VITTORINO ANDREOLI: MORIRE PER SOLDI

di Antonio Gregolin – testi copyryght 2011-

 SOLDI CHE UCCIDONO 

Suicidi indotti dal denaro. Cronaca quotidiana. Segno inquietante dei tempi. “E’ una nuova malattia” spiega il noto neuropsichiatra Vittorino Andreoli, in questa intervista di un anno fa (che pare  scritta pensando alla cronaca di questi giorni).

“Sta avvenendo quello che in forma sociale non era mai accaduto prima nella storia dell’umanità: darsi la morte per i soldi!”. Episodi quasi quotidiani di suicidi di persone sull’orlo del fallimento economico, ci inducono ad una seria riflessione che qui facciamo con Vittorino Andreoli, lo scapigliato psichiatra veronese, volto noto della televisione e autore di libri di ampio successo. Con “Il denaro in testa 2011) che ha anticipato la cronaca di questi giorni.

 Professore Andreoli, il denaro sta alla base di molti mali. Lei con il suo libro ha anticipato i tempi? Studio i fenomeni e le cause, così è possibile  dedurne anche le conseguenze. Negli ultimi anni, sempre più spesso mi sono relazionato con persone che stavano male proprio per colpa del denaro. Un fenomeno nuovo anche per la stessa  psichiatria. In questo ultimo periodo, ho approfondito cosa significhi il “lutto da denaro”…

Ovvero? Quando si parla di “lutto”si pensa alla  perdita di  una persona cara, a tutto ciò che è  legato agli affetti e sentimenti più intimi. Oggi questo termine si coniuga anche col denaro! La perdita di denaro quindi, lascia un senso di abbandono, come se ci trovassimo soli in un deserto. Io che continuo a fare lo psichiatra,  mi sono accorto che bisogna aprire un nuovo capitolo clinico, che ha come protagonista proprio il denaro.

Sta però mettendo il dito su un problema globale. In realtà, più che in testa il denaro bisognerebbe tenerlo in tasca, perché  questo mantenga la funzione di strumento che facilita la vita. Diversamente, quando il denaro ci conquista, , diventa un demone, un tarlo che altera pensieri e sentimenti, portandoci a comportamenti inaccettabili e irreparabili. Perfino l’amore è diventato denaro-dipendente. Allora, in questa visione generale i soldi diventano non solo il prezzo delle cose, ma soprattutto il prezzo dell’uomo. C’è un intero capitolo dove tratto le “malattie indotte dal denaro”: la dipendenza, la depressione, ma è indubbio ci sia anche l’immoralità da denaro. C’è la stupidità da denaro. Si uccide per denaro. La psichiatria non è come le altre discipline o le malattie dello stomaco che riguardano il singolo. Io mi occupo del comportamento e  questo ha a che fare con la società intera! In questo posso avvallare il “globale” della domanda.

Dato per scontato che tutti conosciamo il valore del denaro, lo ritiene un bene fondamentale? Non è un male, purché non si sostituisca o riduca tutta la vita a mero  denaro. Oggi si sta consolidando la spaventosa tendenza che porta a misurare tutto in denaro. Non c’è più un’etica. Se poi a questo principio si arriva a dire che “tutto è possibile,  basta avere denaro”, mi pare chiaro che saltano le  fondamenta sociali.

Ma sono già saltate!? Certo, ma spero non per tutti!  Oggi con il denaro si compra la bellezza, la stessa Legge nazionale e come conseguenza, la corruzione dilaga. Per questo mi pare giusto che uno psichiatra possa e debba sollevare delle preoccupazioni sul nostro futuro.

Qual è il suo rapporto ha con i soldi ? Primo non gli sperpero. Penso sempre che nel mio portafoglio qualche volta ce ne sono, altre meno. Mi sono trovato anche a non pagare il caffè perché non né avevo. Il denaro per me è  uno specchio in cui guardarsi e guardare gli altri. Dipende sempre da come viviamo il rapporto coi soldi,  che può essere di dipendenza o di sufficienza.  Credo poi sia diseducativo presentare il denaro ai i figli come fosse l’acqua potabile, cioè basta aprire il rubinetto. Penso che vada rispettato e usato per quello che realmente serve. Buttare via denaro, magari comprando corpi femminili o altro, quando ci sono persone che muoiono ancora di fame, è inconcepibile oltre che eticamente scorretto. Che  poi ciò accada è davanti ai nostri occhi. Purtroppo! Io non sono ricco, forse l’avrei potuto diventare, ma sono felice di essere sempre scampato da questa tentazione. Il denaro ti sorride e uccide. Nel mio capitolo “Il fascino della storia” dico che i saggi hanno sempre rifiutato il denaro e il potere. Ci sarà un perché?

