MO: OTTANT’ANNI DA INVIATO SPECIALE

di Antonio Gregolin -copyright 2012-

SPECIALE 50 MILA CONTATTI

E’ la seconda intervista che mi concede Ettore Mo, storico inviato del giornalismo italiano che da poco (il primo aprile 2012), ha compiuto ottanta anni. Un traguardo che è anche un bilancio di vita professionale (e personale), fatto con la “semplicità e umiltà di un artigiano della parola” come vorrebbe essere ricordato.

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Non è più tempo per reporter!”. Non è più tempo –forse-, per quel giornalismo delle origini  di cui Ettore Mo si sente parte non solo per un fatto anagrafico, visto che da poco ha superato la soglia degli ottanta anni, ma soprattutto dopo l’avvento dell’era tecnologica. A dirlo è lo stesso anziano maestro, l’indomani del suo ottantesimo compleanno, il primo aprile scorso: “Oggi la tecnologia s’impone sulla notizia, senza più una verifica diretta!” . E’ il rischio che paventa l’inviato storico del Corriere, amico del comandante afgano  Massoud e di Oriana Fallaci.  Spegnendo sulle sue candeline è come se soffiasse su un’epoca: quella del giornalismo di strada.  Un mestiere che per lui resta un “atto di pura artigianalità, dove una parola dopo l’altra, si descrive quello che si vede, per raccontare il mondo” ancora con la sua inossidabile Olivetti 32, tanto cara anche a Indro MOntanelli. Ponte tra due epoche, questa intervista è pregna di quell’atmosfera pacata e famigliare che aleggia dentro il suo rifugio con veduta sul Lago Maggiore, dove le storie del mondo raccontato da Mo sembrano universi paralleli.

 Giornalista o reporter?Preferirei inviato, giusto perché sono uno che racconta ciò che vede. E sottolineo, che vuol vedere!”.

E se la chiamassi “maestro” visti i tanti anni (più di sessanta) d’esperienza giornalistica? (Scoppia in una risata). “Faccio il mestiere che mi sono scelto. All’inizio della mia carriera al Corriere, ogni volta che vedevo passare Egisto Corradi (storica firma del quotidiano), m’inginocchiavo dicendogli: “Maestro, dammi la tua benedizione”. E lui mi rispondeva: “Alzati, buffone!”.

Tralasciando i convenevoli, posso dirle che è un gagliardo ottantenne?  “Fa piacere saperlo, soprattutto a questa età. Giusto per dire che i giornalisti sono un po’ vanitosi…”.

Qual è stato l’augurio più apprezzato che ha ricevuto? “Stando nelle vanità è quando mi dicono che “mostro meno anni di quelli che invece  ho sulla carta d’identità. Ho avuto la fortuna nella mia vita di non  aver mai sofferto  di gravi malattie e conservo ancora un fisico che rispondere ai comandi che si adatta a tutto. Fare il reporter, non è facile se il fisico ti tradisce!”.

Una fortuna direi, visto l’intenso lavoro che continua a svolgere come inviato e scrittore!

“Il Corriere era il giornale di famiglia che iniziai a leggere fin da ragazzo. Leggevo avidamente i reportage firmati da Barzini, Tommaselli,Vergani,Vittorio G.Rossi. I primi passi nel giornalismo li ho fatti quando avevo già trenta anni e da allora non ho più smesso. Un pizzico di fortuna in questo mestiere serve eccome, e resta una delle componenti cui ci affidiamo ciecamente e  a volte incoscientemente! “.

Alla base però deve esserci un talento naturale. Non crede? “Quantomeno bisogna sapere tenere la penna in mano e intuire che il mestiere del giornalista è parte indispensabile  della tua vita”.

