DANILO MAINARDI: ANIMALE A CHI?

Di Antonio Gregolin                        -©riproduzione vietata del testo-

DANILO MAINARDI: ANIMALE A CHI?

Danilo Mainardi, zoologo e volto noto della televisione, racconta la sua esperienza “a tu per tu con gli animali”, con qualche sorpresa anche  sul  nostro comportamento “bestiale” .

Dare del tu agli animali, è un preciso impegno  morale!” A sostenerlo è Danilo Mainardi “l’amico degli animali” più conosciuto d’Italia, ma soprattutto lo zoologo ed etologo che fa scuola a molti divulgatori scientifici. Docente emerito alla Cà Foscari di Venezia,  oggi è un pensionato d’oro grazie alle  sue tante passioni: scrive libri (è autore di oltre 200 pubblicazioni), articoli sul Corriere della Sera, il Sole 24ore, è ospite fisso di Piero Angela a Quark e altre trasmissioni. Ha ereditato dalla sua famiglia la passione per il disegno, diventando così un eccellente disegnatore. Elementi che a 78 anni compiuti lo rendono ancora effervescente nella volontà di spiegarci le iterazione, spesso complesse e controverse, tra noi  e gli animali. Oggi con l’aria del vecchio saggio ha un canale preferenziale di conoscenza e rispetto verso la biodiversità che lo circonda. Si fa vanto solo se gli dite che “conserva la semplicità di un contadino, ma con la mente di uno scienziato!”. Bel tipo davvero questo professore che ama ripetere : “L’ecologia ci insegna che la nostra unica patria resta questo nostro strano ma affascinante  mondo”.

Professor Mainardi, lei è parmigiano di nascita, ma veneziano di adozione…

Veramente sono nato a Milano e a Parma sono arrivato dopo il liceo, nel ’52, però mi sono fermato in quella bella città per quasi quarant’anni. Avevo scelto Parma perché avrei trovato, come docente il prestigioso genetista Luca Cavalli Sforza, con cui poi pubblicai i miei primi lavori scientifici”.

Quando ha capito che da grande avrebbe fatto lo zoologo?

L’interesse per gli animali l’ho avuto fin da piccolo, trasmessomi da mia mamma, e portandomelo appresso per tutta la vita. Penso si possa chiamare veramente una vocazione”.

Ma cosa fa uno zoologo? L’idea corrente è quella del compianto  Konrad Lorenz che seguiva le sue oche. E’ davvero così?

E’ così, ma non solo. L’etologia è solo una costola della zoologia, quella che più si presta a essere raccontata perché parla di comportamenti. Per gli specialisti però, esistono tante altre parti : come la sistematica ad esempio.

Quando e come è diventato il comunicatore scientifico che conosciamo?

Ho imparato un poì per volta, ma credo che la ragione principale del mio successo, se posso chiamarlo così,  risieda in una parola: empatia. Il piacere di rendere gli altri partecipi di informazioni che a me sono sempre sembrate bellissime, oltre che interessanti”.

Le viene riconosciuta la dote della semplicità nella comunicazione. Si ha l’impressione di sentire parlare un saggio agricoltore, con la mente dello scienziato!

Mi piace l’idea del contadino. In realtà, pur essendo nato a Milano i miei genitori venivano dalla campagna. Chissà, forse i figli apprendono dai genitori e nel mio caso credo proprio sia stato così, e ne vado fiero!

Lei usa bene la parola, ma  ha anche la peculiarità di fare dei disegni di animali a complemento dei suoi libri. Perché?

Altra mia vocazione, ed anche questa ereditata culturalmente, ma da mio padre, che è stato un bravo pittore, con cui mi divertivo fin da piccolino a disegnare insieme. Poi, da professore, ho notato che ai ragazzi piaceva molto il fatto che facendo lezione accompagnassi le parole coi disegni che facevo alla lavagna. In fondo, disegnare è la prima forma di comunicazione umana… Un istinto pure questo!”.

Certo però che lei va ben oltre gli schizzi. La sua è grafica pura…

“A volte, guardando qualche mio disegno che mi è venuto particolarmente bene, ho questa sensazione, ma è difficile per uno come me, intendo un uomo di scienza, comprendere cosa sia esattamente un’opera d’arte. Mi manca ancora una chiara definizione”.

