. Se poi nel momento in cui ti accade l’imprevisto e sei ancora qui a raccontarlo, devi anche avere la capacità di chiederti: cosa mi è rimasto? Cosa posso fare con quello che ho? Così nel momento in cui valuti che puoi ancora fare delle cose che ti piacciono,  la vita torna in modo naturale ad essere eccitante al pari di prima o quasi.

 Ma c’era già stato un antefatto drammatico nella sua vita: la perdita della giovane sorella in una disgrazia automobilistica… Vivendo sotto una campana di vetro, smettiamo di vivere. Ciò che mi era accaduto in ambito famigliare è in parte diverso dai rischi dell’automobilismo. Infatti, i rischi della strada sono molto più alti di uno che correre in pista. Se si osserva la mortalità nelle piste è cosa assai rara. Diverso è nelle nostre strade. Non le pare? Il solo fatto di vivere implica inevitabili rischi. Ma la vita riserva sempre delle sorprese: piacevoli come no!   

Il suo rapporto ha con la fortuna o sfortuna… Credo che noi possiamo attirare entrambi le cose col nostro comportamento. Detto questo, c’è qualche cosa di strano nel vivere che evidentemente va oltre la casualità e casistica. Ci sono momenti in cui la fortuna riesci a sentirtela dentro, come accadde a me quando sentivo che l’oro olimpico era alla mia portata di mano. Sì, me lo sentivo! Sentivo che la fortuna e la preparazione mi stavano spingendo verso il podio più alto.   

Quando però arriva la sfortuna, può accadere che… Quello che mi è accaduto non è certo il miglior viatico per una vita migliore,sia chiaro! Subito mi è parsa  come la  “sfiga” più  colossale, quella di trovarmi senza gambe. Prima di quel tragico momento vivevo un’altra situazione che a mio dire  era altrettanto paradossale. Ero stato un  vincente nell’automobilismo, ma poi avevo rovinato tutto con quella infelice esperienza del’99 alla Formula Uno.  Di qui dopo un anno sabbatico abbastanza frustrante per me perché il ricordo dei giorni gloriosi era offuscato da quella mia ultima esperienza, ero accecato dalla voglia di rivincita e spronato da chi mi spingeva a ritornare in pista. Tornai così a correre nello stesso campionato dove avevo incontrato i miei successi migliori (Formula tre ). Lo feci senza reali convinzioni, pensando che tornare indietro rimettere apposto tutte le cose. Mi sbagliavo, e quella stagione  non andò bene come volevo ed ero in una situazione in cui nessuno più –posso immaginare oggi-, mi avrebbe offerto altre chance per continuare. Un po’ come è accaduto a Schumacher. Magari chi lo sa, potevo diventare un arrabbiato cronico con la vita, molto di più di quanto possa essere una persona che nella vita perde le gambe. Se però potessi spingendo un bottone fermare il corso del tempo e fare in modo che quel giorno del 2001 nel circuito di Lausitzring, Alex Tagliani mi evitasse, oggi non spingerei quel bottone pensando che mi sarei trovato in una condizione peggiore,  rispetto a quella che ora vivo dopo l’incidente.

Quindi? Non penso che il mio incidente rientri in un disegno divino. Sono stato otto giorni in coma e non ho visto il tunnel con la luce, nessuno che mi chiamava eccetera. Ho riaperto gli occhi e sono  molto contento per questo, anche perché un momento di grande difficoltà è diventato una delle opportunità più grandi della mia esistenza. Oggi ho una vita migliore di quella che vivevo 11 anni fa, prima dell’incidente.

 Che rapporto ha con la morte? Quando avevo vent’anni mi sembrava che la vita fosse ferma, ora che sono ad un giro di boa, e spero che venga il più in là possibile!