Intende dire “vocazione” giornalistica? “Giornalisti non si nasce, ma si diventa. Guardi me: io provengo vengo da una famiglia povera di operai piemontesi. Nessuno dei miei antenati aveva mai fatto il giornalista e i giornali era un lusso che si consumava all’osteria. Poi un passo dopo l’altro: la scuola, il diploma, l’iscrizione alla facoltà di lingue straniere di Venezia  che frequentai per un paio d’anni ma senza conseguire la laurea. Restava in me la passione per le lingue e i viaggi in giro per il mondo. Il lavoro come mozzo nella Marina Mercantile Britannica, e qualche anno dopo il colpo di fortuna per il giornalismo…”.

Continui… “A diciotto anni scelsi d’imbarcarmi come steward su una nave mercantile inglese, attraversando in cinque mesi tre oceani. Alla mia partenza da Londra verso la fine degli anni’70, sottoposi a Piero Ottone, storico corrispondente del Corriere Sera da Londra, un paio di articoli con la speranza che giustificasse in qualche modo la mia ambizione di diventare un giornalista. Sbarcato dopo la lunga traversata oceanica a Hong Kong, trovai una lettera di Ottone che lodava sobriamente i miei scritti, dicendomi: “Lei sa tenere la penna in mano!”, poche righe  sufficienti per aprirmi le porte del giornalismo che conservo ancora nella mia casa piemontese. Ecco perché proprio il giorno del mio compleanno -il primo aprile scorso- ho telefonato a Genova a Piero Ottone, ringraziandolo ancora una volta per quelle quattro righe, servite a cambiarmi la mia vita”.

Se la sente di tracciare un bilancio della sua vita? “Gli inizi sono stati duri.  Ho fatto dieci anni di gavetta, con i miei pezzi da Londra che non venivano neppure firmati  e tanto meno siglati. Vidi stampata solo due volte per intero la mia firma, e fu per un’intervista a Laurence Olivier e poi a Eduardo De Filippo. Seguirono poi cinque anni a Roma per il Corriere, dove facevo il “raccattapalle”, cioè raccoglievo le notizie notturne per un collega di rango superiore. Ebbi comunque la fortuna di superare l’esame di Stato e diventare giornalista professionista. Finché un giorno…”.

Un altro colpo di fortuna? “Fatalità, se preferisce, nel 1972 venni trasferito a Milano presso la sede centrale del Corriere in via Solferino, dove mi diedero da occuparmi di  cultura e spettacoli. La svolta professionale però arrivò nel febbraio del ’79 con l’allora direttore Franco Di Bella, che mi disse: “ Khomeini è tornato a Teheran. Tu parti per l’Iran raccontaci cosa succede là!”. “Sei matto!” gli risposi io sbigottito. “Ricordati -ribatté  lui bruscamente-, io butto in acqua solo chi sa nuotare”  .

Così sanciva il talento? “Come dicevo occorre saper tenere la penna in mano. Ma se dall’altra parte trovi il caporedattore che non legge i tuoi scritti e magari li cestina, come oggi invece avviene spesso nelle redazioni, allora non hai né fortuna e tanto meno speranze. Ecco che allora torna la fortuna che non guasta mai!”.

Non crede che i giornalisti come lei, siano oggi come dei “panda” in via d’estinzione? “Nel processo e progresso tecnologico la testimonianza diretta è sempre meno fondamentale, almeno per la carta stampata. Ci si affida ciecamente alle agenzie e a Internet; cosa sbagliatissima perché non puoi verificarne l’autenticità. Ecco perché dico che mi sento un po’ confuso: so che non si può più fare l’invito come si faceva una volta. La possibilità di viaggiare come facevo io allora è sempre più rara. Come si possono raccontare cose che non si vedono? Io poi, sono uno dei pochi inviati che ha il privilegio di avere  al suo fianco da 17 anni un fotografo che è il mio braccio destro,Luigi Baldelli, la cui collaborazione è preziosa nel lavoro di ricerca e dei contatti. Insomma, quattro occhi valgono più di due!”.