Dall’alto della sua esperienza come giudica il rapporto tra uomini e animali ?

“Vede, questa domanda mi fa venire in mente una risposta maligna: anche l’uomo è un animale! Un animale straordinariamente diverso da tutti gli altri, perché è quello in cui la cultura ha assunto una parte assolutamente dominante nel suo modo di stare al mondo. Aggiungerei che l’Homo Sapiens è una specie, gli altri animali sono milioni di specie: dai più minuscoli invertebrati allo scimpanzé”.

Spesso, troppo spesso, il nostro rapporto è in conflitto con gli animali…

“Da poco meno di diecimila anni, il rapporto tra  noi e le altre specie non è equilibrato. Da quando infatti l’uomo ha iniziato ad “addomesticare” piante e animali, è partito il processo dominante dell’uomo sulla natura. Sono cominciati così i problemi per l’ambiente. E mai come oggi lo si può  vedere”.

Per questo le chiedo: si vedono cagnolini coi cappottini, boutique per animali, uomini che portano a passeggio i cani di razza al guinzaglio, orgogliosi di mostrarsi, mafiosi che tengono nel loro giardino tigri o pantere. Crede che questo denoti il nostro apice evolutivo?

“E’ vero, tanti fenomeni diversi e tutti negativi, almeno secondo  la mia concezione di vita personale e sociale. Di apici evolutivi ce ne sono tanti, perché l’evoluzione ha più rami. L’idea che noi rappresentiamo il vero e unico apice dipende dal fatto che stabiliamo noi quali sono le caratteristiche che ci regalano questa supremazia. E questa mi pare pura presunzione!

A proposito di evoluzione umana: che idea ha sulle  nostre origini?

L’ho già accennato: la nostra specie s’è specializzata per caratteristiche pressoché uniche, legate alla sua capacità di produrre cultura, tra cui un linguaggio plastico e mutevole, una autocoscienza molto sviluppata, un senso etico ed estetico, la consapevolezza della propria morte con ciò che ne consegue.Tutte cose straordinarie, però, dal punto di vista della sopravvivenza produciamo troppi comportamenti maladattativi, e ciò è pericoloso per noi come per tutti gli esseri viventi di questo pianeta”.

Non crede invece che molto sia indotto dalla moda? Da sempre avere un animale raro è uno status symbol?

“Anche questo è vero! I generali hanno sempre cavalcato su un cavallo bianco. Ma gli esempi potrebbero essere tanti altri…”.

Quasi tutti dicono di amare gli animali, eppure in Italia come nel mondo, si uccidono milioni di animali ogni anno per mangiare o altro. Anche la buona tavola però può concorrere all’estinzione di molte specie?

“I problemi sono altri. Innanzitutto, siamo troppi. Ecologicamente siamo un’anomalia determinante per la vita di questo pianeta. Poi non è tanto il mangiare animali, quanto il non rispettarli, il farli vivere malamente, il non comprendere le loro necessità a disonorare i nostri comportamenti verso gli altri esseri viventi che condividono la nostra stessa terra”.


Se  fosse un moderno Noè e avesse un’arca non sufficientemente grande per accogliere tutte le specie animali, quali lascerebbe a terra e perché?

“Provi a immaginare? Sarebbe la soluzione di tutti i problemi del pianeta…”.

Come se lo immagina il futuro degli animali?

“Molte specie si sono estinte, altre sicuramente si estingueranno. Si dice che noi siamo all’interno della sesta estinzione, la prima dopo quella dei dinosauri. Estinzione,  in quanto sono molto più le specie che spariscono di quelle nuove che compaiono. Ma alla lunga, credo che  gli animali se la caveranno…”.

E quello degli esseri umani?

“Questo è il vero problema: in questo caso  sono decisamente meno ottimista”.

Aggiungiamoci poi i cambiamenti climatici…

“Esistono molti dati riguardanti gli animali che lo confermano…”.

Mi faccia qualche esempio?

