ADDIO AL POETA DELL’OTTIMISMO

di Antonio Gregolin -copyright 2012- riproduzione vietata

TONINO GUERRA HA CHIUSO IL SUO LIBRO DI POESIA

E’ stato un artista a tutto tondo, Tonino Guerra, che amava inchinarsi davanti la bellezza di un mandorlo in fiore. Il suo racconto inedito sul saluto


Ha chiuso a 92 anni il suo libro di vita, Tonino Guerra, poeta, regista e sceneggiatore romagnolo. Se n’è andato il 21 marzo 2012, il giorno stesso in cui iniziava la primavera e arrivano le rondini. Sarà per questo che per un poeta e cantore dello spirito della terra come era lui, viene ora difficile accostarlo alla fatalità o peggio, a quella “casualità” che Tonino Guerra ha combattuto per una vita, cercando di dare storia alle forme attraverso i suoi giardini e musei, come nelle sue storie, create e raccontate attraverso la sceneggiatura e il cinema. L’Italia perde così un altro pezzo della sua “bellezza”. La sua voce per la terra, pregna di poesia e disarmante saggezza, ora tace e per sempre. Non sarà  un caso che un poeta come lui ha scelto di congedarsi il giorno stesso in cui sboccia la primavera. La fatalità però,  non è mai l’ultima parola per un poeta. Otto anni fa raccolsi questa sua testimonianza, concessa per la Campagna Salva il Saluto. Poche frasi, un  ricordo e uno sguardo sulla gente e la sua terra, sufficienti per comprendere che oggi siamo tutti un po’ più soli e privi di poesia.Questi sono giorni di raccolto poetico, con il tempo che miete uno dopo l’altro questi nomi, lasciando il passo alla memoria. Anche per questo, forse, il primo giorno di una nuova stagione è stato l’ultimo della vita di un poeta come Guerra, che salutava un mandorlo in fiore… inchinandosi.

                                                                                                             AG. 22.03.2012

“SALUTIAMO ANCHE LE PIANTE”

“Salutarsi…ah, che bello!” si presenta così Tonino Guerra, uno di quelle poliedriche figure che non sai mai come definire: poeta, scrittore, sceneggiatore, registra,paesaggista o più semplicemente cultore della sua terra. Quella Santarcangelo di Romagna che lui stesso ha contribuito a rendere celebre grazie a particolari iniziative, quali: il giardino dei frutti dimenticati o il museo dell’Angelo coi baffi.” La televisione ci ha chiuso in casa, ci ha tolto dalla piazza, dai centri dei paesi e delle città, per farci sedere davanti ad una scatola parlante”. “Anche il saluto, quel gesto che si compie più di tutti in piazza, sta forse scomparendo per questo…”, afferma Tonino Guerra con quel suo tono caratteristico da inguaribile affabulatore: “Dappertutto, sta venendo meno quello spirito di piazza dove ci s’incontra, che piace così tanto ai nostri turisti, ma sempre meno agli italiani!”

“Come sarebbe bello -continua lo scrittore-, se capissimo il gusto della generosità, del dare e comunicare anche attraverso la semplicità di un gesto!?”. “La nostra è una cultura che nella sua unitarietà continua a dire molto a chi la vuol conoscere; non siamo come gli inglesi che prima di salutare si chiedono chi sei.” “Perché nelle scuole non s’insegna più questa grazia? Quanto sarebbe bello se proprio nelle nostre aule si sentisse dire di tanto in tanto, dai maestri o professori: oggi avete salutato qualcuno? Avete sorriso a qualche anziano? Avete fatto un gesto di tenerezza? Quanto sarebbe diversa la scuola e forse anche questa nostra società!”.

