GIO’ DI TONNO: il gobbo di Notre Dame

Di Antonio Gregolin                       -© riproduzione vietata del testo –

IL “GOBBO” DIVENUTO CANTANTE

Giò Di Tonno è per tutti l’interprete del musical Notre Dame de Paris. Oggi è  un affermato cantante e cantautore “senza troppi grilli per la testa”.

Da brutto, ma buono, come il “gobbo di Notre Dame”, oggi è diventato un brillante cantante, capace di partecipare e vincere  (nel 2008 in coppia con Lola Ponce) il Festival di Sanremo. Una carriera  fulminante  che dopo i successi conseguiti all’Arena di Verona con il musical “Notre Dame de Paris”, gli ha permesso di bruciare molte tappe, conquistando il cuore del grande pubblico. “Tutto è successo molto in fretta – afferma Giò di Tonno-, ma sono rimasto coi piedi per terra, perché so che il mondo dello spettacolo ti può far fare voli pindarici per poi confinarti nel dimenticatoio!”. Inizia così con una considerazione da ragazzo di strada l’intervista che ci porterà a conoscere un fenomeno musicale che ora  può vivere anche di luce propria.

Giò Di Tonno, un nome  a dir poco fantasioso! Musicale io direi! Così mi è stato dato e così me lo sono tenuto. Magari ho avuto un po’ di coraggio per tenere il mio Giovanni Di Tonno, ma mi è sempre parso che fosse sonoro. E poi ci si può facilmente ironizzare su!

Cantautori si nasce o si diventa? Si nasce. Sono nato con la capacità di osservare e cogliere le cose per quello che sono. Fortuna o sfortuna che sia, è un modo di vivere che ti viene da dentro.

Credi che la musica prima ancora che un piacere, sia una terapia? Assolutamente sì! Grazie alla musica ci si conosce meglio e più in profondità.

Tu allora di cosa soffri? Di passioni,  per ciò che suono,  vedo o sento.

Chi è Giò, fuori dal palcoscenico? Credo un ragazzo semplice nell’accezione più vera, schivo  -se possibile- alla superficialità!

Volevi diventare una star della musica? No! Sting ad esempio  è una vera “star”. Io faccio le mie cosa da buon artigiano o meglio, da operaio musicale

E se non fossi diventato un cantante, cosa avresti fatto? Non mi sono mai posto un’alternativa. Questo volevo fare fin da quando a tredici anni ricevetti il mio primo applauso. Avevo già iniziato a otto anni col pianoforte. Poi scimmiottando i cantanti, un giorno  fui invitato ad un matrimonio  e cantai su un  palchetto. Ero  timidissimo, ma lo porto ancora dentro il  ricordo di quel applauso spontaneo. Quel momento non mi ha più abbandonato. Ciò che continuo a fare è per rendere felice me stesso. Faccio musica per me stesso, ma senza nessuna particolare ambizione. In fondo è quello che so fare meglio nella vita!

Cosa hai fatto e cosa no per diventare famoso? Ho lavorato molto per potermi esprimere senza ambizione. Mi concedo solo il lusso di poter vivere di questo mestiere. Per questo non ho mai mollato anche nei momenti più difficili.

 

Se ti dico chitarra, pianoforte o batteria. Cosa scegli? Il pianoforte

Sei incline ai compromessi? Con moltissima difficoltà e col limite  segnato dalla dignità. Ho  sognato di fare il cantautore, ma mi sono  prestato al teatro e attore per sperimentare altre strade. Non credo però che si tratti di un compromesso

Hai un brano che vorresti incidere, ma non piace al produttore, che fai? Essendo co-produttore di me stesso lo posso fare liberamente. Altrimenti farei di tutto per convincere chicchessia.

Poesia e melodia, cosa sono per te? Una bella poesia è anche una bella melodia, ma non è una canzone. La scrittura-canzone ha altri canoni.

L’autore musicale che ti piace di più? Sting sicuramente…

E il cantautore? L’italiano, Ivano Fossati

Un giudizio sulla musica commerciale? C’è una bella pubblicità e una cattiva lo stesso e la musica.