“Moltissime specie di uccelli hanno spostato il loro areale di nidificazione di parecchi chilometri verso nord, nessuna verso sud, ed hanno anche anticipato le date di inizio. Nell’Adriatico sono arrivati moltissimi pesci tropicali, fin nel golfo di Trieste”.

Pensando a tutto ciò, quali sono i suoi timori e speranze?

“Quanto alle paure preferisco non parlarne, tanto più che sono intuibili. Quanto alle speranze, che pure teoricamente esistono, risiedono nel fatto che noi basiamo il nostro stare al mondo sulla cultura, e cambiare un comportamento culturale maladattativo potrebbe essere abbastanza facile, volendo. Volendo…”.

Professore, lei cosa ha imparato dal rapporto  con gli animali ?

“Credo di aver capito cosa si perde pensando che il mondo sia fatto solo da esseri umani. E poi ho imparato ad avere rispetto per ogni forma di vita…”.

Questa però è etica?

“Certamente, un’etica totale, svincolata da ogni forma di ideologica strumentalizzazione”.

Lei è però anche presidente onorario dell’Unione Atei e Agnostici. Razionale fino in fondo? Questo stride un po’ con le sue precedenti affermazioni…

Cerco di essere il più razionale possibile. Non riesco a credere scavalcando la ragione, ma rispetto chi sa farlo. Ci mancherebbe…

Restiamo in tema anima-animale, la cui radice comune della parola porta a pensare gli animali come creature dotate anche di spirito. Cosa ne pensa?

Potrei rispondere sì e no, dipende dalla definizione che si vuol dare a spirito. Certi animali sono provvisti di una mente, una consapevolezza di sé, di altruismo, di capacità di pensiero e ragionamento, di sentimenti…

Faccia un  esempio?

Posso  dirle molti mammiferi, uccelli e poi anche incredibilmente, certi invertebrati come l’ape, il polpo.

Non crede che in molti casi il nostro “istinto bestiale” –basti vedere la cronaca quotidiana-, corrisponda al reale comportamento degli animali o siamo peggio noi?

L’istinto non è mai cattivo. Quando noi siamo peggio è solo per motivi culturali o per patologie.

Lei parla con sentimento degli animali. Ha mai pianto per la morte di un animale ?

Non sono uno che piange facilmente, ma ho sofferto molto per la scomparsa dei miei cani.

Qual è l’animale che ama di più?

Forse il cane, ma anche tanti altri, il cavallo, i colombi, potrei fare un lungo elenco.

Quello che  ama meno?

Non saprei, mi interessano tutti e non ne odio nessuno.

Tra i suoi preferiti ci sono i gatti, e ne decanta spesso le virtù. Perché?

I gatti hanno una mente autonoma, cosa che cani non hanno. Mi interessa il confronto tra queste due specie così diverse e capirne i motivi.

Ci si aspetterebbe che uno zoologo viva circondato di animali. E’così anche per lei?

Attualmente in casa mia non c’è neanche un animale domestico, ma ho voglia di comprarmi una coppia di cocorite.

Ormai è un emerito professore in pensione dopo una onorata carriera. Cosa non ha ancora fatto o vorrebbe fare?

Alle Galapagos ci sono già stato, e per parecchio tempo, ma ne ho un po’ di nostalgia. Mi piacerebbe ritornarci. Forse da vecchi è più bello ritornare che scoprire cose nuove. Comunque non so. Sono troppo impegnato in quanto sto facendo.

Come vorrebbe essere ricordato?

Guardi, io ho un concetto del tempo da studioso dell’evoluzione. Ragiono cioè in termini di centinaia di migliaia di anni, o addirittura di milioni o di miliardi (la vita è cominciata più di tre miliardi di anni fa e probabilmente finirà sul pianeta tra circa cinque, quando il sole si spegnerà – me l’ha insegnato la mia amica Margherita Hack). Sono pertanto certo che dopo pochissimo tempo  non verrò ricordato, e nemmeno Giuseppe Garibaldi, tanto per dire. Bisogna farsene una ragione. Questa storia dell’essere ricordati, dura troppo poco, non vale la pena pensarci.