Che idea ha del giornalismo moderno? “Credo che soffra del fatto che questa grande massa d’informazione non da più la possibilità di fare la verifica direttamente dei fatti. Il sistema è così complicato che la  testimonianza diretta è ormai rara. La tecnologia consente oggi trasferte lampo da un continente all’altro, ma nonostante questo, la  lacuna dei grandi giornali è quella di non mandare più in giro nessuno.

Coerenza e indipendenza sono sempre più a rischio in questo suo mestiere, basti vedere la posizione dell’Italia nella cclassifica mondiale per la libertà di stampa. Non siamo certamente un modello! “Qui parlo per me, nessuno mi ha mai detto cosa dovevo fare o non fare. Non ho mai avuto interferenze o censure particolari. Non sono un’analista dei fatti, ho sempre creduto e preteso di raccontarli per come sono. Non si poteva raccontare l’offensiva nel Vietnam o le vicende di Sendero luminoso standosene in un albergo di Saigon o Rio di Janeiro”.

Un giorno lei mi disse si sentirsi “ un artigiano della parola”. Questo resta valido anche sulla soglia degli ottanta anni? “Assolutamente, scrivere è un cosa seria”.

Cosa ha dovuto rinunciare per la sua carriera? “Rinunciato a niente! Ho faticato perché sono partito dal basso e non conoscevo nessuno. Alla fine però ho fatto ciò che volevo fare. Ecco perché posso dirle che oggi mi sono guadagnato una fetta di felicità”.

Chi erediterà il suo patrimonio giornalistico? “Ci sono tanti bravi ragazzi in giro, anche se so bene di essere uno degli ultimi della vecchia guardia. Quando i giovani mi dicono”vorrei essere come lei” gli rispondo: “Non è più tempo!”.

Neppure uno dei suoi figlio farà l’inviato? “Nessuno, le mie due figlie vivono in Inghilterra e il figlio si occupa di compagnie aeree in Italia”.

In tutti questi anni ha incontrato molti personaggi che hanno fatto la storia. Quali sono quelli che le sono rimasti più impressi? “Il comandante afghano, Amhad Sha Massoud (ucciso la vigilia dell’11 settembre 2001), considerato il leone del Panshir, l’eroe della resistenza anti sovietica”.

Qual è il personaggio che  avrebbe voluto intervistare, ma non ci è riuscito? “Fidel Castro e Pol Pot”.

La storia più bella che ha raccontato? “Difficile dirlo”.

La più drammatica? “Quando in Afganistan chiesi ed ottenni d’intervistare Gulbuddīn Hekmatyār , capo dei mujahidin e appoggiato da Al-Qaeda. Sapevo che era una testa calda. Raggiunsi il suo rifugio tra le montagne con un collega della Tv afghana. Lo intervistammo e alla fine Hekmatyār rivolgendosi al mio collega disse: “Chi ti paga per criticarmi in televisione?”. Tornando venimmo bloccati da tre uomini mascherati e armati che sequestrarono l’afghano. In quel momento lui mi disse: “Vai Ettore, vai, per me è finita!”. Credevo di essere giunto alla fine anch’io. Invece mi lasciarono andare e arrivati a Kabul venni a sapere che avevano giustiziato il mio collega. In quel momento pensai: chi me l’ha fatto fare?!”. 

Come giornalista è passato spesso per la cruna dell’ago? “Sì,  forse perché sono piccolo di statura e faccio prima! In realtà, mi sono occupato di spettacolo e  mondanità  quando da giovane  facevo la “riserva” al giornale. Mi sono trovavo bene, mi creda, anche perché  il mio grande sogno fin da ragazzo era diventare un cantante lirico. Invece. Mi sono dovuto accontentare di fare la cronaca degli spettacoli.

Si è formato nella vecchia scuola di giornalismo. Molti dei suoi colleghi, da Biagi, a Montanelli, ecc. hanno fatto carriera fino a diventare direttori. Perché lei no? “E’ un ruolo che non mi appartiene assolutamente. Sinceramente non c’ho mai pensato!”.