 Ma non è quello che pensa un povero… Lo dico chiaramente: la povertà è una malattia! Però la cosa strana è che le malattie da denaro non sono solo nei ricchi, ma ci sono anche nei poveri. Il denaro come potere, significa avere la dimensione della ricchezza come misura di tutte le cose. Cosa che  alla fine ci rende infelici. 

I soldi non daranno la felicità, ma è pur vero che oggi senza soldi puoi morire. Ha mai visto un povero felice? Su questo non ne sono sicuro. Non sappiamo se il greco Diogene fosse felice o meno, standosene dentro una botte nudo e senza denaro, cercando l’uomo. Il saggio non vuole il potere, cerca la gioia. Cristo stesso non aveva il portafoglio. Gandhi non volle diventare un Capo di Stato, così come non lo fu Socrate o Thomas Moore (San Tommaso Moro). La povertà è un dramma. Così come la ricchezza non è la porta della felicità. Io finisco il libro con un decalogo sui bisogni dell’uomo in cui dico che: abbiamo estremo bisogno di sicurezza; di non stare da soli; di avere un senso per gli altri; un bilancio positivo tra gratificazioni e frustrazioni. Abbiamo  persino bisogno di pregare, e  non importa se c’è un dio, perché se preghi significa che hai bisogno dell’altro, il  che ti offre il senso del tuo limite. Abbiamo bisogno  anche di giocare, di essere bambini. Per nessuno di questi bisogni serve il denaro, semmai aiuta a soddisfarli. Oggi denaro e potere sono nelle mani degli economisti. Non è più possibile lasciagli questo potere assoluto. Occorre che vi siano anche quelle persone che conoscono l’uomo, che fanno in modo che il denaro sia al servizio dei bisogni dell’uomo e non il bisogno dell’uomo. Sono stato chiaro?.


Come sempre. Sottendente però che siamo alla deriva? 
Questa è la fine di una civiltà, prima ancora di una società! Voglio fare una puntualizzazione: la nostra civiltà nasce con Platone, il quale pensava che il governo della cosa pubblica dovesse essere messo in mano ai filosofi, e non certo ai mercanti, che oggi potremmo identificare negli economisti. Era il filosofo che conosceva l’uomo. In Grecia, nascono così tutti quei principi che oggi sono mercanteggiati, con lo strapotere del ricco “cretino”, da intendersi non come offesa, ma pura diagnosi come il cretinismo o la “stupiditas” che sono state categorie psichiatriche”. I simboli poi sono la cornice di questo discorso, nel dimostrare l’ostentata ricchezza di ognuno di noi.

Anche il “tempo è denaro”! Proprio a questo si legano le malattie. La fenomenologia psichiatrica sosteneva  che quando c’è una grande distanza tra il tempo vissuto dentro di me e quello dell’orologio fuori di me, è difficile adattarsi. Lo stress non è altro che una asimmetria tra il tempo dentro e fuori.

Si uccide per denaro!? La storia del caso Maso, il giovane veronese che sterminò la famiglia per l’eredità più di diedi anni fa, ne è la palese dimostrazione. L’assassino aveva fatto bene i calcoli: sperava di ereditare oltre un miliardo di lire con  la morte dei suoi genitori. Ma questo è solo uno dei tanti casi che continuano a ripetersi con la stessa finalità.

Anche le famiglie (da sempre)  vengono smembrate dal denaro? Sì, ma con una distinzione rispetto al passato: oggi il 75% del tempo speso per parlare in casa, è sempre direttamente o indirettamente, legato ai soldi. Ancora, ci sono genitori che danno la “paghetta” ai figli, inibendo che un bambino bisognoso si riferisca alla mamma o al papà in maniera diretta. Si preferisce offrire denaro (paghetta) perdendo così una delle rare occasione di ascoltare e analizzare il desiderio dei figli. I genitori si giustificano dicendo che “lo fanno per educare alla autonomia”, mentre invece è per l’autonomia stessa dei genitori che così si occupano ancora meno dei figli .