Le va se parliamo della nostra situazione italiana. Non le pare un grande zoo?

Eccome…

Dove il più  grande mangia sempre il più piccolo…

Non è sempre così , pensi ai parassiti. In questo si può leggere ciò che  mi auspico per il nostro futuro sociale!

Mi   risponde con  una metafora  ?

Direi di sì, e prendo a prestito una definizione in un film di uno dei miei registi preferiti, Woody Allen, che mette in bocca ad un attore la risposta su cosa sia questo nostro mondo e la sua natura: “E’ un grande ristorante!”.

Vogliamo congedarci con una nota positiva. Dopo tanti anni di studio e insegnamento,  qual è la storia che la commuove pensando al comportamento degli animali?

Gliela dico subito: a Venezia, zona  Cannaregio, c’è un’area  definita “dei vedei”, cioè dei vitelli. C’è la calle, il sotoportego, la corte, insomma, tutta una zona dove venivano ammassati gli animali  che arrivavano con dei barconi dalla terra ferma, fino al vecchio macello. Ogni volta che vedo i ragazzini che festanti vengono qui in gita scolastica, penso che loro hanno un biglietto di andata e ritorno. Ripenso poi a quei vitellini, e mi viene in mente che per loro arrivare qui, significava essere arrivati  al capolinea.

 

 

 

 

 

 

IL FOTOGRAFO DEL PAPA

di Antonio Gregolin -©riproduzione vietata del testo-

I TRE SCATTI DI VITA DI UN PAPA-BEATO.

Arturo Mari,  il fotografo che per 25 anni è stato “l’ombra”  di Giovanni Paolo II

Dal primo maggio Giovanni Paolo II è diventato “venerabile”, dopo un processo canonico tra i più rapidi della storia della Chiesa. Da quel “Santo Subito” partito da Piazza S.Pietro il giorno dei suoi solenni funerali l’8 aprile 2005, fino agli onori degli altari di oggi, la figura del papa polacco sembra non conosce frontiere. A riconoscerli un’aurea di “santità” sono anche i laici, ancor oggi catturati dalla “medianicità” di questo Pontefice che fa parte di uno dei punti fissi di un’intera generazione.

Fotograficamente parlando è stato l’ombra, ma soprattutto la “luce” di Giovanni Paolo II. Arturo Mari, classe 1940 è conosciuto come “il fotografo ufficiale del papa”, figura-ponte tra il sacro papale e il profano della stampa mondiale. Il mestiere del fotografo l’ha fatto per ben cinquantatre anni al servizio di sei papi, da Pio XII a Benedetto XVI. Ma con nessuno prima è stato così a contatto come  per Giovanni Paolo II e i suoi  ventisette anni di pontificato.  Quasi in ogni istante, nella vita pubblica e privata del pontefice, come mai si era visto fare prima, Arturo Mari scatto su scatto tanto ne ha costruito la più credibile delle biografie.

Così vicino al papa da conoscerne i suoi sentimenti più profondi. Fu il primo a fotografare Wojtyla dopo la sua l’elezione il 16 ottobre 1978. Fu poi l’unico a immortalare il 2 aprile 2005 l’istante in cui il segretario personale posava il lino funebre sul volto del papa defunto. Se oggi parla della santità di questo papa è perché le sue immagini hanno già detto tutto o quasi. Ora però che ha posato gli arnesi del mestiere (dopo gli ultimi tre anni con Benedetto XVII), si gode la pensione in un mare di ricordi . Alcune di queste sue emozioni sono qui raccontate, aggiungendo quei dettagli che rendono ancora più esile la distanza tra il papa umano e quello oggi venerato.

Sono semplicemente un uomo fortunato –racconta Arturo Mari-, per avere avuto il privilegio di conoscere così da vicino e profondamente, un uomo, un  papa e un santo, il cui carisma l’ho vissuto sulla mia pelle. Viene facile intuibile che stando fianco a fianco ad  una persona dalla mattina alle sera, e per ventisette anni, sebbene si tratti di un papa, si arrivi ad avere una relazione quasi empatica. Ecco perché ci capitava spesso di guardarci negli occhi sapendo ciò che entrambi pensavamo.