Tonino Guerra si rivolge poi verso i profili collinari della sua Romagna, dove qua e là sopravvivono alberi secolari e solitari: “Dovremmo salutare anche loro, le vecchie piante, così come t’insegnano a fare in Russia. A quella terra io debbo molto e ancor oggi non dimentico lo stupore di uno dei miei primi viaggi a Mosca, quando la gente del posto m’invitò a salutare un vecchio albero”. “Allora mi dissero di abbracciarlo perché a lui avrei dato il mio rispetto e in cambio avrei ricevuto la sua forza”. “Insomma, – conclude Guerra- salutiamo tutti indistintamente, uomini e piante, ma anche fiori e uccelli, perché è con questo spirito che riempiamo di bellezza la nostra esistenza”. (sito www.salvailsaluto.com)

IL RE DEI CLOWN

di Antonio Gregolin                                       -copyright 2012 diritti riservati-

Il veronese David Larible è  considerato il “clown dei clown”. Vera e propria star mondiale del circo.

Altro che “il re è nudo” per citare la storia. Questo è un re dal naso rosso e con una straripante carica d’ironia. David Larible è considerato il clown più famoso del mondo, erede di star del calibro di Chaplin o Crock. L’artista veronese è oggi il clown che ha vinto più premi alla carriera, tra tutti i clown della storia. La sua è una lezione di filosofia sul come s’insegna e  quanto si può imparare da un sorriso. “In fondo, fare il clown è una cosa seria. Troppo seria per non riderci su!”.

E’ la mia prima intervista ad un clown, per di più di fama mondiale come lei.  Come le piacerebbe iniziare? “Con domande intelligenti e risposte -spero- altrettanto intelligenti ”.

Così mi carica di troppe  aspettative!? “Suvvia, sono solo un clown…”.

Non sia così modesto, sa bene di essere il “reuccio” dal naso rosso… “Un che? Un reuccio! Sappiamo che fine hanno  fatto i re…”.

Intendevo, un maestro di circo! “Neppure maestro accetto, anche se confesso che data la mia età, 53 anni, ho molte persone che mi definiscono così. Mi creda, non insegno niente a nessuno! Quando svolgo i workshop in giro per il mondo dico sempre che voglio condividere la mia esperienza con  quanti non chiamo neppure “allievi”, ma clown ancora senza esperienza”.

L’ho appena vista sorridere! Partiamo col piede giusto, visto che lei lavora in questo campo. “Non mi piacciono le definizioni assolute. Il clown è un arte, non una competizione. La definizione di “Clown dei clown” mi venne data dal New York Times qualche anno fa, e non sono più riuscito togliermela di dosso. Tanto per esorcizzarla, mi sono preso la libertà di chiamare nello stesso modo un mio spettacolo. Ho copiato una definizione giornalistica per dare un nome ad una mia creatura, dove interpreto un uomo delle pulizie che ha poco a che vedere coi titoli roboanti dei giornali”.

Però un po’ lusingato lo è? Il pericolo è quello di cominciare a crederci, quando sono in molti a dirtelo. La trappola è di pensare di essere il migliore. Così finisci di crescere e di migliorarti, e per uno che fa  questo mestiere sa di doversi  migliorare in continuazione”.

E’ cresciuto a Bussolengo, nel Veronese. Ha però un Dna francese “Larible”, con una consolidata tradizione famigliare circense che dura da ben sette generazioni. Dico bene? “Sì! Non a caso il nuovo spettacolo che sto provando in questi mesi in Germania, si chiamerà “Destino di clown”.

Con una famiglia così non ha avuto scampo? “Si e no! E’ stato mio padre a farmi scegliere cosa volessi fare dopo la terza media a Verona, con scarse prospettive scolastiche: “Oh la scuola o la pista?” mi disse.  Non esitai un attimo. E ora eccomi qua!”.

Un cattivo rapporto con la scuola o una grande passione per i clown? “So di essere stato un bambino vivace. O meglio, allegro! Ho sempre fatto divertire i mie compagni e insegnanti. Quando in classe superavo i limiti -spesso-, venivo messo alla porta dai professori con il sorriso sulle labbra. Però non sono mai stato bocciato! Forse anche perché a  tre settimane dalla fine della scuola, mi rinchiudevo a studiare e imparavo in pochi giorni quello che non avevo fatto in un intero anno”.