L’incidente cosa ha cambiato nella sua famiglia? Ci sono dei momenti in cui vorrei fare più cose con la famiglia. Ad esempio ieri quando ero ad Arquà Petrarca sui Colli Euganei (Pd) dove vado ad allenarmi con la mia handbike  e pensavo a quanto sarebbe stato bello ancora poter giocare con mio figlio quattordicenne, anche se lui oggi è un ragazzone ma resta incline al gioco, e potermelo sulle spalle come facevo quando avevo le gambe. La cosa che però più mi manca, è quella di camminare a piedi nudi sul’erba del mio giardino, come sul teck caldo della mia barca. Le sembrerà banale, ma è così! Le dico però anche che il novanta percento delle restanti cose posso godermele tutte e sono uno che ha molto più degli altri, anche se non poso più i piedi per terra. Sono uno che ha fatto delle esperienze che molti non osano neppure sognare. Le ho progettate, sperimentate e portate a casa. Certo, tecnicamente le cose con la mia famiglia sono cambiate, ma ci si abitua a tutto e mi pare che l’abbiano fatto pure loro, e noterà che questa mia è una casa normale.

 Di sua moglie disse: “E’ colei che in famiglia ha il cervello. Io ho solo le gambe! E’ una  battuta o la realtà? Assolutamente la realtà! Pensi che un giorno quando mio figlio Nicolò era alle elementari, gli chiesero papà che lavoro facesse? Lui, rispose, che suo papà fa i lavoretti di casa! Cioè attacca i quadri, sistemava i rubinetti ecc. perché  ai suoi occhi, evidentemente io ho sempre affrontato il mio mestiere con tale passione che questo lo vedeva come un divertimento, mentre il lavoro vero era quello per cui tutti in famiglia mi chiamavano era aggiustare questo o quell’altro. Le dirò che  stando alla definizione classica di lavoro, io non ho mai lavorato in vita mia, anche se poi nella realtà mi sono fatto un “mazzo” inverecondo per ottenere i risultati che ho conseguito. Perché l’ho sempre fatto guidato dalla passione e desiderio di continuare a vivere questo mio progetto di vita. Già da piccolo alzandomi al mattino, il primo pensiero era quello di come potevo migliorarmi. Lo stesso pensiero che mi accompagna  ancora oggi.

A 50 anni se la sente di fare un bilancio della sua vita? Se serve farlo, allora io c’ho scritto un libro (“Però, Zanardi da Castelmaggiore” del 2003 Ndr) che riassume questo concetto, è un po’ la fras che mi dicevo quando sul gradino più alto del podio mi dicevo tra me e me, facevo il punto della situazione pensando da dov’ero partito, un paesino allora che  non era di certo un punto di vista privilegiato se consideri che mio padre faceva l’idraulico e mia madre la casalinga e la sarta per arrotondare. Famiglia normalissima ed oggi con tutto quello che mi sono lasciato alle spalle sono felice, perché fortunato. E un po’ arrogantemente so di aver avuto tante possibilità  che ad altri on sono mai state concesse, che però me le sono giocate al meglio. Le faccio un esempio: nello sport io ho vinto due campionati mondiali, non ci arrivi  a questo se non sei parte di una organizzazione che è completa. Certe gare però le ho vinte io, con la mia passione al punto che alcune vittorie la maggioranza di tutti i piloti non sarebbero riusciti a portare a casa. Io ce l’ho fatta, va là! Abbiamo mitizzato falsi valori per tutto. Io non sono andato in bicicletta per vincere tre medaglie. Ma ho vinto tre medaglie perché amo andare in bicicletta. E per quanto banale sembri, se ami la vita, hai dei sogni e se sei in grado di progettare delle cose rispetto alla sola sostanza sogni, sai dove vuoi arrivare. Questo ti porterà a divertirti, a vivere la vita come una grandissima avventura perché se ti sei scelto quella direzione e farai delle cose con entusiasmo, quelle cose  saranno il sale e il pepe della tua vita. Se tu pensi che arrivare a quella meta sia l’unico modo per arrivare alla felicità, non  la troverai mai, perché stai ragionando per ambizione. Come se ti dicessi che andando al Grande fratello, prendi una scorciatoia micidiale verso la celebrità. Così però va il mondo. E non dico che avere la barca, la macchina o la bella casa sono delle “sfighe”, ma queste devono restare semmai un valore aggiunto che ti fa godere della tua fortuna. Ci sono tanti ragazzi, non tutti però, che hanno perso la capacità di seguire i propri sogni e passioni. Magari anche da illusi: ma non è un illuso un ragazzino che sta in garage fino alle nove della sera a pulire  e smontare il suo go-kart perché sente che la sua vita è quel progetto, e vuole diventare un pilota di Formula Uno”  Eppure quel ragazzino c’è riuscito, e questo dimostra che se nella vita credi in qualcosa, la strada te la trovi. Non è una questione di raccomandazioni o possibilità. Resta un desiderare di essere eccitati all’idea di fare questo viaggio, ovunque questo ti porterà.