Non so se chiamarla amicizia questa, ma di certo è il frutto di un legame privilegiato che a me ha cambiato radicalmente l’esistenza. Per tutti questi anni, alle sei di ogni mattina, quando Giovanni Paolo II concelebrava la messa nella sua cappella privata, io ero là con la mia macchina fotografica. L’ho poi seguito in tutte le funzioni, incontri e viaggi ufficiali: così tanti, che fatico a ricordarmeli tutti. Eppure, ogni volta che inquadravo la figura del papa, c’era sempre qualcosa di diverso in lui. Un soggetto perfetto sul piano fotografico, perché spontaneo! Nessun gesto, anche i più semplici, mi è mai sembrato uguale all’altro”. Ed è proprio in quella sua cappella privata che ho vissuto il momento più intimo e importante di tutti gli anni passatigli affianco. Era il venerdì santo del 2005, uno dei momenti più difficile della vita del papa,che ormai in condizioni critiche.

Lui era seduto davanti al tabernacolo con una telecamera che lo riprendeva di spalle, mentre sorreggeva il crocefisso, trasmettendo le immagini alternate con la Via Crucis dal Colosseo. Eravamo presenti io, il suo segretario e l’operatore. In un momento di stacco della ripresa, vidi quel gesto che non venne ripreso da nessun altro se non dal mio obiettivo. Il papa prese il crocefisso, lo portò a fatica al suo petto, baciandolo ripetutamente con una tenerezza che mi è parsa la sintesi di tutto il suo pontificato. Lo rividi  poi qualche giorno dopo nel letto della sua camera: otto ore dopo il papa sarebbe morto. C’ero io e il suo segretario personale, oggi cardinale Dziwisz.. Entrando, trovai il papa leggermente girato su un fianco, su un letto spartano che aveva poco di papale. Sul comodino c’era solo una mascherina per l’ossigeno, ma niente di tutto ciò che la stampa avrebbe detto poi.

Il papa era cosciente: “Santità, c’è Arturo. Arturo Mari…” gli sussurrò in polacco il suo segretario . Lui allora si girò lentamente, aprì gli occhi azzurri e mi fissò con uno sguardo trasparente e profondo, come non vedevo ma mesi, seguito da un suo sorriso che resterà per sempre il suo più bel regalo. Borbottò la sua benedizione e poi accarezzandomi la mano aggiunse: “Grazie, grazie…”. Si rigirò e quel suo ringraziamento fu il preludio del nostro congedo terreno: si vedeva che era ormai pronto per un altro viaggio…”. “Con Giovanni Paolo II ho viaggiato in tutti i continenti. Migliaia di scatti che possono riempire un’intera biblioteca, ma se mi chiedono quale sia quello preferito rispondo che sono le foto che  scattai quando il papa andò a visitare i lebbrosi e i bambini malati di Aids in Africa come a Calcutta. C’è da credermi quando dico che mentre scattavo e vedevo compiere quei gesti affettuosi del papa,  trattenni a fatica le lacrime. Mi commossi  anche quando il suo segretario pose il panno di lino sul volto de papa morto.

In questi momenti puoi essere e devi essere un professionista, ma l’umanità spesso ti tradisce: soprattutto, se sei contagiato da quella “beata” umanità che Giovanni Paolo aveva il dono di donare”. “Nel tempo mi sono chiesto se tra di noi ci fosse dell’amicizia? Confidenza, quella sì!  Anche se ormai tra me e lui bastava una occhiata, ci sono stati momenti così fraterni da ricevere anche dei consigli famigliari. Ricordo i dialoghi che avemmo quando gli raccontai che allora il mio unico figlio voleva farsi prete. Come padre ero preoccupato e frastornato. Fu allora  che il papa m’incoraggiò con dei consigli pratici sul come un padre deve comportarsi in questi momenti. Ma questo è solo uno dei tanti miei episodi personali con lui.