Non è un buon esempio? “Lo ammetto! Ma quando nasci così, non puoi farci nulla. Ai miei figli ripeto la frase dei miei insegnanti che poi ha segnato la carriera: “Larible, esca dalla classe…”, e me lo dicevano ridendo.

Mi piacerebbe però sapere cosa direbbero oggi di me quei professori…”.

C’è poco da dire: oggi lei è il clown più famoso del mondo! Come  ha fatto a diventarlo? “Diversamente da ciò che si pensa, clown si diventa alla fine di un lungo lavoro. Non è pensabile che uno a sedici anni possa già essere pronto per una pista. Ho iniziato come trapezista, poi giocoliere e solo nel 1980 decisi di diventare un clown. Le parlo di una delle regole fondamentali del circo!

Oggi è famoso quanto Chaplin, Stanlio e Olio. Niente male… “Arrivarci a quelle altezze là! Parliamo di figure ineguagliabili. Devo mangiarne ancora molta di minestra per essere paragonato a loro. L’esposizione mediatica oggi è molto diversa dai loro tempi: da una parte facilita perché la tecnologia è globalizzata. Dall’altra aumenta la concorrenza, anch’essa globale. Ai suoi tempi, il grande Chaplin era praticamente unico in tutto al mondo, e sugli schermi non uscivano più di trenta film comici l’anno. Numeri così oggi si sfiorano in un giorno appena. Si fa spettacolo in ogni dove e tanti  fanno di tutto pur di apparire”.

Clown dunque, si nasce o si diventa? Si nasce!  Non è l’uomo che sceglie il clown, ma viceversa”.

Nel 1999 al Festival del Circo di Montecarlo ottiene l’oro, diventando il terzo clown nella storia a raggiungere questa onorificenza, dopo Charlie Rivel nel 1974Oleg Popov nel 1981. Mica poco! “Sta toccando un tasto dolente. Nonostante i premi sono fermamente convinto che questi  non determino nulla. Conosco persone circensi che sono artisti immensi, che però non hanno mai ricevuto un riconoscimento. Altri che magari hanno vinto il clown d’oro, e sono invece decisamente modesti”.

Ha vinto tutto quello che si poteva vincere. Cosa le manca? “Vorrei vincere l’Open di Golf (ride), solo che credo ci sia già chi c’ha pensato!”.

Qual ‘è il giudizio che si da? Sono una persona che ha la fortuna di fare un lavoro di cui è follemente innamorato, cui Dio ha dato talento e occasioni che hanno determinato un certo successo. Successo che non durerà in eterno, sia chiaro! Ecco perché serve umiltà e desiderio di non sentirsi mai arrivati, neppure quando si  ricevono i premi più prestigiosi. L’ unica vera riconoscenza, te la offre sempre e solo il  pubblico cui devi rispetto totale e sacrale. E’sempre  il pubblico la vera “star”, senza  di questo  non ci sarebbe  spettacolo!

Ha due figli: com’è essere un papà col naso rosso? “Sono un padre normale e deluderò i molti che pensando che un clown sia un papa speciale. C’è però una grande allegria in famiglia. Ho certi valori e spero di trasmetterli. Mia figlia Shirley è trapezista ed è inserita nel mio prossimo spettacolo. Il più piccolo, David Pierre, ha 13 anni e vuole intraprendere la scuola di giocoleria”.

Gli racconta mai la sua storia? “Quasi mai, perché vogliono che vivano il padre per quello che è , e non per ciò che è stato”.

Lei com’è stato? “Sono nato sotto un tendone e non un cavolo! (sorride). Mia madre mi ha dato alla luce a  Novara, perché il circo si trovava lì. Poi ci siamo trasferiti  poco dopo a Bussolengo, prossimi al lago di Garda, dove ho ancora la mia casa e dove faccio spesso ritorno tra una tournée e l’altra nel mondo, e le mie radici restano tuttora  lì!”.

Quando ha visto per la prima volta dei clown? “Appena ho avuto la capacità di fissare i ricordi. Ricordo che andavo a vedermi tutti i giorni il numero di clown del mio circo”. Essendo poi un veronese “è un po’ matto”… “Lo dico e me lo ripeto spesso. Noi veronesi siamo estrosi e simpatici”.