  Lei cita frequentemente suo padre. Quanto questa figura ha inciso nelle sue scelte? Fin da bambino mi ha sempre spinto a tentare di fare delle cose non in modo illogico , ma di ragionare sui problemi e provare a risolverli. Mi diceva che se il risultato non era quello che mi aspettavo, quello sarebbe stato i nuovo punto di partenza per il giorno dopo. Un passo dopo l’altro, finché non arrivi a sfondare.

 Oggi che anche lei è dall’altra parte, che tipo di padre è? Sono in fondo l’unica speranza alle mie sconfitte come genitore. Se poi oggi mi ritrovo a raccontare a lei quello che mio padre allora mi ha insegnato. Significa che al di là della sua frustrazione quando mi vedeva fare spallucce davanti ai suoi insegnamenti, la consolazione è considerare quanto invece ha lasciato in me dei suoi insegnare. Questo mi fa altresì sperare che quando mio figlio fa spallucce a me, col tempo qualcosa  nascerà dalla mia semina. Almeno così spera un qualsiasi padre…

Cos’è per lei felicità e infelicità? Ci sono due tipi di felicità: quella che pur regalandoti uno stato generale di benessere, non percepisci più  di tanto perché è quello che ti sei creato attorno  che sono i tuoi punti fermi e  riesci a misurare proprio quando viene meno. L’altro tipo di  felicità è quella più inaspettata che arriva in un modo che non avevi programmato. E’ ciò che mi è accaduto nella seconda gara di Londra 2012 , con la gara a cronometro H4. Se nella prima avevo contemplato il podio, nella seconda, avevo progettato una gara diversa e vincere non era affatto scontato. Nel momento stesso in cui ho tagliato il traguardo ho trovato una felicità inaspettata. Quando scesi dalla bicicletta ho baciato l’asfalto e in quei pochi istanti ho avuto come un flash, rivedendo il ruolo che l’asfalto aveva avuto nella mia vita. Mi sono rivisto tutto il film della mia vita: partendo da mio padre che mi accompagnava alle gare… Sono momenti in cui ti senti il mondo esplodere attorno e ti senti felicemente solo coi tuoi pensieri, che formano un momento dolcissimo e irripetibile. Ma la felicità non scordiamocelo, la puoi trovare anche in  una bella giornata di sole, in cima ad un colle con la tua handbike, a fare quello che ami,e magari uscendo da una curva butti lo sguardo su uno scorcio di paesaggio stupendo e pensi: quanto è bello il mondo!  E’ una felicità così intensa da superare anche il piacere di guidare una Ferrari.

Strano il mondo: per molti non poter guidare una macchina potente può essere causa d’infelicità? Mi permetto di sottolineare il valore autentico della vera felicità, perché glielo sta dicendo proprio una persona che ha avuto una  Ferrari, e per questo mi viene in mente la storia della volpe e l’uva. Dipende sempre  da come guardi la vita. Tutto è soggettivo in termini di felicità.

 Un giorno in santa pace per Zanardi come dev’essere? Le dirò tutte cose scontate, ma vere: sveglia quando voglio. Colazione con mia moglie e figlio. Giocherellare con Niccolò e il cane. Pranzo in famiglia che sia nel bolognene o nell’entroterra toscano dove ho casa o qui a Padova. Se poi nel pomeriggio c’è il campionato di Formula Uno, tanto meglio. E per finire bene la giornata un giretto poche, per colpa dei miei impegni.  