Alcuni come la sua amica Oriana Fallaci, sono diventati addirittura “profetici”. Lei invece ha sempre mantenuto un profilo pacato. E’ solo questione di carattere? “Sì. La Fallaci aveva un talento enorme e un temperamento generoso quanto imprevedibile. Io, come vede, sono un uomo normale…”.

C’è un particolare di lei che mi sorprende: l’umiltà che ha poco a che vedere coi personaggi  mediatici cui siamo abituati. (Sorride) Grazie! Questa cosa mi fa  particolarmente felice”.

Come giornalista crede più di piacere o disturbare? “Mi auguro che gli argomenti che tratto provochino delle emozioni. Molti lettori poi mi scrivono dimostrandomi la loro fiducia”.

Mai pensato di “appendere ” la sua macchina da scrivere al chiodo?Mai!”.

Continua a non sapere usare il computer?Certo, per pigrizia e paura”.

Questo lo rende quasi un personaggio mitologico visti i tempi: così non naviga in Internet e non ha Facebook? “E’ un linguaggio che non capisco, anche se so che il mondo intero è dentro il computer”.

Questo non la rende distante dai moderni mezzi d’informazione?

“Ho Luigi Baldelli e la mia famiglia che provvedono a rendere meno totale l’isolamento. Con Baldelli  viaggio da 17 anni.  A lui affido i miei scritti che li ribatte e spedisce al giornale. A casa invece uso la mia inossidabile “Olivetti 32”.

Una follia che ha fatto nella sua carriera? “Non ho fatto follie, forse perché non mi è stato dato tempo per follie o eroismi”.

Delusioni? “Inizialmente tante. Soprattutto, quando ero giovane e mi aspettavo qualcosa di più…”.

Gioie? “Quando agli inizi potevo mostrare la mia firma sul giornale a papà”.

Come descriverebbe il mondo che fu e quello che è? “Oggi sono confuso. Mi parevano gravissime le cose che raccontavo quando ho iniziato a scrivere per il Corriere, passando dagli spettacoli ai fronti di guerra.. Ma devo ammettere che le cose non sono migliorate. Guardi l’Afganistan, il Medio Oriente, l’America del Sud,  l’Africa”.

Quando non fa l’inviato, vive tra il lago Maggiore e Londra. Dove le piacerebbe fermarsi?  “Un po’ qui e un po’ là. Entrambi sono miei  paesi, tanto che in redazione qualche collega mi chiama “Hector the englishman”.

Come vede l’Italia di oggi? “Come tutti: c’è poco da stare felici”.

Ha sfiorato molte volte la morte, documentandola e raccontandola. Le capita di pensare alla sua di morte? “Ogni tanto ci penso e spero sia tranquilla. Ma non è un pensiero che mi angoscia. Non ho problemi religiosi e vivo alla giornata. Quando vedo un amico che se ne va, allora, data l’età, la prendo seriamente in considerazione”.

Le viene data la possibilità di portarsi nell’aldilà una sola storia che ha raccontato. Quale porterebbe? “Forse il racconto del mio primo incontro con Massoud, nella Valle del  Paschir”.

Non mi dica che si auspica di fare il reporter anche nell’altro mondo?

“Visto il mestiere che faccio, dovrei finire all’inferno, dove troverei certamente  storie particolari da raccontare. Non crede?!”.

Ettore Mo con Antonio Gregolin

Che domanda gli farebbe allora al Padre eterno? “Beh, gli chiederei se ha un posticino per me lì vicino, non troppo scomodo. Guardi che non scherzo!”.

Auguri vivissimi per la strada che ancora vorrà percorrere! “Finche’ posso, non mancherò…”.

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CURIOSITA’

LE SCARPE DI MO ALLA MOSTRA “TERRA NELLE SCARPE”.