Sono gli stessi genitori poi che intimano ai figli: svegliarti. Farti furbo. Fai come fanno tutti. Abbiamo  davvero venduto l’anima al diavolo? Le basta se le rispondo che non mi piace affatto questa società?

Lei qui si rifà a questioni etiche: anche la Chiesa non pare immune al fascino dei soldi! Non lo è mai stata immune! Oggi però bisogna capire di quale Chiesa stiamo parlando: quella del cardinale Martini o quella dei “Marcincus” vaticani? E’ inutile che le dica quale preferisco nella mia laicità!

Dopo duemila anni di cristianesimo il denaro resta il desiderio assoluto di molta gente. Altro che semplicità e povertà! Per il ricco i peccati sono sempre discutibili.

Calvinisti ed evangelici considerano i soldi come “dono di Dio”? Perfetto, ma se è un dono del cielo bisogna a maggior ragione farne dono. Lei usando la parola “dono” fa pensare all’antropologo Marcelle  Mauss che scritte giust’appunto un libro sul  tema del donare, nel quale spiega che riceve un dono è meno appagante che farlo. Ci scordiamo spesso la bellezza  che si ha e si riceve nel fare il bene, di regalare un sorriso o un saluto. Non costano nulla, ma valgono e dicono molto! 

Pure il Vangelo si è confrontato col denaro… Ma non Cristo!

Eppure si parla di trenta denari, della cacciata dal Tempio dei mercanti, del “date a Cesare  quel che è di Cesare”… Se le sue obiezioni servono per dire che è sempre stato così, non è vero! Perché solo negli ultimi due anni –e io faccio lo psichiatra da cinquanta-,  ho trovato che il denaro sta prendendo la testa delle persone. E’ vero che c’e il denaro dei ricchi, dei paperon de paperoni, ma oggi i soldi inducono tutti indistintamente a compiere cose che pensavamo inconcepibili solo qualche anno fa.

Colpa anche della politica attuale? L’ha detto, la politica è completamente slegata dai problemi reali della gente. E i politici  si ostinano a non voler capire…

Il denaro resta comunque la forma più  forte di potere: chi è potente ha soldi  e questa è una forma interdipendente. Non crede? Sarò chiaro, il potere e non entro nel merito delle sue diverse sfaccettature, è una malattia! Questo basta per farci comprendere  quanto la nostra sia una società profondamente ammalata. Ripeto, ammalata e ferita, con risvolti incurabili per la reticenza dei pazienti.

Con questo non ci da speranza? Dobbiamo essere realisti: l’unica speranza di buon senso, rimane quella che il denaro nostro o altrui (dunque l’invidia) non ci prenda testa. Ma è difficile, mi creda! Meglio che rimanga nel portafoglio o si spenda oculatamente per evitare di diventare dipendenti dallo “shopping”, come forma di rifugio che involontariamente può trasformarsi in vera e propria patologia compulsiva, molto più diffusa di quanto si creda. 

 

30MILA VISITATORI

30MILA VOLTE GRAZIE!

 

E non bastano ancora per ringraziare  tutti quelli che in un anno e mezzo dalla fondazione di STORIECREDIBILI hanno visitato, divulgato e sfogliato queste storie.

TRENTAMILA visitatori da ogni parte del mondo che cercano un’Italia credibile. Con italiani che si raccontano. Gente famosa e meno, che ha in sé l’ideale dell’onestà e genuinità, spesso nascosta dal troppo fumo di questi tempi.

Per dirvi GRAZIE, eccovi non uno, ma ben TRE regali: la storia dell’alpino che scala il secolo, per ricordare la prossima Adunata degli alpini di Bolzano. A seguire l’intervista con l’ultimo dei grandi  inviati “speciali”, Ettore Mo.

IL PUNGIGLIONE, è la mia “storica” rubrica di costume e società che scrivo da oltre 13 anni in vari mensili e settimanali. Da oggi sarà per te disponibile settimanalmente cliccando sulla nuova icona di destra. 