Tempo fa disse parlando delle Paralimpiadi: “Sono eccitato da questa esperienza, sento però quasi un po’ di nostalgia perché è la fine di un’avventura”. Questo significa che lascerà presto lo sport? Assolutamente no! Significa che quella avventura si è conclusa. Quando io alla fine del 2009 dissi basta con l’automobilismo, per dedicarmi alla bici e alle Paralimpiadi del 2012, mi dicevo: “Pesa che “figata” se uno come me che nella vita ha corso in auto a Long  Beach, partecipasse ora ai giochi olimpici in bicicletta!”. Fu subito una questione tecnica: posso davvero farcela nelle mie condizioni? Avevo già partecipato in quell’anno al mondiale handbike ed ero  ricordo che mi venne detto da una persona competente una cosa che allora mi parve come una magra consolazione: “Lo vedi che mascella ha quello lì?” mi disse facendomi notare che era un chiaro segnale di assunzione dell’ormone della crescita. In poche parole è come se mi avesse detto: “Se lo fai anche tu puoi arrivare anche tu, sennò scordatelo! Mi son detto: “Guarda mò, –in dialetto romagnolo-  se uno a 46 anni deve doparsi per vincere la gara del cappellano, sacrestano e perpetua? Sia mai! E così è stato…

 E non è finita qua?! Non so ancora bene cosa  mi aspetta ancora. Per ora ho ancora le medaglie calde nel cassetto. Io  mi ero dato quell’orizzonte e lì sono arrivato ed è stata una  cosa bella e ancor di più viverla. All’orizzonte ho trovato il baule pieno di dobloni, ma arrivare fin lì è stato un viaggio avventuroso e se anche avessi aperto il baule l’avessi trovato vuoto, ma chi se ne frega, mi ero divertito a fare il viaggio. Le medaglie  per sono state un piacevolissimo valore aggiunto e lo dico senza alcuna retorica! E questo non mi  da il senso di nostalgia per quello che mi son già lasciato alle spalle. Ci saranno nuovi progetti nella mia vita e molto probabilmente anche con  l’handbike che per me è sinonimo di sport. Poi magari domani mi viene in mente di fare  un’altra cosa. Boh, vedremo. Intanto mi alleno per le paralimpiadi di Rio del 2016.   

Una curiosità: da dove le arriva  tutta questa carica vitale? Dalla passione! In passato mi chiesero più volte di fare televisione,ma ho sempre passato la mano perché credo non si debba fare a tutti costi le cose perché in nome della popolarità! Se poi un giorno arriva  l’occasione giusta,  che  senti di fare meglio di altri perché ti diverte, magari la gente di guarda volentieri. Io ci ho messo un po’ nella mia vita a capire queste cose. Ho fatto delle boiate tremende come ad esempio il fatto che dopo l’anno sabbatico che mi ero preso dalla Formula Uno, arrogantemente decisi di ritornare convinto che sarei tornato a vincere. In realtà, quando pensi così ti scotti sempre le dita. Facevo quella cosa perché tutti mi dicevano: “Torna a vincere, dai..”. In realtà non lo volevo davvero e non ho ascoltato me stesso”.

 Oggi paradossalmente è uno che stando ai parametri normali dello sport, “va’ troppo forte per partecipare alle maratone come quella di New York? Vive questo come la sindrome di Pistorius? (domanda posta prima dell’episodio criminoso) Credo che in realtà ci siano state delle gelosia che si sono formalizzate, con i classici “giochi da quartierino” tra la categoria delle carrozzine  olimpiche e l’handbike, dove questa non viene considerata disciplina atletica, ma ciclismo. Così hanno cercato di boicottarla gara. Non mi sento però il Pistorius della situazione, perché non era una cosa mirata verso la mia persona, piuttosto contro l’intera nostra  categoria mettendo un limite  di velocità per questioni di sicurezza, visto che giù dai ponti di NY si arriva a sfiorare i 70 Km all’ora, a pedali fermi.  

Qual è la cosa che la inorgoglisce. E quale quella che le fa  maggior piacere? Non tanto l’aver vinto tre medaglie, quanto piuttosto il ricordo di quel 7 settembre 2012 quando subito dopo la seconda vittoria nell’individuale H4,  telefonai a casa. Sapevo che mio figlio Nicolò in quello stesso momento stava festeggiando i suoi quattordici anni mi dicevo: “Starà festeggiando con gli amichetti, cosa vuoi che gliene freghi di suo padre che è a duemila chilometri da casa?”.  Non ebbi nemmeno il tempo di  dire “pronto” che venni interrotto dal coro di tutti quei ragazzi che intonavano per me  l’inno d’Italia”. Potete capire cosa significhi per un padre tutto questo, e le lacrime in quel momento  le ho spese come per nessun’altra medaglia.