Lo voglio ripetere: Giovanni Paolo II è ora beato e il giorno della sua beatificazione, ovviamente ero  in Piazza S.Pietro. Emozionato, certo, ma non sorpreso! La sua santità è stata trasparente, e per certi versi  così “fotografica” che non c’è nessun scatto che non sia stato reso pubblico, compresa la sua morte. Quella sua luce è però la luce stessa di cui è avvolto ogni uomo. E’ per questo che è  stato un “Santo per acclamazione”. Non sorprenda se dico che non ho nostalgia di lui! Anche se so bene che lui non c’è più, sento comunque che sta alle mie spalle. Per questo dico che Giovanni Paolo II è ancora qua con noi.  Anzi, uno di noi!”.

PAPA DI UNA GENERAZIONE

“Prima da ragazzo poi come giornalista, l’ho incontrato svariate volte. In due occasioni poi ho avuto il privilegio di un colloquio privato. Ma il ricordo più forte riguarda la GMG del 2000, quando vidi il papa asciugare le lacrime di un giovane!.

Sono uno di quella generazione che è cresciuto per ventisette anni col “papa in casa”. Nato sotto l’austerità di  Paolo VI, poi l’amabile ma troppo fulmineo Giovanni Paolo I, la mia giovinezza è stata tutta col papa polacco. Per simpatia, affetto e poi professionalità, sono stati molteplici gli incontri personali avuti in tutti questi anni con Giovanni Paolo II. La prima volta lo incontrai in Piazza S.Pietro nel 1982, poi a Vicenza, Padova e ancora a Roma. Incontri di carattere religioso (udienze pubbliche e messe solenni) ma pur sempre in maniera ravvicinata. Ma  sono due i ricordi più diretti che mi hanno portato ad un vis a vis col papa-beato. Due incontri speciali, preceduti dalla messa del mattino e  dal colloquio: era il 9 giugno del 1994 e il 9 settembre del 1997, entrambi a Castelgandolfo. Confesso che mi fu sempre famigliare incontrare papa Wojtyla, per quella sua innata comunicatività da “vecchio conoscente”.

Il cerimoniale è  sempre cosa pomposa, ma le circostanze degli incontri all’alba con lui mi sono sempre parsi “famigliari”. Le differenze semmai, le ha imposte il tempo: nel 1994 incontrai un papa dinamico, col passo sicuro e una stretta di mano energica. Nel 1997 Giovanni Paolo II era appena tornato dalla faticosa Gmg di Parigi. Il male che lo affliggeva è già  manifesto. Ricordo come allora per l’affaticamento venne aiutato a sorreggere il calice. In quell’occasione ebbi un incontro di una decina di minuti. Non è mai stato un papa da anello, preferiva stringerti la mano, ma il suo sguardo restava quello penetrante di sempre. Ingobbito però stentava ad incrociare gli sguardi. Mi chiese da dove venissi. Mi parlò di Vicenza e Padova. Io lo incalzai dicendogli che mentre lui era a Parigi, visitavo la sua casa a Wadowize e i monti Tatry dove lui andava a sciare. Ricordo il guizzo di forza che lo portò ad alzare la sua testa e a  fissarmi con lo sguardo. Gli parlai delle mie impressioni sull’esperienza polacca. Ad un certo  punto non ricordando più il nome di alcune località, mi corresse invitandomi a ripeterle correttamente. Mi scappò un “Bravo!” e lui sorrise, aggiungendo dei ricordi di quando era giovane e frequentava quei posti. Gli dissi che mi sembrava strano aver visto qualche giorno prima la sua casa natale e ora poterglielo dire di persona: “Strano? Ogni tanto la vita fa di questi scherzi…” mi ribatté il papa. Da giornalista lo seguii poi nella fredda notte di Natale del 2000, quando aprì l’Anno Santo, quando era già canuto, lo vidi piegarsi sulla Porta Santa avvolto in un piviale sfolgorante di luce di rara bellezza con l’eco di fondo delle zanne di elefante.

Lo rividi successivamente più volte come inviato alla GMG del 2000, fino al suo funerale nel 2005. Ero in Basilica quando entrò Bush a rendere omaggio alla sua salma. Ero in Piazza S.Pietro quando il vento forte di quel venerdì 8 aprile, girava le pagine del Vangelo posto sulla bara di cipresso. Tante le emozioni, ma la più vivida resta per me un fuori programma. Fu l’abbraccio struggente di un giovane scampato alla sorveglianza durante la veglia di agosto del 2000 a Tor Vergata (Roma). Ero a una decina di metri dall’altare e vidi il giovane piangere e Giovanni Paolo II asciugargli le lacrime. Se non è umanità questa!

