IL SARTO DEI PAPI

Di Antonio Gregolin -©riproduzione vietata  Copyright 2011

EVOILA’, L’ABITO DEL PAPA

Da più di un secolo i “sartari” Gammarelli di Roma, confezionano il primo vestito che il papa indossa subito dopo l’elezione. Noi siamo andati scoprirne i “segreti”.(Reportage 2005)

E’ una clientela speciale quella di Filippo Gammarelli, romano, sarto ecclesiastico assieme ai suoi due fratelli, eredi di una tradizione famigliare che gli viene dal 1793, sotto il pontificato di Pio VI. Il tempo scorre e i papi cambiano,  ma nel “vicolo dei sartari” nel cuore della vecchia Roma rinascimentale, da secoli tutto o quasi, sembra essere identico a sempre, con le botteghe dove i preti, vescovi, cardinali e papi, entrano per vestirsi.

“SANTA” MODA?

I colori delle vetrine sono quelli tradizionali, con le talari nere per i preti, viola per i vescovi, rosso per i cardinali e l’avorio per i papi. “E’ così da sempre, e credo che lo sarà per chissà quanto ancora…” rassicura il sarto Gammarelli. Se però i colori restano quelli di sempre, a cambiare coi gusti, sono i dettagli e i gusti verso i maestri sartoriali. Così ogni papa elegge il suo sarto di fiducia. Il beato Giovanni Paolo II aveva scelto i Gammarelli, e prima di lui Giovanni XXII, mentre Benedetto XVI da qualche anno ha deciso di rivolgersi ad una sua vecchia conoscenza, il maestro Raniero Mancinelli di Borgo Pio. “Tra di noi c’è rispetto –si affretta a  dire il sarto Filippo-, e non si discute mai sulla scelta di un pontefice!”, perché la ruota gira per tutti.

L’incontro con questa dinastia di sarti ecclesiastici, avviene in un momento di transizione dove il sacro si mescola al profano per le vie di Roma, come avviene da sempre, dopo la morte di un pontefice. Giovanni Paolo II è tornato alla “casa del Padre” (2 aprile 2005) e già circolano le prime indiscrezioni sul suo successore.

Se fuori dalla bottega le voci si rincorrono, dentro tra stoffe, sarti e rammendatrici, il tempo è accelerato perché si deve finire in tempo il primo dei tre vestiti bianchi, per ora riempito solo da un anonimo manichino, ma che presto diventerà la prima veste del nuovo papa. “Mentre lavoro –spiega il decano dei Gammarelli-, ogni tanto giro lo sguardo verso quelle foto dei pontefici che abbiamo vestito che campeggiano sopra il nostro bancone, e confesso di sentirmi un tantino osservato…”.


LO “ZUCCHETTO” PER GIOVANNI PAOLO II

Nessun indizio pubblicitario precisa però la specializzazione di questa bottega: “Una discrezione professionale che tuteliamo rigorosamente, conforme alla volontà della Santa Sede che non ama pubblicità!”. A  ribadirlo è Filippo Gammarelli, che in questi giorni (4 aprile 2005)  ha sgombrato l’intera sua vetrina, lasciando solo uno zucchetto bianco su sfondo rosso porpora, come segno di lutto per la  scomparsa di Giovanni Paolo II.  “Si tratta dell’ultimo zucchetto preparato proprio per lui, destinato però a restare come ricordo nella nostra sartoria”.

Dentro la bottega dei Gammarelli il gusto dell’antico dei vecchi scaffali, si integra con la distinta signorilità dei suoi commessi che sa d’altri tempi. Sorride il più giovane dei tre fratelli Gammarelli, quando curiosi o semplici turisti gli chiedono più volte al giorno: “ Siete  voi i sarti del papa?”. “E’ una tradizione, che continuiamo ad onorare…” risponde con aplomb il sarto romano. Ad attestarlo, c’è però solo lo stemma pontificio che conservano nel biglietto da visita. Tutto il resto è pura tradizione sartoriale, custodita con geloso silenzio.