ANTONIO GREGOLIN

L’ALPINO CHE HA SUPERATO IL SECOLO

di Antonio Gregolin -copyright 2012 foto e testo-

SUL CAPPELLO… DELL’ULTIMO REDUCE ALPINO

E’ stato una delle icone delle adunate nazionali degli alpini, Cristiano Dal Pozzo di Rotzo sull’Altopiano di Asiago , scomparso il 28 marzo 2016 a 102 anni, reduce dell’Abissinia,   da oltre quarantacinque anni non salta un appuntamento. L’ultima sua Adunata a Pordenone nel 2014, poi quella Triveneta di Conegliano nel 2015. Fino all’ultimo ha sfidato il tempo e la storia, nel nome della memoria 

Di alpini veri, quelli cioè che hanno combattuto al fronte, ne sono rimasti pochi. Anzi, pochissimi, tanto che ogni anno c’è chi fa la conta dei reduci per capire chi è presente, e chi invece è “”passato oltre”. Il più longevo degli alpini, Giovanni Andriano 105, si è spento nel Canavese solo pochi mesi fa. E chi resta, continua a segnare il passo nelle sfilate alpine nazionali. Tra i più arditi e motivati ormai è rimasto solo lui, Cristiano Dal Pozzo, 98 anni di Rotzo sull’Altopiano di Asiago (Vi). Un alpino quasi per destino, visto che è cresciuto e vissuto respirando l’aria della  Grande Guerra. Granitico come le sue montagne ha una volontà di ferro nonostante i due bastoni su cui si sostiene: “Là c’è Asiago, lì Roana, el mè  paese Rotzo el zè drio ea costa dea montagna…” mi spiega l’anziano sull’uscio della sua piccola casa che guarda un campo di patate che hanno permesso di sfamare un intera generazione dei Dal Pozzo: le stesse che poi avrebbero reso celebre il paese  per la bontà dei suoi gnocchi.

E’ questa la geografia di una vita.
Quel “mondo antico” che il vecchio alpino Cristiano conosce a mena dito: “Anca a oci sarà”, aggiunge lui ironicamente. “Qui di vecchio ci sono le montagne e poi ghe son mì, coi me novantotto anni”, confermati dall’anagrafe comunale: 1 dicembre 1913. Quassù è naturale che Cristiano sia ormai una personaggio pubblico, con tanto di book stampa e fotografie con presidenti e ministri durante le tante adunate nazionali cui è mancato solo due volte. “El discorso se fa lungo – replica l’anziano sull’uscio di casa – ze mejo che el vegna dentro!”.  E con noi entrano spedite anche quattro galline: “Sho, sho -fa lui con un gesto di mano- quando se ze veci, anca le gaine ga pietà de tì”. S’intuisce che lo spirito non gli manca, come la volontà d’indipendenza che lo porta ancora a rifiutare l’invito dei tre figli che lo vorrebbero a casa con loro: “Qua sto’ benon!” è la risposta.Basta allora qualche data perché i ricordi riaffiorino in lui con estrema lucidità, coloriti da quel vigore degli ultimi “cimbri” di Asiago, testimoni di un passato che qui è impregnato dei racconti dello scrittore, Mario Rigoni Stern. 

Ma l’alpino Cristiano non è un letterato, e tanto meno uno scrittore. I suoi appunti gli servono  per rinfrescargli la memoria. Tre foglietti scritti di pugno con una calligrafia ancora precisa che ci riportano a quel 1935-1936, nel deserto dell’Etiopia, seguito poi dalla Libia nel 1943, passando poi per Bolzano, fino a cadere dopo l’8 settembre del 1945 prigioniero dei tedeschi in un campo di concentramento, “dove ho cercato di sopravvivere alla fame e alle pulci”. Da giovane alpino colonialista fascista a prigioniero, il tutto nei dieci anni della sua gioventù trascorsi al fronte: “Ci riempivano la testa dicendoci che avremmo visto cose grandi e fondato un impero. Ma alla fine, ero partito povero e sono ritornato sconfitto. La guerra è sempre una cosa sporca, ma noi “coloniali” eravamo convinti di portare la tecnologia che avrebbe permesso lo sviluppo delle popolazioni indigene del Negus. Ci sbagliavamo!”commenta lui oggi.