L’ALBUM DEI RICORDI


Il GIAPPONE DELLO TZUNAMI

Di Antonio Gregolin                                   -©riproduzione vietata del testo-

“IL MIO GIAPPONE FERITO, MA NON PIEGATO”

Le testimonianze di due missionari vicentini (raccolte il 17 marzo scorso) che vivono da molti anni in Giappone, e qui  ci  raccontano il coraggio di un popolo colpito dalla natura, ma che alla stessa natura riserva rispetto e devozione, come espressione di un profondo senso di civiltà, efficienza e organizzazione.

Nel marzo scorso la terra ha scosso il Giappone e fatto tremare tutto il mondo per l’incubo nucleare. Terremoto, tzunami, rischio nucleare, si sono mostrati come un inferno. Il resto è cronaca di questi giorni. In Giappone da secoli vivono fianco a fianco giapponesi,scintoisti e buddisti, ma anche quei cristiani molto spesso seguiti da missionari giunti dalla nostra terra. Il francescano Claudio Gianesin, vicentino di Belvedere di Villaga, laureato in lingua e letteratura giapponese, è un frate-missionario che ha radici profonde col Giappone, dove vive da oltre quaranta anni. Figura di riferimento per la chiesa locale, il giorno della tragedia lui si trovava nel suo convento di Kitaurawa, vicino la città di Urawa-ku a nord di Tokyo, duecento chilometri dalla centrale atomica  di Fukushima.

Anche qui la terra ha tremato come non mai. L’idea potrebbe essere quella di un mare in burrasca pur mantenendo i piedi per terra. Ma ancora non basta a comprendere quel terremoto del marzo scorso, inimmaginabile anche per me che da quanta anni vivo su questa terra. Figuramoci doverlo descrivere ad un occidentale! Nel nostro convento non ci sono stati danni rilevanti, anche se gli edifici sembravano “navi” sbattute dalle onde. Anche ora, c’è un “rullio” della terra, ma anche a questo ci stiamo abituando. Immagino che molti occidentali siano stati tratti in inganno dalla calma apparente (cioè, mancanza di atteggiamenti “altamente emotivi”) con cui la popolazione giapponese tutta come anche  gli scampati della catastrofe abbiano affrontato la tragedia e il disagio umano e psichico che ne è conseguito. In realtà, la situazione è molto grave, e la calma della nostra gente maschera solo una grande paura interiore nel rispetto delle tradizioni locali”. “Sebbene la relativa mia lontananza dalle zone sinistrate (300 km), subito dopo i fatti il nostro dramma è stato quello di vederci impossibilitati dal portare aiuto. Se mandavamo aiuti materiali, c’era l’impossibilità di trasportare la merce a causa delle vie di comunicazioni danneggiate o fuori uso verso il nord. Queste erano ridotte ad una palude o sono come un enorme campo di rifiuti. C’è da ammirare la maniera con cui la popolazione colpita ha saputo rispondere con coscienza agli appelli di allerta diramati subito dopo il terremoto. Ecco a cosa sono servite le continue esercitazioni anti-disastro che vengono effettuate regolarmente ogni anno in Giappone cui partecipano tutti, compresi noi frati. Parlando con i frati di questa fraternità, ci dicevamo che ci vorranno alcuni mesi prima di riuscire a capire per intero l’entità del disastro. Impossibile per ora parlare di ricostruzione. Si profila un periodo duro  quanto lungo per l’intero Giappone, ma penso che conoscendo i giapponesi da oltre quarant’anni, loro ce la faranno”. “Fermarsi allarmati non giova a nessuno e non farebbe che ad aumentare lo scoraggiamento. Certamente qualcosa è cambiato e probabilmente ciò durerà settimane, mesi o forse decenni a quanto si sente dire in giro sulla radioattività”. La vita qui è diventata obbligatoriamente più sobria per tutti. Usiamo i nostri piedi quando i mezzi di trasporto sono fermi. Nella stessa Tokyo ho avuto l’impressione per molti giorni come se fossimo durante la grande pausa del capodanno, per tanto si era spopolata. Scomparsi gli ingorghi del traffico a cui sono abituato quando vivo in città. I pochi autobus che passano  sono quasi vuoti, taxi compresi. Quello che  ha preoccupato tutti qui, è stata la mancanza d’informazioni precise sulle radiazioni e contaminazioni nucleari. L’idea più comune tra i giapponesi ed anche noialtri, è che il Governo abbia occultato la vera gravità della situazione. In realtà, neppure io capisco molto quando cominciano a parlare di mili-sibel, oppure della quantità di radiazioni che si assorbono quando uno si sottopone ad un esame ai raggi X oppure ad una TAC. Resto però confuso e preoccupato per le conseguenze. D’altro canto,  penso che se venisse lanciato un allarme generale, si scatenerebbe  il caos totale di venti o più milioni di persone, così che il numero delle vittime risulterebbe più alto di quello già finora registrato. Non ci resta che sperare. Abbiamo soprattutto bisogno anche di fiducia e speranza. Lo dico da straniero, ma con il cuore giapponese. Sono in momenti come questi che servono i missionari! Ecco perché non ho mai pensato di tornarmene in Italia. Vivo l’esperienza come se questa fosse casa mia. E gente mia”.