Non ti limiti a cantare sempre e solo l’amore. Perché? La vita è piena di tante cose…

Molti giovani oggi fanno musica e vorrebbero “essere famosi”. Un tuo consiglio . Quello di lavorare sodo evitando di  seguire le mode se si vuole restare, al di là della retorica di circostanza. Diceva bene Alpacino:  “Una volta che hai capito ciò che vorresti fare, non ti resta che provare”.

Cosa invece gli consiglieresti  di fare? Non vendersi o peggio, svendersi

Come si fa a piacere ai giovani e agli adulti? Credo ci sia sempre un disegno superiore in  tutto. Nel mio caso il destino ha voluto che facessi un  musical (Notre Dame de Paris) che ha messo d’accordo tutti. Forse era scritto che dovessi farlo io…L’importante è poi far capire alla gente che sei vero. Su questo non puoi mentire con te stesso come con gli altri che ti ascoltano.

Tu sei ormai popolare come la tua musica? Certo, faccio una musica semplice…

Cioè? Essere vero e non banale. Semplice ma originale. Basta pensare a Battisti che era semplice, ma mai banale. De André fu  un poeta della canzone che della semplicità coglieva l’essenza.

Qual è l’idea che vorresti lasciare ai posteri? Il più tardi possibile, spero! (sorride) Vorrei lasciare l’amore che ho per questo mio mestiere.

Cosa non hanno mai  scritto sul tuo conto? Fatico leggere la parola “cantautore” accostata  al mio nome. E questo mi spiace molto! Sono conosciuto come interprete, ma sto lavorando perché il mio ruolo sia completo.

La critica che non hai digerito? Quella  di un famoso critico quando avevo 15 anni. Allora come oggi  continua a farmi sorridere: “ Giò non canta,  ma russa con entusiasmo”. Spero però di essermi svegliato da allora…

Sembri uno che non s’invischia col  gossip? Assolutamente,  dipende sempre da ciò che vuoi dal mondo dello spettacolo

Cosa pensi di programmi televisivi come ad esempio “Amici o X Factor” ? Illudono chi vi partecipa. Non voglio criticare vi prende parte,  piuttosto chi li pensa. Questo è ciò che il mondo offre oggi . Forse 10 anni l’avrei fatto anch’io. In fondo,  i ragazzi non hanno altri mezzi.

E dei reality? Lasciamo perdere…

Che idea hai sui ragazzi di oggi? Tutto il bene possibile.

E sui miti di oggi? Ci sono pochi miti reali. Chi li ha, spesso lo fa per sfuggire ad altro…

 

Sei uno impegnato anche nel sociale, al di fuori del tuo mondo musicale? Sono attivo in questo. Come socio onorario AIL lavoro  molto per loro. Per questo come ogni Natale torno nelle corsie d’ospedale tra i pazienti affetti da leucemia, a telecamere spente.

All’Arena di Verona mi è capitato di vedere tuo padre commuoversi agli applausi che ti attribuivano. Quanto credi sia importante che un genitore sostenga il proprio figlio nella sua passione? Oltre che importante è fondamentale. Questa è stata la mia grande fortuna: papà è il mio più grande fan e viceversa. Questo nella  vita come nello spettacolo.

E’ lui  il primo a credere in te? A tal punto da essere diventato un autentico “papone”. Si può dire così?

Gli hai almeno detto “grazie papà”? Sì, un miliardo di volte e in modi diversi. Avevo delle difficoltà ad accettarlo a 15 anni. Oggi invece, lo vedo ai miei concerti con enorme affetto e tenerezza. Ciao papà!

Se ti dicessi che per arrivare al successo “non conta i mezzi, ma il fine” cosa rispondi? Che c’è un limite a tutto!

I guadagni ti hanno cambiato la vita? No, al punto tale che ho faticato a cambiare la mia vecchia macchina.