In quanto al piacere, è quando mi fermano per strada e mi dicono:“Never give up”,  non mollare mai!

L’attimo fuggente che non dimenticherà? Quel baciare l’asfalto dopo la vittoria di Londra e Rio. Fu un gesto spontaneo. Sentii in quel momento il calore della pista, e un senso di felicità che mi isolava dal resto del mondo. Fu un momento intenso che durò un minuto, in assoluta solitudine, nonostante la festa dei miei compagni di squadra. Sentii tutto il riconoscimento che dovevo proprio a quell’asfalto che sembrava dovesse assorbire la mia storia di prima e quella nuova di quel momento.

 Immagini di trovarsi nella sua stanza, solo con le tre medaglie olimpiche… Le guarderei. Sorriderei e andrei oltre

Il termine “disabilità” la infastidisce? Io dico sempre che sono un disabile, molto poco handicappato. La libertà nostra in fondo, è il saper dipanare l’ignoranza di chi ti confina in certe categorie o settori. E poi è sapere usare l’ironia. Sapeste voi quanto ci prendiamo in giro tra di noi. Con il mio grande amico Vittorio Podestà e compagno di allenamenti, ci prendiamo reciprocamente in giro con battute e scherzi di ogni sorta. Questa è “normalità” non crede!?

Eccoci al termine di questa nutrita chiaccherata nel divano di casa sua, con Billo (il cane) che mostra segni evidenti di sofferenza perchè ha fame… (Sorride) Nella vita impari a tendere la mano a chi te la porge e sei fortunato quando ritirarla al momento giusto. A lei tendo la mia mano! Quando l’amico Mingardi mi telefonò per congratularsi delle medaglie, da buon bolognese mi disse: “Se non l’avessi già scritto trent’anni fa, direi che sei ” un marziàn”. Io però non la saluto come Mork o quelli di Star Treck!

GLI ZOCCOLI DELLA MEMORIA

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Usacchetto di plastica con dentro due zoccoli di legno tarlato. La storia arriva anche così: “Sono gli zoccoli che papà indossava nel campo di prigionia  in Germania…” spiega oggi la figlia, Donatella Boesso, dopo averli presi dalla vecchia casa di famiglia in contrada Colombara a Villabalzana nel Basso Vicentino, dove sono rimasti in soffitta per oltre cinquant’anni. E’ qui che tra le antiche case dai spessi muri di pietra resistono ancora i ricordi, lontani dagli occhi indiscreti e fragori moderni della pianura. Memorie ricoperte di quella polvere che ha privato questi zoccoli del colore naturale, imbruniti dalla tragica storia di un padre di famiglia, Sergio Boesso (nella foto) che per mezzo secolo ha taciuto sull’orrore vissuto in guerra. 

SERGIO BOESSO prima di partire per il fronte

A Villabalzana si sapeva che era partito per la Russia come bersagliere nel 1942, dove qui venne ferito in battaglia ad una gamba sulle sponde del Don. Rimpatriato e curato in Italia, nel 1943 venne rispedito nuovamente al fronte, stavolta in Jugoslavia. Per lui è una nuova guerra. In tasca porterà il proiettile russo che gli venne estratto dalla gamba, che molti anni dopo lascerà al  figlio Gianni che oggi lo porta appeso al collo. L’8 settembre del 1943 l’armistizio con la Germania, il bersagliere coi suoi compagni viene fatto prigioniero a Belgrado e stipato su carri bestiame dai tedeschi, convinto di tornarsene a casa.

Sergio Boesso, ritratto con alcuni suoi compagni prima della partenza per la Russia 1943

Quel treno invece, viaggerà  per sei giorni col suo carico umano verso Dachau, poco distante da Monaco di Baviera in Germania. Ma alla famiglia restava la curiosità su quel passato: “Papà che ti è successo là?” gli ripetevano di tanto in tanto i figli. E la sua era sempre la medesima risposta, fatta di silenzio e occhi lucidi. Per decenni si tiene tutto dentro, confidando sulla complicità della moglie Cecilia che oggi ha 87 anni. Lei sapeva tutto, così come conosceva la storia di quegli zoccoli lasciati in soffitta che nessuno doveva toccare. Solo Sergio in inverno se li infilava di tanto in tanto , mettendoci  dentro della paglia prima di infilarvi le scarpe, trascinandoli per la corte come se il peso andasse oltre l’umano. “Ste boni, voialtri non podì capire “ripeteva i figli che insistevano per giocarci.