DAI GIAPPONESI POSSIAMO IMPARARE MOLTO

Il saveriano don Danilo Marchetto, 55 anni, nativo di Grantortino nel padovano, ma diventato adottivo di Montegaldella (Vi), vive da ormai più quindici anni nel sud del Giappone, nella parrocchia di Kyusho di 300 fedeli cristiani. L’avevamo incontrato l’anno scorso raccontando la sua storia missionaria che lo vuole come “il parroco con la campana più grande del mondo” conservata nelle vicinanze della sua chiesa cattolica.

“Posso raccontare poco di ciò che è successo mille chilometri più in su del luogo dove io mi trovo. Qui a Kyusho, non abbiamo neppure sentito la grande scossa, e la devastazione l’ho vista alla televisione come voi . Qui siamo abituati alle forze della natura (tifoni, maremoti, terremoti) ma nessuno osava immaginare questa capacità distruttiva. Posso dire che i giapponesi si aspettano ora qualcosa di ancora peggiore. Ovvero, il terremoto su Tokyo annunciato dal 2000 come “la grande scossa”. Certo, questo è stato più disastroso ancora del terremoto di Kobe del ’95 che ricordo bene e che ha devastato i luoghi dove ho vissuto per cinque anni. Capire i giapponesi non è cosa facile e scontata per un occidentale.

Qui la paura e  un’emozione che viene vissuta in una forma totalmente differente. Noi siamo educati a viverla e a manifestarla. Qui è il contrario: è un fatto di cultura, che viene da uno spirito antico di sopravvivenza e da una grande capacità di organizzazione. Questo è il Giappone, che può insegnarci ancora molto. L’ordine qui regna sovrano e vi confesso che confrontando le situazioni posso dire che ho la stesso timore, uguale a quello che avrei se dovessi girare per una città caotica italiana. E poi, non è che in Occidente -penso al bacino del Mediterraneo-,  si stia più tranquilli in fatto di terremoti.  I giapponesi non vanno capiti: vanno aiutati. Ancora (2011ndr.) non è il tempo delle accuse o delle parole. Per un giapponese il silenzio può essere un conforto, ma più ancora un insegnamento. Ecco perché nelle mie prediche il riferimento alla tragedia resta morigerato,  sottotono, per entrare in punta di piedi nella coscienza certamente ferita di questa gente.  Le immagini che arrivano dal Nord del Giappone sono ancora troppo vive e forti anche per gente austera come i giapponesi. Serve a loro tempo per capire e tornare a sperare. Serve a noi tempo per aiutarli, con la certezza che rimanere qui sia il modo migliore per restituire speranza a questa straordinario popolo bello nella sua diversità”.