“UN VESTITO COME DIO COMANDA”

Tra i primi “santari” come a Roma si definiscono i sarti ecclesiastici-, ci fu proprio un loro antenato, Antonio Gammarelli, che nel lontano 1798 avviò l’attività sotto il papato di  Pio XI. Di generazione in generazione, l’arte è giunta fino agli attuali eredi, custodi ancora di alcuni piccoli “segreti papali”. E’ Filippo a rivelare come in queste ore (era il 7 aprile 2005) il lavoro non concede tregua, per ultimare gli abiti che serviranno per la prossima elezione papale: “Sono tre abiti bianchi, ognuno con una taglia differente, per assicurare al neoeletto pontefice la possibilità di mostrarsi al mondo con i paramenti solenni. Non abbiamo però indicazioni sulle taglie, e per questo cerchiamo di essere approssimativi, non conoscendo chi poi li indosserà”.

“C’è una sottana (vestito) di lana color avorio; un abito talare bianco con manicotti o senza e 33 bottoni che evocano simbolicamente gli anni di Cristo; una sottana di seta “moire” da chiesa; uno zucchetto; una fascia di seta; un paio di scarpe di pelle rossa e la mozzetta (mantellina bianca)”. “Un modello che è rimasto identico a quello voluto da Pio IX, più di centocinquanta anni fa, –spiega Filippo- e da allora tutto quello che noi confezioniamo per i pontefici, risponde a questi canoni, seppur con qualche licenza imposta dai vari gusti dei papi”.

QUESTIONE DI GUSTI… PAPALI

A papa Luciani ad esempio,  subito dopo la sua elezione dovemmo sostituire l’abito bianco, perché era stato rigato dalle lacrime della sua commozione. Giovanni Paolo II invece,  chiedeva abiti leggeri e senza manicotti, perché era un tipo energico, caloroso e “sportivo”. La veste dev’essere comunque per tutti comoda e perfetta; non deve quindi fare pieghe, consentendo di muoversi liberamente. Ciò che spesso abbiamo sono le misure di quando queste figure sono cardinali. Una volta diventati papa,  di tanto in tanto ci si reca in Vaticano, per incontri privati dove aggiorniamo le nostre misure sartoriali…”. Guai però ad accennare ai costi: “Sarebbe irriverente –spiega il sarto- rivelare questo dettaglio. Il nostro è un lavoro artigianale molto specializzato, ma vi posso assicurare che i prezzi non sono affatto eccessivi come invece si è portati a credere…”. Meno di mille euro per abito, si vocifera fuori.

LA SARTA DI SUA SANTITA’

Intanto, nella bottega i suoni restano quelli della più classica delle sartorie, con il movimento delle forbici sui tavoli, lo strusciare delle  stoffe, le cuciture delle macchine e il vapore dei ferri da stiro vecchio stampo. La scala che porta al secondo piano dove si trova il laboratorio, è la stessa di cento anni fa. In un angolo coperto dal naylon, s’intravvede l’abito bianco quasi ultimato, mentre sul tavolo della decana delle tre sarte ancora in servizio, la signora Teresa Palombini, sta rifinendo le  maniche. E’ lei la vera “sarta del papa”, visto che  per 27 anni ha confezionato tutti gli abiti di Giovanni Paolo II. Quando parla di lui,  la commozione gli si legge in faccia, e per questo stenta a distoglie lo sguardo dal banco di lavoro. Nel tavolo a fianco, troviamo la figlia Monica che taglia il tessuto su modello per ultimare il terzo abito ordinato.

“NOI PREPARIAMO IL VESTITO. DIO FA IL PAPA”

Il Vaticano non può attendere – precisa Filippo Gammarelli-, gli abiti devono essere consegnati prima che il Conclave elegga il nuovo papa ( che sarà Benedetto XVII il 19 aprile 2005). Ci piace pensare che noi mettiamo la stoffa e prepariamo il vestito -conclude il sarto-, Dio invece fa il  papa! ”.

 

 

 

NEW YORK DECENNALE 11.09.2001-2011

di Antonio Gregolin -©riproduzione vietata testo e foto Copyright 2011

SPECIALE DECENNALE 11 SETTEMBRE 2001

DIECI ANNI… MA SEMBRA IERI!