Qual è l’occasione professionale che le ha cambiato la vita? “La svolta, non è stata unica, ma l’insieme di tanti episodi. Le direi però la partecipazione al Festival Circo Montecarlo e successivamente ad un programma alla televisione tedesca. Ma non è detto che io sia arrivato; sono ancor uno in carriera.”.

Carriera appunto: ha dinnanzi un giovane che vuole intraprendere questo genere di carriera, cosa le  consiglierebbe? “Gli direi di essere onesto con sé stesso. Capire ciò che vuole veramente e poi di esibirsi. Le prove sono importanti per la tecnica, ma poi le gag bisogna sperimentarle davanti al pubblico. E qui che capisci molte cose di te e dei tuoi limiti. Non si fa il clown per fare soldi! Ma si fanno i soldi facendo il clown. Il difficile non è diventarlo, ma restarlo. Ecco perché ammiro sempre le lunghe carriere. Le faccio l’esempio di cantanti come Baglioni o i Pooh, altro che cantanti che vincono Sanremo e poi scompaiono nel nulla. Infine, gli ripeterei di prendere questo mestiere con sufficienza, ma pensare che non è affatto facile. Il clown deve curare lo spirito…”.

Cioè  offrire felicità? “Fare il clown è  uno stato d’animo. Lungi da me dal pensare di creare felicità. Posso creare uno stato di piacevole connivenza con le emozioni. Una sorta di giocoliere delle emozioni. Quando riesci a sentire che il pubblico sta bene con te, allora senti di compiere un rito collettivo. La risata è collegata al non essere soli. Esempio: è  possibile stare in una stanza buia e piangere, mentre è quasi impossibile stare soli e ridere. Quindi, penso che amiamo ridere perché questo ci fa sentire meno soli”.

Questa è filosofia… “Come  si dice:“La felicità è un modo di vedere”. Cerco la mia felicità col vivere bene, e ognuno di noi può fare la differenza attorno a sé, se solo la sa comunicare. E un clown comunica, eccome!”.

Anche se è triste come i clown di Fellini!? “Un clown è sempre tragicomico!”

Come vive la morte uno abituato alla risata? “Come la fine di uno spettacolo, senza applausi”.

Quando un clown finisce di fare l’artista e ridiventa uomo? “Alla fine di ogni spettacolo. Detesto le persone che si ostinano ad essere divertenti 24 ore al giorno. Bisogna tenersi le energie per i momenti migliori. “C’è un tempo per ogni cosa” come  sta scritto nella Bibbia. Uomo e clown sono la stessa cosa, visti solo da prospettive diverse. Il clown non interpreta: il clown è!  Io in scena interpreto comunque una parte di me. Gli attori invece interpretano svariati personaggi, ma mai loro stessi. Ecco perché dico che Chaplin o lo stesso Benigni sono fondamentalmente dei clown prima ancora che degli attori ”.

Ha citato la Bibbia, in essa c’è un passo che parla del  “sorriso di Dio”. Cosa le fa provare questo? “Dio è in ognuno di noi. E’ in noi! Ecco perché ogni volta che fai sorridere una persona fai sorridere Dio stesso”.

Il sorriso fa bene all’anima come al corpo., e qui penso ai clown delle corsie ospedaliere. Lei ha mai provato questa esperienza? “Lo faccio spesso, ma senza reclamizzarlo. E’ un’esperienza molto difficile ma necessaria che mi rendo conto di fare più per me che per i pazienti. In questi casi, hai le condizioni peggiori per compiere questo mio mestiere E’ un bagno di umiltà e ammiro molto le persone che lo fanno. Ma non vorrei che diventasse un rifugio per clown falliti. Chi ha voglia di farlo è perché lo sente, ci crede e si preparare per questa delicata missione”.

Qual è il codice “morale” di un  pagliaccio? “Buongusto e buonsenso in ogni suo gesto”.