Il grande pubblico ti ha incoronato con il musical  NOTRE DAME di Cocciante. Come sei arrivato a quel ruolo? Con un po’ di fortuna e  bravura. Fatti due Sanremo, nessuno mi filava Nel ’97 mi misi a studiare recitazione. Un giorno ricevetti  una telefonata di una amica che mi disse:  “C’è  Cocciante che  arriva in Italia con un musical. Vuoi provare? Il suo fu un gesto  di amicizia che mi cambiò la vita. Solo dopo un anno e mezzo,  riusciì ad incontrare Cocciante  che rimase entusiasta di me. Ma sapeste quanto lavoro c’è stato prima di quell’incontro…

Cos è  l’ispirazione? Credo che si nasca con la fortuna di cogliere il momento, che poi tramuti in parole o musica. Credo poi che sia l’istinto di capire quel qualcosa che ti è arriva direttamente  dall’alto…

Cosa  t’ispira di più? In questo sono un tradizionalista. Rispondo  la serenità del  posto in cui sono nato e ritornato a vivere: la mia Pescara.

Nel tuo stile traspare anche della spiritualità… Penso di sì! La timidezza è una mia caratteristica dove ritrovo anche la spiritualità.  Mi piace stare sul palco quanto defilarmi nella vita. La mia è poi una spiritualità musicale che riflette il mio continuo riflettere sulle cose.

In cosa credi? Credo in Dio. Sono cattolico, ma vado a pregare solo quando trovo le chiese vuote.

Ottimista o pessimista sul futuro? Ottimista

Sei arrivato? Macchè…

Dove vuoi andare? Chi lo sa, per ora continuo a correre…

Allora, buona corsa! Grazie, grazie. Ora sì però mi tocca correre se non voglio arrivare in ritardo!(conclude ridendo).

L’ARTISTA DEI VOLTI SUI CAMPI DI GRANO

Di Antonio Gregolin                                   -© riproduzione vietata del testo –

IL MISTERO “SVELATO” DEI VOLTI NEI CAMPI DI GRANO

Obama, Mandela, Topolino ecc. sono le  figure realizzate nei campi arati dal poliedrico artista veronese, Dario Gambarin, che svela per noi i segreti della  sua arte “terra-terra”che lo sta rendendo celebre in tutto il mondo.

In campo artistico si è visto di tutto, anche uno che decide di salire su un vecchio trattore con l’intento di utilizzare un campo come il fondo di un quadro. Impulso creativo, ma soprattutto, ostinata capacità di un eclettico e poliedrico artista come il veronese Dario Gambarin, 52 anni, che dopo il suo primo esperimento di  trasformare un campo di grano in un’enorme tela, dal 2002 è divenuto uno dei primi -se non l’unico-, esponente mondiale di questo genere di  “land–art” o arte della terra.

Niente però a che vedere coi cerchi nel grano: “Non credo agli extraterresti, quelli semmai sono abili artisti terresti che sanno come nascondersi…” spiega Gambarin. Evitate così le comparazioni coi misteriosi “crop circe”, quella dell’artista veneto oriundo di Castagnaro nella bassa veronese, è un arte svelata in ogni suo dettaglio. Evoluzione ed ispirazione dell’epressionismo dei primi del ‘900, quella di Gambarin  ha ormai il crisma di una vera e propria scuola di pensiero che ha come regola il rapporto tra l’uomo e la terra.

La sua filosofia sprofonda nel solco tracciato sul campo dall’aratro come movimento di vita e ancestrale gesto dal quale scaturisce la genesi dell’arte stessa. Fin qui il pensiero di Gambarin: la pratica invece è una forma empirica, come gli è stato trasmesso fin da ragazzo dal padre agricoltore. “Amo la terra -replica lui-,  sono cresciuto con l’odore delle zolle dissodate, che fa ormai  parte del mio codice genetico e artistico. Ho così sempre cercato un rapporto ideale e pratico con ciò che ogni giorno calpestiamo, fino a quando in Germania ebbi modo di  osservare dei lavori artistici realizzati coi fiori”.