LA PRIMA VOLTA (1995) DALLE TORRI GEMELLE VIDI UN MERAVIGLIOSO TRAMONTO SULLA BAIA DELL’HUDSON. LA SECONDA VOLTA(2001) VIDI UN CRATERE CON COLONNE DI FUMO

11.09.01. Sei numeri che formano una data e un concentrato di  storia sconfinata. Quando iniziai a scrivere questo testo, in me c’era un frullato di pensieri ed emozioni, che non mi facevano staccare  le mani dalla tastiera. Ritornavo a quei giorni passati a New York all’indomani degli attacchi terroristici per raccogliere e raccontare da cronista  storie e immagini (buona parte pubblicati nella storia UNDICI SETTEMBRE 2001 qui a fianco). Scorrevo nel contempo con altrettanta frenesia i ricordi e tanti discorsi ascoltati: dal  cardinale, al sindaco, ai medici, soccorritori,  vecchi e giovani,  tutti testimoni  e sopravvissuti, di quel giorno che “cambiò la nostra storia“. Cose in qualche modo già espresse durante questo decennio. Ecco perché verso la fine del mio racconto, mi chiesi che senso avesse seguitare in questa mia testimonianza, come se stessi mettendo polvere alla polvere.  D’istinto e con un semplice click, il mio undici settembre 2001 che cercavo di raccontare scomparve intenzionalmente dallo schermo: deleted! Un gesto convinto, spinto dalla eloquenza di quelle mie immagini  che formano la mia memoria personale (tutte foto scattate per strada) in quei giorni convulsi, che reputo molto più eloquenti di tante parole. Non ho voluto cancellato il finale che avevo scritto, che trovate a piè pagina, in cui scrivo che la coscienza e la memoria non si cancellano con un semplice click… Con una riflessione che vorrebbe attualizzare un sacrificio con i sacrifici che ogni giorno si compiono nel mondo, per svariate cause, sulle spalle dei soliti innocenti di turno.

IL MIO ALBUM DELLA MEMORIA

(foto scattate dal 15 al 30 settembre 2001)

 

Frammento di 40 kg di acciaio della Torre Uno, consegnatomi il 2 giugno 2002 dal major Giuliani per la mostra Remember  in ricordo di tutte le vittime innocenti nel mondo. Esposto nel decennale l’11 settembre 2011 presso la Loggia del Capitanio del Municipio di Vicenza

Scultura -presepio che ho realizzato nel 2001 la cui base è un frammento di cemento delle Twin Tower.

(2001) L’ULTIMA VOLTA CHE VIDI IL WORLD TRADE CENTER ERA UN AMMASSO DI SASSI E CEMENTO…

FRANCESCA DAL GRAFF

(Il finale salvato) Su tutti mi rimangono in mente le lacrime e scevre parole di una giovane ragazza italo-americana, Francesca De Graff, che allora aveva 28 anni. Con lei avevamo raggiunto con imperizia, il tetto di un building che dava su Ground Zero, blindato più  di una polveriera militare. Da qui scorgemmo l’enorme .cantiere-braciere fumante, dove minuscoli uomini-formica si facevano spazio in una montagna di materiale scuro. Lei si avvicinò e appoggiò la testa sulla mia spalla. Cominciarono a scendergli delle lacrime e con un bisbiglio mi disse: “Sto respirando il mio amico Scott, che si era sposato quattro settimane fa…”. Quelle poche, scarne parole, mi rimasero scolpite al punto tale che oggi, pensando a quella scena, non posso non tornare a quanto sussurravano gli uomini di Auschwitz, Mauthausen, Bergen-Belsen, Dakau: “Noi entriamo dal cancello e usciamo dal camino”. Sessanta anni dopo,  troviamo,incredibilmente, ancora gente che piange per altri uomini. Anch’essi andati in fumo…

Non scordiamoci che ogni giorno cadono una, due, tre… torri piene di uomini innocenti che muoiono a causa di guerre e carestie. Vittime della medesima follia umana, che si nutre di quel silenzio che è peggio ancora della morte stessa! …e questo non si può cancellare dalla nostra coscienza, con un semplice “click”, come se nulla fosse!