Sono stati scelti solo due giornalisti della “vecchia guardia” come Ettore Mo per la carta stampata e Toni Capuozzo per la televisione, come esimi rappresentanti del mondo del giornalismo “di strada”. Esempi di professionalità e capacità, ma soprattutto maestri di semplicità tale da renderli uomini “coi piedi per terra”.
E’ questo il motivo per cui sono state scelte le loro esemplificative “scarpe da reporter” che sono esposte all’interno del percorso meta/espositivo della mostra unica in Italia, Terra nelle scarpe che in questi mesi ha iniziato il suo percorso itinerante per le città del Veneto. La scelta su Ettore Mo, è bene esplicata in questa nota redatta per la mostra: 

ETTORE MO, classe 1932, è tra i più famosi reporter italiani. Inviato storico de Il Corriere della Sera, continua tutt’oggi a inviare i suoi reportage dal mondo. Con le sue scarpe continua a muoversi tra l’Afganistan, l’Estremo e Medio Oriente e il Sudamerica.

 “Questi sono gli scarponi che mi hanno accompagnato nel mio primo viaggio nel Panshir  (Afganistan 1981), dove incontrai il leggendario comandante Massud, che divenne poi mio grande amico. Gli stessi scarponi li ho calzati in altre “escursioni” non proprio turistiche nel Medio Estremo Oriente, in Africa, in Sud America, ecc….   Che resistenza, questi scarponi!”. “Sono curioso –spiega il reporter- e le mie scarpe mi portano laddove arriva la mia curiosità. Vedere i fatti e ben diverso che raccontarli per sentito dire…”.

Oggi viene considerato uno degli ultimi grandi maestri della vecchia scuola di giornalismo: quella dei fatti e non solo delle parole.

LINK UFFICIALE DELLA MOSTRA

https://www.facebook.com/TerraNelleScarpe

 

                     


IO E CELENTANO: Gianni Dall’Aglio

testo e con foto copyright 2o12


 
Parla Gianni Dall’Aglio, storico batterista di Celentano dopo il concerto all’Arena di Verona.

Mi sono serviti due giorni fuori dal mondo per riposarmi e raccogliere tutte le energie sul dopo concerto di Verona”. Gianni Dall’Aglio, storico batterista del “molleggiato della Via Gluck” sintetizza così l’esperienza all’Arena , 19 anni dopo l’ultimo concerto con Celentano. Martedì la seconda e ultima serata di Rock Economy: “E’ stata la migliore! Diciamo che il vero Celentano è venuto fuori proprio in quel momento lì!”. E la prima? “Meno –aggiunge il batterista-, perché la sua timidezza, non ci crederete ma Adriano è fondamentalmente un timido, e l’emozione del ritorno sul palco gli hanno creato non pochi problemi, come si è visto! Martedì invece, l’esplosione di energia e originalità che tutti noi aspettavamo. Un autentico concerto “On the road”, con musica vera, come raramente si vede nei concerti”. Tutto però è stato provato e riprovato per mesi: “Lunedì, scaletta e testi si sono mostrati ingessati. Martedì invece è saltato tutto fin dall’inizio, con i musicisti “esordienti” -si fa per dire visto che con noi c’era gente che suonava con Ramazzotti, Zero, Venditti- tutti in panico, mentre noi “nonni” ci  sentivamo ritornare indietro di vent’anni, con il solito Celentano che improvvisava, con noialtri costretti a seguirlo nelle sue evoluzioni musicali.