Trascorsero gli anni e quegli zoccoli (nella foto) risuolati più volte dal papà, vecchi e poco pratici, sembrava avessero qualcosa di speciale, pensavano i figli. Finché il giorno di Natale del 1994, la convivialità famigliare venne interrotta dal padre: “Ci guardò con lo sguardo severo come non mai”, racconta oggi la figlia maestra Donatella, rivangando quel momento. “Tasì, parchè voiatri non capì cosa voia dire morire de fredo, caminando nea neve coe scarpe rote! Quei“sabot” come quei che gò in sofita me ga salvà la vita!” gli  rispose  il padre. 

Foto storica del campo di Dakau (Germania)

Per la prima volta dopo mezzo secolo si spalancavano così i cancelli della memoria, liberando i ricordi che sarebbero stati peggiori di ciò che aveva raccontato sulla  Russia e Jugoslavia. “A Dachau –racconterà Sergio ai figli–,­ scendemmo dal carro come bestie affamate, senza che nessuno sapesse dove eravamo”. Un soldato vedendolo robusto e forte, lo scaraventò a terra intimandolo di alzare una trave di ferro poco distante: “D’istinto riuscii ad alzare la pesante trave, senza immaginare che quella rappresentava per me la salvezza. In pratica ero stato selezionato. Venni allora rimesso sul treno con metà dei compagni, mentre quelli rimasti non li avrei più rivisti”. “Viaggiammo per altri cinque giorni fino a giungere a Witzendorf , Nord-Germania”. 

“Qui leggemmo la grande scritta della stazione prima di venire caricati sui camion fino al campo di destinazione, dove entrammo come prigionieri di guerra, col triangolo rosso sul petto, abili al lavoro”, con quel documento che conserverà in un cassetto di casa (nella foto) senza mai mostrarlo ai figli. “Era un campo più piccolo di quello di Dachau, ma con le medesime baracche di legno, dove l’unica fonte di riscaldamento era un fusto di ferro”. Ai tedeschi serviva manovalanza per l’industria bellica, così ai prigionieri veniva dato di lavorare in una fabbrica di olio per armamenti: “Questo significava per noi uscire dal campo di giorno e rientrare la sera, dopo dieci-dodici ore passate a caricare fusti di olio sui treni. Un sacrificio, ma anche una liberazione…”.

gli zoccoli di Boesso che lui custodiva nella sua soffitta

Qualche mese dopo,  grazie proprio alla sua prestanza fisica, Sergio verrà notato dal responsabile civile dello stabilimento con cui  stringerà un legame di stima tale che, non era raro lui gli offrisse del cibo anche per i compagni di baracca: “Quel tedesco era un uomo buono –ripeterà spesso Sergio-, mentre tra noi giravano voci su quello che fuori stava accadendo agli ebrei. In cuor nostro, tutti pensavamo che avremmo fatto la stessa fine”. Per i sei figli il nuovo capitolo di vita del padre era un salto nel buio, ma i dettagli erano troppo  lucidi con l’ombra costante della morte su ogni sua parola: “Scarpe, abbigliamento e freddo, per noi significavano vita o morte, al punto che dormivamo accatastati su tavolati da sei, uno vicino l’altro -racconterà il padre- con le scarpe come cuscino per paura che ce le rubassero…”. I figli non sapranno mai chi  in realtà diede  al padre quegli zoccoli: “Era l’unico lusso che ci permettevano i tedeschi. Diversamente saremmo morti congelati”. La verità di quella storia,  stava però cambiando il senso di tutti i restanti natali. Sergio  racconterà  anche quei suoi due natali passati nel campo  prima di essere liberato dagli americani nel 1945: “Il primo Natale riuscimmo a mangiare coniglio”, che in realtà altro non era che un gatto catturato nelle vicinanze delle nostre baracche.