“Erano figure geometriche riprodotte in piena terra e poi fotografate dall’alto. Ma ciò non mi bastava: tutto era troppo semplice, lontano da quella plasticità delle forme che andavo cercando…”. Ricerca e passione restano gli ingredienti di ogni scoperta, così sentirsi descrivere l’arte da chi la produce, è come sentirsi spiegare uno spartito musicale dal suo compositore, e Gambarin è anche un artista e musicista. “Per anni la mia principale attività fu quella del musicista. L’arte ha sempre prevalso sul mio intelletto, tanto che essermi laureato in Giurisprudenza prima, Lettere e Filosofia e diplomato all’Accademia delle Belle Arti , non è bastato a farmi desistere dalla vocazione artistica che sentivo”.

Poteva così essere un avvocato o insegnate come avrebbe voluto il padre, invece Dario ha fatto altro, continuando a studiare, ricercare ed approfondire: “In fondo, suonare, dipingere o arare in forma artistica –aggiunge il maestro-, hanno molte cose in comune…”. Facile a dirsi, meno a immaginarselo: “Il movimento resta il motore dell’espressione –aggiunge Gambarin-, io non buco le tele come faceva Fontana più di mezzo secolo fa. Preferito sostituire alla tela lo spazio aperto di un campo. Mio padre quando mi portava con lui sul trattore me lo raccomandava spesso: “Impara l’arte e mettila da parte!”. Così ha fatto, anche se in una forma inusuale, che alla fine ha costretto il genitore a rassegnarsi. C’è da immaginarsi l’espressione di suo padre quel giorno del 2002  quando Dario già grande, approfittando della momentanea assenza, prese il mezzo meccanico con l’aratro sbizzarrendosi  a tracciare solchi che diventeranno linee in piena terra: “Quel giorno –racconta l’artista-, iniziai a fare degli ampi giri concentrici sul campo di grano appena trebbiato, pensando di dover realizzare un ipotetico volto in negativo di donna, usando però l’aratro e la terra dissodata come rilievo”.

“Lavorai con frenetica passione per più di un’ora, convinto che papà non sarebbe tornato…”. Non fu così, lui tornò la sera stessa: “Ho ancora in mente la faccia che fece quando vide il campo così arato che non mostrava nulla di quello che poi si sarebbe visto dal cielo. Laconico mi disse di spianare tutto subito, timorato di ciò che avrebbero potuto dire i vicini”. Quel “colpo di matto” del figlio, non lasciava presagire che in realtà si trattava  di un “colpo di genio”. Neppure lo stesso Dario immaginava ciò che aveva creato: “Sul trattore pensavo solo a tracciare un volto di donna, senza alcun riferimento geografico o schizzo preparatorio. Tutto era affidato al mio intuito”. L’indomani mattina, prima di spianare il tutto e spinto dalla curiosità, chiese ad un amico che aveva un piccolo aeroplano, di filmare dall’alto il campo di grano trebbiato. Fu una autentica sorpresa per tutti!

A stupirsi per primo fu il pilota del velivolo che portò a Dario il filmato, in cui si vedeva la faccia di una donna, stagliarsi sul campo arato del padre. Da quell’opera prima, i restanti anni sono stati uno “stupore” continuo dinnanzi alle successive figure che avrebbe tracciato sui campi. Realizzò Topolino, un alieno “Welcome“, ma anche personaggi storici come  Mandela “The winner” e opere concettuali dedicate alle religioni, fino ai più astratti volti picassiani. L’opera  che però sancì il coronamento mondiale di Gambarin, fu e resta il volto del presidente degli Stati Uniti, Obama. Un’altra sua genialata creativa:“Erano i giorni della sua visita in Italia nel luglio del 2009, e pensavo a cosa poter realizzare nel campo che avevo a disposizione. Ebbi una folgorazione ascoltando le notizie alla radio su Obama. Il giorno dopo ero già sul trattore: appena due ore di lavoro e il presidente poteva dirsi immortalato su un campo di grano. Così almeno speravo!”.