In questo è un genio, ecco perché non credo di esagerare se lo definisco il Bob Dylan europeo”. Niente male, ma intanto il tempo scorre anche per lui: “Nella vita è inevitabile. Ma nel mondo della musica questo può dilatarsi come il pubblico dell’Arena ha potuto vedere…”. Sento in lei ancora un entusiasmo da ragazzo della Via Gluck? “Lavoro con Celentano dal lontano 1959 e da allora con i suoi pregi e difetti, riesce ancora a stupirmi. Lo fa con i testi e le sue canzoni d’avanguardia, i “sermoni”, come pure con il modo di credere in Dio. Mi ha stupito anche qualche minuto prima di entrare sul palco, lunedì scorso. Ci aspettavamo chissà che da lui, e invece ci ha guardati tutti con un sorriso e ci ha salutati con la mano. Non ci ha detto niente! Il resto è stata musica…”. Ne parla come fosse un guru? “Celentano è carismatico. E’ così dentro e fuori le scene. E’ come lo vedete, alle volte sorprendentemente ingenuo. Altre graffiante, con la differenza che cinquant’anni dopo lui si è arreso alla guerra ideologica”. Come, Celentano si è arreso? Cade un mito: “Ad Asiago qualche settimana fa durante le estenuanti prove mi disse: “Gianni, ha ancora senso lottare contro qualcuno? Credo proprio di no! Sono finite le illusioni. Non ci resta che la fede e la musica. E’ quello che ha mostrato a Verona, dove ha dato il massimo. Ha 75 anni, ma la forza musicale e vocale è inossidabile. Lo spettacolo è stato “mega” perché lui è così e il pubblico lo vuole proprio così!”. Qualcuno sostiene invece che si sia svenduto a Mediaset? “Diciotto milioni di ascoltatori vuol dire svendersi? Semmai dovrebbe essere la Rai a doversene fare una ragione..”.
L’ho vista alzarsi più volte durante il concerto per guardare il pubblico: “E’ vero, io suonavo ma lo spettacolo era tutto intorno a noi. Ce lo siamo ripetuti tutti in camerino. Volevo rubare delle istantanee di quel momento per portarmele sempre dentro…”. Intende dire che non si ripeterà più un concerto così? “Con Celentano non bisogna  mai dire “mai”, però questi mesi l’ho sentito più volte dire: “Chi me lo fa fare!”. Oltre a cantare lui fa dell’altro, tornerà magari con altri cd, ma credo che l’Arena sia stata una tappa miliare e irripetibile  della sua storia. E questo 
vale anche per noi!”.

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Vicenza 14 luglio 2012

MAESTRI DI PASSIONE

Il duetto improvvisato tra l’americano “Dom” e l’italiano Gianni Dall’Aglio, storico batterista di Adriano Celentano.

Potrebbe accadere e a volte accade, che maestri si sfiorino e s’incontrino sprigionando palpabili energie creative. E’ successo dentro un capannone di cemento di Montegalda (Vi) con un pubblico di selezionatissimi maestri di batteria da tutto il Nordest. Un vis a vis improvvisato tra i due mostri dei tamburi che duettando hanno mostrato cosa significhi saper ammaestrare la batteria.”Dom” il mito americano della  musica moderna, e Dall’Aglio, storico batterista del “molleggiato” più famoso in Italia, prossimo a ritornare alla ribalta nazionale.

Gianni Dall’Aglio è un nome inscindibile da quello di Adriano Celentano! Per certi versi è così se si considera che avevo 14 anni quando diventai il batterista di Adriano. Era il 1959,  nel 1960 fondammo i  Ribelli e l’anno dopo incidemmo il primo disco.

Una carriera folgorante! ”La fortuna è così…”.

Poi arrivò il cinema… “Poca roba  tipo il film  “Uno strano tipo”,”Geppo il folle”,”Joan lui”, “Tours” che non sono di certo storia del cinema.

Le tournee e i concerti… Quelli sì e tanti in tutta Italia. I concerti non li ho mai contati, mentre l’ultima mia apparizione video con Celentano è stata all’ultimo  festival di Sanremo”.

Che rapporto ha con lui? “Come faccio a raccontarle 40 anni di carriera assieme? Le posso dire che è un amico. Uno di quelli che non ti danno tante parole, ma al momento giusto lui c’è sempre. Il Celentano che conosco io è il timido che non sempre si vede in televisione!”.