La mia fortuna è stata quella di rimanere nelle retrovie con l’incarico di marconista: addetto cioè alle trasmissioni. Non ho mai sparato un colpo o ucciso alcuno, perché ero impegnato a trasmettere agli alti comandi le informazioni dai campi di battaglia”. Una specie di cronista, insomma: “Il mio compito era raccontare la guerra a qualche centinaio di metri dal fronte e riferire ai comandi ciò che avveniva. Cosa per niente facile, quando si trattava di descrivere orrori!”. “Ricordo ancora l’eccitazione che avevamo noi giovani combattenti volontari, partiti per colonizzare l’Africa. Non avevamo paura, solo  perché eravamo incoscienti…”. Ora che la storia ha svelato tutti gli errori di un periodo storico che ha provocato milioni di morti, a Cristiano gli si arrossano ancora occhi rossi quando fa memoria del suo passato. Gli stessi ricordi che “continuano a tenermi compagnia durante i lunghi e freddi inverni che abbiamo qui. 

 Sul tavolo della cucina ricoperto da una tovaglia cerata è appoggiato il suo cappello deforme da alpino: un vero e proprio cimelio di guerra. Un cappello color sabbia con la penna ormai ridotta ad uno stelo: “E’  l’originale –precisa Cristiano-, compresi i rinforzi in sughero e gli occhiali originali e poco funzionali,che mi servirono nei deserti durante la  Campagna d’Africa del 1935. E’ tutto quello che mi  rimane di quel periodo, con  due croci di ferro al valore militare”.

Ricordo l’eccitazione che allora avevamo noi giovani combattenti volontari, partiti per colonizzare l’Africa. Ci riempivano la testa dicendoci che avremmo visto cose grandi e fondato un impero. Ma alla fine, ero partito povero e sono ritornato sconfitto!”. “La guerra è sempre una cosa sporca, ma noi “coloniali” eravamo convinti di portare la tecnologia che avrebbe permesso lo sviluppo delle popolazioni indigene del Negus. Ci sbagliavamo!”. Gli alpini comunque lui non gli ha mai lasciati; li porta nel cuore e quando settantacinque anni dopo racconta di quelle gesta nel deserto, gli brillano ancora gli occhi: “Non avevamo paura, solo  perché eravamo incoscienti…”.

Non conoscevamo nulla dell’ambiente africano dove ci spedirono, per di più male equipaggiati. Vidi così il mare per la prima volta il giorno stesso della mia chiamata alle armi. La guerra però Cristiano l’aveva sfiorata fin da piccino, quando nel 1915 le truppe austroungariche occuparono l’Altopiano e la sua famiglia fu costretta a migrare in un paesino della pianura dove rimasero per venti anni come “sfollati”. Tra una guerra e l’altra per Cristiano arrivò anche il tempo dell’amore, con Angelina Belfiore. Richiamato al fronte all’inizio della Seconda Guerra mondiale, Cristiano viene spedito nuovamente per l’Africa.

Quando fa ritorno a casa sono passati quattro anni e una vita da rifare. Dalla pianura ritorna nella sua Rotzo a coltivare patate. Mezzo secolo dopo, prossimo al suoi cento anni, ha stabilito a chi lascerà i suoi cimeli: lo storico cappello e divisa da alpino. Lo regalerà al museo locale di storia. Intanto, si prepara alla prossima adunata di Bolzano: “Certo che vorrò esserci –aggiunge lui- sono più di quant’anni che partecipo, e non sono mai mancato, inclusa quella di Latina nel 2009, a 96 anni”.

Girare non lo stanca perché “mi fa sentire libero e vivo”. Una vitalità la sua, che esplode proprio quando sotto una cascata di applausi, l’alpino centenario sceso dalle montagne di Asiago, sfilerà lungo i viali di Bolzano, anticipato da uno striscione che ricorda i reduci dell’Abissinia. E’ ormai rimasto solo l’alpino Cristiano, ma forse è questo che gli fa mostrare uno scatto d’orgoglio: i cento metri davanti alla tribuna delle autorità, lui li vuol ancora  sulle proprie gambe, distribuendo sorrisi e baci, come una star col cappello da alpino.