 


 

LA MISTERIOSA FORESTA DI CASTAGNI

Di Antonio Gregolin -©riproduzione vietata testo e foto Copyright 2011

IL CUSTODE “FILOSOFO” DEGLI ANTICHI CASTAGNI

Alla scoperta di un angolo d’Italia selvaggia e semi-sconosciuta,  dove vi è una  foresta di castagni secolari dimenticati dalla legge,  custoditi da un singolare personaggio chiamato “Carrello” che qui ha le sue radici. Un’idea alternativa (ed educativa) alla solita vacanza.

Può sembrare scontato cogliere le caratteristiche di un personaggio, grazie alle foto e domande che si possono fare con un’intervista. Diverso è dover raccontare una foresta, cercando di ascoltare i suoi grandi alberi, che da secoli stanno nel silenzio delle loro valli. Creature di quattro, cinque o sei secoli di vita, che si ergono indisturbati in un anfratto selvaggio dell’Appennino tra Abruzzo e Lazio, poco lontano dal borgo  di Corvaro, in provincia di Rieti.

Uno scampolo di  terra aspra, dove la vita ha ancora il profumo autentico della natura, e gli unici uomini, cacciatori o raccoglitori, sono solo di passaggio. Protagonisti sono castagni millenari che troneggiano in quella che appare come un’Itaca selvaggia, dove l’antico paesaggio resiste alla modernità. Ma non siamo in un parco o riserva, qui l’unica tutela è messa in pratica dalla natura stessa, coi suoi ritmi. Un bosco che non  viene segnalato neppure dalle cartine geografiche o turistiche. Una dimenticanza umana che, forse, ha permesso il mantenimento di questo piccolo miracolo naturale.

I colossi arborei sembrano nascondersi alla vista, mascherati da quei massicci che svettano sull’azzurro del cielo estivo. Bisogna cercarli, perdendosi per poi ritrovarsi come spesso accade nella fatalità della bellezza. A meno che, non  si abbia la fortuna d’incontrare una figura dai tratti gentili coi capelli lunghi e bianchi. E’ Ludovico Leonardi, per tutti “Carrello”, un pimpante sessantenne, a metà tra il filosofo, il cacciatore e l’artigiano.

“Uno dell’antica tribù degli Equi” come si definisce lui con ironia, che  frequenta questi boschi fin da bambino: quando andava a falciare a mano i prati con suo nonno. Questi boschi sono cresciuti dentro di lui, tanto che quando è chiamato a descriverli, ad un certo punto si ferma per dire: “Ok! Saltate sulla mia jeep, così capirete di cosa sto parlando…”.

“Carrello” a modo suo è un elemento di questa terra, con le sue amabili contraddizioni: ama la natura, ma è un cacciatore. Assapora il silenzio, ma conosce tutto sui motori. Vorrebbe poi che dei suoi monti non si toccasse nulla, ma  si esalta coi piatti a base di porcino e cinghiale. Eppure, si fa presto ad intuire che è lui il “custode” di questo patrimonio verde. Anche il suo paese, Corvaro, ha una doppia anima: con la parte tutt’ora spopolata dal 1915, a seguito del devastante terremoto che colpì e distrusse  la vicina Avezzano. Da allora il borgo vecchio è uno scheletro, mentre la nuova vita si è spostata  nei nuovi fabbricati costruiti più in basso.

La città dell’Aquila è al di là del Monte Duchessa che domina su Corvaro: “Quel che nel 2009 ci ha protetti dalla distruzione dell’ultimo terremoto”, come ricordano gli abitanti del borgo. Da quella data ad oggi in questa terra di terremoti, sono state registrate ben 869 scosse sismiche, ma nessuno qui pare preoccuparsene troppo. Alle spalle i monti del Cicolano e quelli del Morrone. Lasciato il paese, con la jeep ci inerpichiamo lungo una stradina fino a scollinare  su una valle, dove neppure Silone avrebbe collocato la sua Fontamara. Il verde dei boschi è intenso e sa di profumo incontaminato. Si è su un altro pianeta, pensando a quell’Italia sempre meno selvaggia, ma più cementificata.