Timido? “Mi creda Adriano è sconvolto dalla sua timidezza al punto tale che , come spesso accade, per vincerla adotta un sistema di comunicazione che può diventare spiazzante. Le faccio questo esempio: il giorno stesso in cui lui ha deciso di ritornare dopo 19 anni di assenza dai concerti all’Arena di Verona il prossimo ottobre, mi ha inviato questo sms. Gli e lo mostro: “Preparati, si ritorna in scena”. Gli ho risposto: “Stai scherzando. Lui “No!”. “Arena di Verona”. Dopo un quarto d’ora il telegiornale dava la notizia del ritorno di Celentano. Lui mi ha risposto: “Visto che è tutto vero!”. Adriano è così, asciutto, sincero, immediato. O ti piace o non ti piace! Con lui è sempre un avventura: è come andare su nuove terre. E’ uno preciso e perfetto, ti riduce a prove massacranti per arrivare dove lui vuole”.

Fuori dalle scene com’è? “Mai banale!”.

Ora si torna ai vecchi tempi?  “Non so cosa l’abbia spinto a questo rigurgito. Avevo intuito che stesse covando qualcosa dopo Sanremo. Lì, l’ho trovato carico e stimolato anche dal clima “contro” che si è creato. Come suo fare, lui reagisce e lo fa con la musica. Ma per ora non so altro. Immagino però che le nuove date a Verona, siano l’anticipo dell’uscita di un nuovo album suo”.

Preoccupato?“Beh, dopo 19 anni senza concerti con una band, è ovvio che qualche preoccupazione c’è. Ma dopo il primo momento di indecisione, credo che l’esperienza sconfiggerà i timori. E poi dai, è bello tornare sul palco con lui. Credetemi, ci sarà di che stupirsi, conoscendolo!”.

Resteremo a vedere. Ma intanto lei in tutti questi anni che cosa ha fatto? Il  batterista come sempre. Nel 1971  ho realizzato il mio primo album come solista “Sera, mattina (Proggressive) . Nel 1977 sono stato al fianco di Patty Pravo. Concerti qua e là, collaborazioni con cantanti nazionali e internazionali. Studio e ricerca sempre. Poi in tempi più recenti nel 2009 abbiamo presentato il nuovo CD doppio dei Ribelli intitolato I Ribelli cantano Adriano, di cui uno con le cover dei successi di  Celentano e l’altro con i loro successi”.

Ma la cosa più importante è quella di avere aperto una scuola musicale a Mantova. Una bella avventura davvero che porto avanti con molta passione. Quando “Dom” parlava qui del maestro che impara dagli alunni, mi rivedevo perfettamente”.


Vi ho visto  duettare insieme: uno spettacolo.
 “La musica fa ancora miracoli, alla base di tutto c’è però il divertimento. Non so se si è notato ma entrambi ci divertivamo come dei ragazzini. Questa è la lezione più autentica che possiamo dare ai nostri studenti. Per me “Dom” è un mito e duettare con lui è stata una forte emozione nonostante i miei 67 anni di vita. Senti questa responsabilità quando ti confronti con personaggi di questo calibro che hanno così tanta energia da toccarla oltre che sentirla. Maestri così sono la musica. Esempi di artisti che non si tengono per se i segreti, ma vogliono condividerli  con i più giovani.

E’ per questo i  musicisti faticano ad  invecchiare? “Ci piacerebbe, ma non è così. Diciamo che la musica è la nostra più efficace medicina che ci cura l’anima e il corpo. E di questa gliene sono infinitamente grato. Ecco perché a distanza di decenni, si può ritornare su un palco…”.  

 

 

 

 

ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI FRANCESCO DI ASSISI

  EDIZIONE STRAORDINARIA   

 LA “FERTILE NOSTRA MORTE” DI FRANCESCO DI ASSISI

Otto secoli fa, la sera del 3 ottobre moriva il Poverello di Assisi, il cui messaggio è di forte attualità per riportarci coi piedi per terra.