Scarpe e zoccoli (identici a quelli di Boesso) conservati nel museo del campo di concentramento di Mauthausen (Austria)

“Lodore-profumo che fuoriusciva dal camino insospettì i soldati di guardia che fecero un’ispezione su tutte le baracche. Nascondemmo la carne sotto il tavolato del pavimento, eludendo così la sorveglianza e quel giorno mangiammo carne e terra assieme,. Ma per tutti fu ugualmente una festa…”. 

 

 Sempre per la fame, un giorno Sergio sfiorerà nuovamente la morte: Scoprii che l’olio che usavamo in fabbrica, andava bene anche per insaporire la nostra “sbobba”. Così a piccole dosi lo portavo di nascosto dentro il campo . Una soffiata e le SS trovarono uno di noi con l’olio nascosto sotto la giacchetta. La loro reazione fu immediata: un colpo alla nuca davanti ai nostri occhi. A me avrebbero riservato l’interrogatorio. Venni pestato a sangue con la grave accusa d’essere complice di un furto all’esercito tedesco. Non avrei avuto scampo, se non fosse intervenuto immantinente quel mio direttore  di fabbrica (nella foto sopra) che disse ai soldati: 

“Questo uomo serve più da vivo che da morto. Da solo riesce ad alzare  un fusto d’olio…”.”Conciato come ero alle SS quelle parole dovettero sembrare quasi una sfida. Così mi ordinarono di alzare un fusto poco lontano. Non so come, ma riuscii a sollevarlo, e per la seconda volta la mia forza e volontà mi salvarono la vita”.

Boesso (sotto la bandiera) in una foto scattata nel campo dagli americani, quattro mesi dopo la liberazione

“Liberato  qualche mese dopo dagli americani, Sergio tornerà a casa che pesava meno di cinquanta chili con il foglio di carta nascosto sotto la canottiera, su cui aveva annotato durante la prigionia tutti i nomi dei suoi compagni di baracca, immaginando che non sarebbe sopravvissuto”. “Quando Sergio tornò dopo due anni di prigionia –spiega oggi la moglie Cecilia-, i suoi famigliari stentarono a riconoscerlo. Da uomo forte e robusto, era diventato come un foglio di carta raggrinzito…”.

Il foglio scritto da Sergio con tutti i nomi dei suoi compagni di baracca, nascosto sotto la canottiera e poi conservato in un cassetto fino al 1993

Quel Natale del 1993 squarcerà così il velo di  silenzio del padre, svelando a tutta la famiglia Boesso la vera storia di quegli zoccoli lasciati in soffitta, sospesi nel tempo. Oggi quando passano di mano in mano, dai figli ai nipoti, qualcuno li tocca teneramente come se stessero facendo una carezza al padre o nonno. Una carezza alla memoria. 

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 “GLI ZOCCOLI DELLA MEMORIA” IN MOSTRA 

Faranno parte della mostra “Terra nelle Scarpe” gli zoccoli che Sergio Boesso ha indossato nel campo di concentramento di Witzendorf. La volontà di poter esporre tra le “scarpe della storia” anche un paio di “sabot” indossati dai deportati della Seconda Guerra Mondiale, riempie qui un vuoto temporale. Dopo le scarpe dei soldati italiani e austriaci della Grande Guerra, a rappresentare il conflitto del ’40-’45 ci saranno queste scarpe come testimonianza delle atrocità compiute dal nazismo.

LA MOSTRA UNICA IN ITALIA “TERRA NELLE SCARPE”

“Quando ho sentito l’ardore con cui gli organizzatori della meravigliosa mostra cercavano delle scarpe usate da qualche deportato nei campi di concentramento, – ha detto Donatella Boesso, subito dopo aver visitato l’esposizione- mi sono tornati subito alla mente gli zoccoli di papà, conservati in soffitta. Lui parlo della storia di quegli zoccoli dopo mezzo secolo dai fatti. Il suo silenzio, è e resta per noi l’emblema del dolore più muto e profondo che può provare una persona”. “Vederli ora in mostra per il loro significato, mi pare il giusto riconoscimento alla sua memoria, come di quanti hanno sofferto in quei drammatici anni” ha spiegato la figlia.