Deviamo per una sterrata battuta solo dalle greggi e dai muli che scendono ancor oggi dai boschi carichi di legna sulla groppa, come cent’anni fa…”. Il nostro è un continuo entrare e uscire dal bosco, in un dedalo di cui Carrello conosce ogni sbocco. Saliamo ancora, trattenendo il respiro per lo sforzo del fuoristrada: “Eccoli, i miei castagni…” esclamò l’uomo puntando il dito verso le possenti sagome che si fanno largo tra le foglie.  Pilastri  verdi che sembrano sorreggere il cielo.

Di alberi secolari ne ho visti  molti, ma mai tanti e tutti così riuniti. Carrello aveva ragione: bisogna vederli per capire! Quassù il turismo non è mai arrivato e forse mai arriverà. Così sono pochi coloro che possono bearsi di tanta meraviglia.  Chi  si spinge nel vecchio bosco, è solo per raccogliere qualche porcino.  I pastori vi passano per la transumanza, mentre Carrello viene per la caccia, ma soprattutto per vedere come stanno i suoi castagni. Qui la fantasia spazia dalla foresta di Sherwood, alla dantesca Selva Oscura, fino alle antiche foreste californiane di sequoie. La suggestione si stempra coi ricordi di chi parla di questi castagni come parte vitale della loro vita: “Questi giganti -ricorda Carrello- sono sempre stati qui. Me lo diceva  mio nonno che a sua volta glielo aveva ripetuto suo bisnonno. Intere generazioni si sono sfamate con le loro castagne. Come nei tempi della fame, quando venivamo quassù per dissotterrare le scorte di castagne che avevamo raccolto la stagione precedente, interrandole in buche ricoperte di foglie”.

Il senso di stupore è quasi infantile nel sentire il legame di quest’uomo con questi castagni. Basta così trovarsi tra le nodose radici per sperimentare antiche emozioni. Gli alberi più vecchi mostrano squarci lungo il tronco dal quale entrandovi dentro, puoi gettare lo sguardo fino all’apice della chioma. Alcuni sono anneriti dal fumo, antico anche questo, dei fuochi accesi al loro interno dai pastori che un tempo cercavano riparo. Come in un museo ci si sposta da una scultura all’altra, ma in uno spazio aperto. Ognuno con la sua forma, forza e slancio: “I più vecchi sfiorano i cinque, sei secoli di storia”. Stanno nel fitto del bosco, lungo il sentiero e fin sulle scarpate.

Il castagno è così: è coraggioso! E’ un temerario. Si piega, ma non si spezza, e quando cade è solo perché ha davvero concluso il suo ciclo vitale. Ma poi ricacciare polloni basali e si rigenera. “Vedete quel sfregio lungo il tronco? E’ la ferita lasciata da un fulmine di qualche giorno fa, che ha reciso un grosso ramo prima di scaricarsi a terra…. I fulmini non perdonano e queste piante lo sanno bene: “Quando arriva il temporale, quassù, si scatena una guerra primordiale di forze tra cielo e terra da cui è bene starsene lontani”, ammonisce Carrello.

Il nostro viaggio ora continua in discesa, verso valle, con gli occhi ormai allenati a questa natura ingigantita. Ci fermiamo quando troviamo qualche tronco riverso a terra, il più delle volte abbattuto per fare legna da ardere da quei proprietari che si sentono più padroni che custodi. “La loro è stupidità!” sbotta Carrello mostrandomi ciò che resta di un grande castagno ridotto in pezzi.

“Ignorare la storia incarnata da questi alberi, significa soprattutto scordarsi ciò che la natura ci ha lasciato” ripete Carrello. “Questi castagni, appartengono a tutti, e benché abbiano dei padroni, questi non dovrebbero scordarsi che il loro tempo è ben poca cosa se confrontato con quello che nutre creature verdi”.

L’ ALBUM FOTOGRAFICO