Le offrono un naso rosso o 10.000 euro. Cosa sceglie? “Assolutamente il naso rosso,  perché con questo posso fare più soldi di quanti lei mi sta offrendo”.

Oggi però il mondo dei clown sembra svilito dalla tecnologia. Avranno un futuro? “Solo poco tempo fa riguardavo un’intervista a Grock, il clown più famoso di tutti i tempi,  in cui  nel 1959 un giornalista gli poneva  la medesima questione. Cinquanta anni dopo, il circo è ancora qua, e credo che ci resterà per molto ancora, anche se non senza difficoltà.”.

E il futuro circense italiano? “In Italia si sono compiuti sbagli enormi nel passato di cui si pagano ora le conseguenze. Parlo delle storiche famiglie circensi. Siamo sempre noi gli artefici del nostro successo o insuccesso. SE poi mi chiedesse come vedo l’Itali, gli direi che la situazione politica è stata cosa seria solo durante la creazione della Costituzione poi… Mi ha sempre fatto impressione una delle poche frasi intelligenti che disse Mussolini quando gli chiesero se fosse difficile governare gli italiani? Lui risposte: “Soprattutto è inutile!”.

Lei artisticamente è cresciuto sotto la tenda. Oggi è sempre più spesso dentro un teatro: qual è la differenza? Quando inizia a frequentare i teatri in molti erano scettici. A me piacciono le sfide per poter fare ricredere le persone che non hanno creduto  nei sogni ho. Il pubblico del circo è più dispersivo e gioioso. La parola stessa di “circo” significa circondato di spettatori. Nel teatro invece, tu hai la terza parete che restringe lo spazio”.

Quando penso al circo, il mio pensiero corre al Cirque du Soleil. Mai avuto la possibilità di lavorare con loro? “Me l’hanno offerto parecchie volte, ma pur ammirandone gli spettacoli per ora non ne sento il desiderio”.

Dove vive un clown come lei? “Dipende! Se sono in teatro, in un  hotel o appartamento. Se sono al circo in un carrozzone. Oppure se sono a Verona, a casa mia. Le giornate poi non sono mai  uguali: può capitare di avere due o tre spettacolo al giorno è capisce che non mi resta  molto altro tempo. Così sono tutto casa- circo- teatro”.

Mai pensato di appendere “il naso” al chiodo? “No! Mollerò solo quando mi accorgerò che il pubblico non si diverte più con me”.

Un clown è una creatura senza tempo. La spaventa il passare degli anni? “No, accetto bene l’età e ci rido sopra”.

Come si immagina a 80 anni? “Se Dio  mi darà la forza, spero di vivere sereno e semmai, creare uno studio-bottega per  clown, magari proprio nel mio  Veneto. Cosa questa che sogno da molto tempo, ma credo sia  difficile perché tutti mi dicono: “Non ghe ze i schei”. Diventerebbe così la prima scuola per clown d’Italia!”.

So che le piace il motto: “Il cuore ha ragioni che la ragione non capisce”. Quanto cuore e ragione  ha usato in queste sue risposte? “L’80% di cuore e il 20% di ragione“.

Le  ho chiesto di aprire questa intervista, ora le offro la possibilità di chiuderla, anche perché so che l’aspettano al circo? “Ho avuto la consapevolezza di avere detto cose che sentivo, e non cose che pensavo dovessi dire. Ciao, e mi saluti l’Italia…”

INTERVISTA A SUSANNA TAMARO

 

Di Antonio Gregolin -©riproduzione vietata  Copyright 2011

E’ tra le scrittrici italiane  più conosciute nel mondo. Vive però volutamente lontana dalla mondanità. Il suo “regno” è una cascina umbra con gli animali, in compagnia di “beata solitudine”. Qui scrive bestseller  e si esercita a cantare, ma soprattutto “va’ dov’è la bicicletta a portarla…”. Il mondo dentro e fuori di una scrittrice senza confini.