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1 dicembre 2012

 UN PASSO DAL SECOLO

“E’ il pellegrino più longevo che annualmente ci viene a fare visita” assicura il rettore della basilica del Santo, accogliendo ieri l’alpino veterano di Rotzo, Cristiano dal Pozzo, 99 anni compiuti lo stesso giorno. Un vecchio pellegrino che da ben 47 anni il giorno del suo compleanno, lui pensa al  Santo: “Vengo giù dalle montagne per ringraziare chi mi ha permesso di tornare a casa con le mie gambe dalla Campagna d’Africa, dal 1935 al 1943, e di ritorno dall’Abissinia, venni poi fatto prigioniero dai tedeschi ed internato in un campo di lavoro nei pressi di Linz in Austria, fino al 1945”. La sua è una storia lunga, iniziata come alpino volontario al grido di “armatevi e partite per conquistate” e finita con l’umiliazione della prigionia e la povertà che si è ritrovato tornando a casa sull’Altopiano di Asiago. “Ea ze sta dura-ripete lui sessantasette anni dopo i fatti, con ancora la voce e le lacrime per l’emozione- ma gò porta casa ea pele, anca par grasia de Sant’Antonio che me gà iutà!”. Preghiera semplice vissuta e genuina la sua, condivisa con il resto della comunità francescana del Santo, dove l’alpino Cristiano viene accolto con fraternità. Di memoria l’alpino Cristiano ne ha da vendere, visto che ricorda luoghi e date con la vivacità “de un bocia che ga visto la morte in facia”. Soprattutto nel periodo della prigionia  tedesca, quando fame e pulci l’avevano ridotto a pesare poco più di un sacco di patate: “Quando tornai a casa, stentò a riconoscermi anche mia madre” aggiunge lui. Lontano da quei momenti, ma con il pensiero a chi non è tornato dal campo di battaglia, Cristiano Dal Pozzo è tornato ieri puntuale all’appuntamento alla porta della basilica del Santo, con il suo solito cappello chiaro in testa da alpino del deserto, lo stesso che utilizzò durante la campagna d’Africa con al petto le sue due inseparabili medaglie al merito di guerra. Figura che sembra uscita da un libro di storia, che sorregge la sua vicenda personale grazie a due bastoni di corniolo per aiutarsi a camminare che si è fatto da solo. Roba spartana ma efficace, com’è lui ancor oggi sulla soglia del prossimo centenario. Ormai l’alpino dell’Altipiano è di casa tra i frati di Padova, al punto che ogni primo dicembre gli preparano un posto a tavola nel loro refettorio. Da cinque anni ad accoglierlo trova sempre padre Enzo con tanto di cappello con la penna in testa. Il veterano di guerra e il frate alpino con l’esperienza della naja, sono amici. Si abbracciano senza formalismi, anche se la comunità francescana  riserva a Cristiano l’accoglienza di una autorità, con tanto di banco preparato a festa in Basilica per la messa officiata dallo stesso rettore e predica a tema con una appendice personale a fine messa, quando il frate consegna il microfono a Cristiano per le sue canoniche parole di saluto e ringraziamento. Poi il pranzo con le candeline sulla torta e la firma nel registro delle autorità, prima dell’omaggio finale. Un programma che Dal Pozzo pare conosce bene, che lui ricambia con quella semplicità di montagna che lo rende essenziale anche nei ringraziamenti. Tanto essenziale che le poche concise sue parole che echeggiano tra le navate della basilica sono state: Auguri a tutti e mai più guerre!”. “Questa è la mia è penultima pagina del libro…” aggiunge poi quasi a voler lasciare aperto il discorso per l’anno prossimo quando lui celebrerà il centenario. “Se avrò gambe, tornerò se mi vorrete ancora -ha detto rivolgendosi ai frati- e ve portarò ancora le me patate de Rotzo!”, mentre padre Poiana gli ricordava come l’anno prossimo quel suo compleanno cadrà di domenica e allora la messa sarà solenne con tanto di  autorità presenti. Dal Pozzo ricambia con un sorriso, disarmante e sincero, sgranando gli occhi dicendo: “Ostia, i me voi davero ben qua!”. Con un solo rimpianto: “Non poter arrivare più da Rotzo come ha fatto fino a quattro anni fa” quando Dal Pozzo saliva da solo sulla prima corriera di linea alle 6 del mattino, diretta a Padova, per fare ritorno a casa nel tardo pomeriggio, per quel suo pellegrinaggio che lui vuol compiere almeno fino ai suoi ormai prossimi cento anni.

L’ALPINO DEI MONTI SI E’ SPENTO SERENAMENTE ALL’ALBA DEL 28 MARZO 2016 PORTANDOSI NELLO ZAINO 102 ANNI DI VITA, AVVENTURE E RICORDI.

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SCATTI DI MEMORIA …da Bolzano 2012