Francesco, l’uomo di Assisi moriva nel tramonto del 3 ottobre del 1226. Ci lasciava in una forma che pochi altri sarebbero riusciti a fare dopo di lui: cantando.  Abbandonava così la sua terra. Messo a nudo su un fazzoletto di terra poco distante da quella minuscola chiesa di S. Maria degli Angeli. Ma prima ebbe un ultimo, semplice, desiderio terreno: “Assaggiare quei mostaccioli portati da frate Jacopa”, nobildonna romana amica del poverello. Gli astanti, raccontano che il transito di Francesco fu coronato da un volo di allodole.  Si  chiudeva così il capitolo terreno di una delle figure storiche più rilevanti e ahimè ancora poco approfondite, nonostante la mole di libri sul suo conto. Per molti versi resta un “eccellente sconosciuto” anche per la Chiesae ancor di più per la società contemporanea che misconosce quella parola divenuta il marchio della sapiente santità di Francesco: l’umiltà. “Sorella” come la chiamava lui, porta la radice grammaticale di “humus”, terra in latino. La stessa terra-sorella che il frate morente volle sentire sulla pelle, a dire da penitente qual’era che lì stava per ritornare. La metaforica allusione all’humus dei boschi, rende chiara la fertilità portata dall’umiltà del frate dei frati. Virtù che oggi si mostra  ricoperta da un ben altro humus: fangoso quanto sterile per tutti noi. Ma cosa è rimasto allora del vero Francesco? Una crosta di studi, riflessioni, a volte deformazioni e adattamenti storico-religiosi. Non un Francesco, ma tanti franceschi. E se tale è il destino di pochi grandi, ci sono parole (quelle rese poiuna Regola, in realtà riscritta da altri) che non lasciano spazio a fraintendimenti, anche a distanza di secoli. Oggi è sufficiente entrare in qualsiasi convento per capire che ci sarebbe bisogno di un ritorno a quella originalità. Partendo da un dettaglio inscritto nella stessa Regola, per niente irrilevante: Francesco raccomandava ai frati di coltivare in prima persona la terra “che ci nutre e sostenta”. Raccomandava poi di coltivare le erbe aromatiche “per poter sentire il profumo di Dio”, concetto altamente teologico. Per ultimo che venisse lasciato uno scampolo di terreno incolto “per contemplare le regole del Creato-Creatore”. In pratica, voleva che i suoi frati comprendessero le basilari regole della vita, intesa come scienza della casa fatta di molte creature (biodiversità). Esercizio di pensiero, prima che di pratica. Oggi però nei conventi sono rimasti in pochi a coltivare queste tre semplici regole. Qualche frate anziano forse, ma il più delle volte è un fedele-pensionato a coltivare per loro.  Dell’antica coltivazione di erbe, rimangono a malapena poche piantine tra queste le cosiddette “lacrime di Giobbe” i cui semi servono ancora alle religiose per confezionare dei rosari “secondo natura”. Chissà cosa direbbe oggi Francesco di questo impoverimento dello spirito pratico? Si raccomanderebbe di ritornare alla terra per capire meglio le cose del cielo. Supplicherebbe ai suoi di coltivare, anzi mantenere (interessante l’etimologia di questo verbo) lo spirito partendo dalla terra stessa. L’attualità del messaggio del povero di Assisi, parte proprio da questo “basso”. Dalla polvere. Dallo stare sotto, dove nel caso nella foresta si trova il terreno più fertile, e dove gli elementi ridanno vita alla morte in una gloriosa rinascita. E’ il cerchio della vita che  Francesco ci ricorda nell’ora della sua morte. Una “fertilità” auspicata anche per il futuro della Chiesa, come per tutti gli uomini di buona volontà.

                                                                                                                                                                                              LETTERA APERTA 3 ottobre 2012

ANTONIO GREGOLIN