L’appuntamento potrebbe essere sotto la chioma del suo “Grande albero”, che è  l’omonimo titolo di una delle fiabe meglio riuscite di Susanna Tamaro, best-seller italiana al femminile, andata ben oltre i confini nazionali con milioni di copie vendute nel mondo, con “Và dove ti porta il cuore”. L’albero in questione esiste davvero e troneggia sulla collina in un paesino dell’Umbria, in quella quotidianità frutto di una rivoluzione personale avvenuta proprio con l’avvento del successo che l’ha inevitabilmente cambiata.

Se il successo l’ha proiettata tanto in alto, lei ha scelto invece di  farsi una “contadina che, di tanto in tanto, si dedica alla scrittura” ispirata in particolare dalla natura che la circonda. Una Tamaro a sorpresa, che annuncia in questa intervista “en plein air” i temi del suo futuro (anche letterario), dedicati all’orto, gli animali, il frutteto e … tanta bicicletta!

E’ quello l’albero di cui dice di essersi innamorata? Proprio quello! Un vecchio che tace e vede tutto dalla sua collina, e sempre da lì ha visto il mio arrivo in questa fattoria e chissà quanto altro ancora vedrà d lassù…

Le piacerebbe saperlo? Fa parte della mia “naturale” curiosità!

Visto che stiamo parlando di alberi e natura, partiamo da qua! Mi pare un buon inizio…

C’era da aspettarselo? Intende dirmi che sono prevedibile!?

Dico che la trovo disinvolta nelle sue passioni! Proprio così, e questo lo prendo come un complimento!

Col tempo è diventata una scrittrice di “natura”. I suoi ultimi libri sembrano “terapie naturali”. Cos’è che l’ha resa così sensibile verso la natura? Il bisogno di vivere con gli animali. Lo stare a contatto con la terra. Sentivo che mi mancava questo. L’ho cercato e desiderato e con questa scelta degli ultimi vent’anni della mia vita, l’ho finalmente ottenuto.

Non trova che tutto questo sia un pò retrò, legato a quel ’68 che lei ha vissuto? No! Credo invece che questa mia passione sia antecedente a quel periodo che io ho vissuto a Roma. E’ da quando sono nata che in me crescono queste sensibilità verso ciò che di naturale mi circonda.

Per questo si è ritagliata un paradiso personale come questo suo casale in Umbria, con gli animali, il silenzio e la beatitudine? Ho vissuto anch’io per trentadue anni in città. Ne conosco i ritmi, ma sapevo anche come trovarmi quegli spazi urbani a contatto con la natura. Avevo ad esempio, il  minuscolo balconcino della mia casa di Roma pieno di piante e andavo nei parchi. Si possono così ritrovare scampoli di natura anche stando al centro di Milano o  Roma. Basta cercali!

La trovo circondata anche di  asini, galline, conigli ecc. Recentemente sui giornali ha preso posizioni per cui è stata apostrofata come “animalista integralista” dopo aver  definito l’industria alimentare della carne come «il grande crimine di questi tempi». Non le pare un tantino esagerato? Assolutamente, no! Per molti anni sono stata vegetariana, poi per esigenze mediche e fisiche sono stata costretta a riprendere l’alimentazione onnivora. Non sono una integralista alimentare, piuttosto  credo che la qualità del nostro mangiare stia nella “misura” con cui  lo facciamo. Per nutrire una mucca c’è bisogno di moltissimo foraggio. Lo stesso cibo potrebbe  nutrire moltissime persone. Così, il mangiare carne con misura, oltre a essere un rispetto per la propria salute, è un rispetto verso gli  animali, aiuta ad equilibrare  le ingiustizie alimentari. I miei animali li curo io personalmente. La vita in campagna  richiede lo sporcarsi le mani di continuo. Le mucche che pascolano da me sono invece quelle del mio vicino E poi dall’anno prossimo comincerò anche a produrre miele!

Qual è  la differenza tra la natura degli uomini e quella degli animali? Quella che gli animali hanno un’innocenza che noi non abbiamo.

So che spesso le piace sedersi ai piè di un grande albero: un’icona classica per uno scrittore? Figuriamoci, le piante non seguono le mode. Amo gli alberi soprattutto perché sono la metafora degli uomini.

Gli alberi  la ispirano! Moltissimo, osservandoli ho capito molte cose. E poi mi sforzo di guardare le cose,  più che pensarle!

Se le dicessi  “Italia bel Paese”, cosa mi risponde? Penso istintivamente ad un paese massacrato, dove oggi le nostre meraviglie sono in mano ad un branco di sciacalli predatori che mi fanno orrore.

Tutti predicano bene, ma poi se si tratta di cambiare stile di vita sappiamo come va… E’ per questo ho profonda fiducia nei bambini, cioè in quelle generazioni che hanno già una nuova coscienza.

Ad un certo punto della sua carriera, lei ha dato l’impressione di ritirarsi dal mondo. Perché? Quando ho raggiunto il grande successo ho dovuto e voluto scegliere se cavalcare il momento mediatico, oppure, avere una vita “normale”. Ho scelto senza esitazione e pentimenti questa mia  normalità!

Cambiamo registro e parliamo di temi sociali. I suoi libri e i film sono finestre sul mondo: che idea si è fatta di questo nostro mondo? Un mondo complesso, proiettato in avanti, ma con un delirio tecnologico che potrebbe mostrarsi incontrollabile. Mentre l’uomo è ancora molto antico. Un mondo in cui le persone hanno il coraggio di guardare dentro loro stesse.

C’è più ragione o sentimento in ciò che scrive? Spero entrambi…(sorride)

Qual è la cosa della società globalizzata che detesta di più? La fretta e la trasbordante malignità che oggi aleggia in tutti i settori…

…intende  in Italia? Quando parlo del mio Paese provo un dolore profondo, perché vedo un Paese stanco e incerto. E’ un’Italia in preda ai devastatori sociali.

Come giudica chi la critica e chi invece la apprezza? Fatico a comprendere i critici letterari che mi giudicano senza aver mai letto uno dei miei libri. A chi mi ama – e sono tanti-, dico semplicemente ma non banalmente: grazie!

Se per cambiare le cose bisogna starci dentro, perché ha rifiutato l’invito al fare politica  nel 2008? Perché non avevo e non ho quella malizia necessaria per entrare nel cerchio della politica.

Si sente libera e in un paese libero? Ho sempre lottato per essere una persona libera in tutti i sensi e le persone libere sono spesso persone sole.E io sono sola!

Politicamente, la sinistra italiana sembra non amarla. La destra è fredda. Lei dove si colloca? Da nessuna parte, sono cristiana e questa è la mia unica collocazione.

Quando ha capito di essere arrivata sull’Olimpo  della letteratura? Quando tre anni sono stata prima in classifica con“Và dove ti porta il cuore”.

Una “solitudine” di fama mondiale… Il successo è stata la prova e la tentazione più grande della mia vita, cui però ho cercato di dare una risposta.

Quando allora si è scontrata con questa tentazione? Quando ho compreso che non volevo esserne vittima!

La più grande delusione? Professionale? E’ stata per il mio libro Anima mundi”. Una creatura in cui ho creduto molto, stroncato violentemente dalla critica, senza essere mai stata letto.

La gioia più vera? Andare in bicicletta.

Il prossimo libro cui sta pensando o lavorando? Mi ha fatto balenare un’idea: potrebbe essere un racconto sul mondo degli orti!

So che è anche pittrice: per cui scrittrice, regista, paroliere di canzoni, fumettista, contadina…tutto in pratica? Non sono una pittrice, mi piace solo disegnare nelle giornate di pioggia. E neppure fumettista né contadina. Sono  soltanto una persona che vive in campagna e si occupa con curiosità e amore del mondo che la circonda. Mi manca sapere cantare bene, e per questo sto studiando canto da soprano…

Non mi dica che così potremmo ascoltare una Tamaro a Saremo? A Sanremo proprio no, perché studio canto lirico. Piuttosto in  un concerto di Lieder o di musica sacra…

Dio, anima, vita e morte sono temi a lei cari: qual è il rapporto che ha con questi? Con Dio un rapporto di ricerca e di continua discussione. Con la morte, sono curiosa di sapere cosa c’è dopo ma è una curiosità che  rimando volentieri a un tempo molto lontano..

Nelle sue pagine parla spesso di rapporti famigliari. Come fa una donna tanto poliedrica a parlare di madri, padri e figli, senza avere una propria famiglia in senso tradizionale? E’ il talento di immedesimarsi nelle storie degli altri.

“Figli e padri” sono termini che ricorrono spesso nella sua scrittura. Da piccola ha subito l’abbandono del padre: come ha vissuto e superato tutto questo? Non si guarisce mai da una esperienza del genere. I figli aspettano naturalmente affetto e protezione dai genitori. Quando questo non avviene, si crea una grande sofferenza.

I malevoli la definiscono “sentimentalmente ambigua”. Le da fastidio questa definizione? Non capisco che cosa vuole dirmi. Non c’è nessuna ambiguità in alcun livello della mia vita. Sposarsi è una vocazione e io questa vocazione non l’ho mai avuta perché sono uno spirito molto solitario e portato alla vita contemplativa.

Mistica, dunque? Sì!

Mai pensato allora di diventare monaca? Mai. Però, se avessi avuto una qualche vocazione, sarei diventata benedettina. Amo San Benedetto e mi sento molto vicina  al suo mondo.

Lo stato d’animo attuale? Sospesa! Sento concluso un grande ciclo creativo, culminato con il mio ultimo libro. Sono una che fatica a scrivere. Possono passare anche anni tra un libro e l’altro.  Per questo devo elaborare molto prima di cimentarmi in una nuova storia. E poi una volta ultimata, cerco dentro di me di scoprire nuovi orizzonti verso cui dirigermi.

Che speranza coltiva? Mi piacerebbe cimentarmi in un’opera sulla agricoltura, la campagna, il mio orto e gli animali. Quelle cose insomma, che oggi vivo con maggiore intensità …

Quando e dove Susanna Tamaro raggiunge uno stato di grazia? Quando vado in bicicletta, oppure quando sto nel mio frutteto o coi miei animali.

Cosa invece le manca per raggiungere questo stato? Mi faccia pensare. Mmm… le direi niente di tutto ciò che ho. Questo è già uno stato di  grazia terrena. Non crede?

In  chi crede? Nella Trinità!

Cosa si concede come debolezza umana?Ben poco, sono severa con me stessa.

A cosa invece non rinuncia?Alla mia bicicletta!

Cosa la imbarazza?La stupidità.

E l’infastidisce?L’arroganza.

Il suo  miglior pregio?Avere tutto sommato un buon carattere.

Se la  “felicità è un modo di vedere”, lei come  la vede? Ogni qualvolta una persona riesce ad incontrare se stessa.

Ha mai pensato cosa resterà del dopo Susanna Tamaro?I miei libri  l’amore delle persone con cui ho vissuto.

E  scrivere un libro sul tema della morte? No, ma è molto presente nei miei libri.

La frase di s. Francesco “per  sora nostra morte corporale” cosa le fa venire in mente? Il ritorno alla Terra.

Ha un senso dire “Per sempre” come’ è il titolo del suo penultimo libro, se poi in terra tutto è inesorabilmente destinato a finire? Sì, l’amore è per sempre. Dunque, parliamo di eternità dell’amore.

Il libro che ama di più?La Bibbia…

E quello che si sente di consigliare? Idem

Il libro che non è riuscita a finire?“L’Ulisse” scritto da Joyce.

Saggezza per lei,significa? Vivere nella sapienza

Il personaggio che ama di più?S. Benedetto

Quello che la rappresenta meglio? Mary Poppins…

Leggera a dir poco!? Aerea direi.

Ha la possibilità di scrivere l’ultimo capitolo della sua vita. Come lo immagina?A casa mia, circondata dalle persone che mi vogliono bene e che pregano per me…(pausa). Magari guardando quel grande albero che domina silenzioso dalla collina, che ora ci sta ascoltando. Che bella morte sarebbe questa!