Fu il solito sorvolo con l’aereo che gli diede la conferma: “Obama è meraviglioso!” gli  disse via sms il pilota. La notizia rimbalzò presto anche oltre oceano, con servizi televisivi nei maggiori network americani e inglesi pronti ad occuparsi   dell’eclettico “aratore” veronese. Per Gambarin fu  la conferma che la sua arte era anche un messaggio: “Dopo aver tracciato con l’aratro il volto di Obama, scrissi su 27mila metri quadrati di terra la frase:The hope is  in the land, la speranza è nella terra!”. Ad oggi le opere di Gambarin non si contano più, due o tre in un anno a seconda della clemenza delle  stagioni e degli amici contadini: “Opere  naturali istintive e prive di qualsiasi preparazione tecnica. Ogni tentativo è un “unicum” che non ammette sbagli. Mi basta un campo di grano o mais appena mietuto, il mio trattore e via…”.

Tutto dura un paio d’ore, alla cieca e senza nessun riferimento. Tempo  in cui  l’artista  “è in preda ad un impeto creativo tale, da fargli perdere anche due chili  ad opera terminata. Al termine il rituale dello scatto panoramico dal cielo, è la conferma della riuscita dell’opera. Dopo di che,  il campo può tornare alla sua naturale vocazione agricola per essere arato normalmente. “C’è allora chi dice che uso l’aratro e il trattore come un pennello e per questo mi definisce un “artista dell’aratro”, ma la definizione mi sta stretta! Preferisco -aggiunge Dario-  essere un artista che dialoga con la terra, come fa un pittore con il colore. Peccato solo che comprendere questo in una società convulsa come la nostra è oggi quasi impossibile, perché non sappiamo più rapportarci con il linguaggio del nostro pianeta.

Consumiamo da perfetti consumatori, pur sapendo che le risorse sono limitate. Ecco perché le mie sono opere si dividono  ra un new ex-pression astratta, come delineano i volti che ritraggo in studio, e la sensibilizzazione civile con le opere  che realizzo en plein air nei campi”. Lo dimostra l’ultima sua  ciclopica immagine realizzata su 50mila metri quadrati nella campagna veronese nel novembre 2010, contro il recente dissesto idrogeologico in Veneto, ispirandosi all’omonima opera di Munch: “A urlare qui è la terra.  Quella stessa terra veneta violata dal progresso. “Così il nostro atteggiamento ci sta portando  sull’orlo dell’estinzione” conclude l’artista. L’arte per l’arte dunque, con Gambarin  diventa un tentativo “terra-terra” di una improbabile riconciliazione tra noi e il pianeta che abitiamo e sfruttiamo. Per ora la sua ” vecchia bestia” cioè il trattore parcheggiato sotto la tettoia della sua fattoria, resta  in attesa di rimettersi in moto non appena il pittore-aratore decide di tornare a dipingere sui campi.

QUANDO L’ARATRO DIVENTA  LIBERTA’

Dario Gambarin, 52 anni è nativo di Castagnaro nel veronese, dove impara dal padre  agricoltore ad usare l’aratro. Resta però difficile descrivere la vita di un personaggio tanto eclettico, diviso tra la ragione e immaginazione. Due lauree, una in giurisprudenza e una in lettere e  una diploma all’Accademia delle Belle Arti, e un biennio passato come ricercatore in una università americana. La musica e poi l’arte avranno però il sopravvento e lui dal 1990 decide di seguire le sue  passioni di sempre. Si trasferisce a Bologna dove ha il suo studio. Oggi in teatro fonde la musica con la pittura in performance che lo rendono quanto mai originale..  Dal 1999 si dedica a fare il pittore esponendo i suoi volti in molte gallerie internazionali.

Dal 2002 spalanca le porte alla “land art”. Da Bologna torna spesso nella campagna veronese per “arare” e creare le sue opere. Esperienza che l’ha portato ad essere conosciuto in tutto il mondo dopo aver “disegnato” su un campo il volto di  Obama, Mandela, Topolino, ma anche l’urlo di Munch e figure di animali. Il suo prossimo lavoro “terreno” è annunciato per la primavera prossima: “Per ora – dice- sto aspettando l’ispirazione che verrà” o c’è già ma non vuole ancora rivelarla. Gli è stato anche  chiesto  di realizzare i volti di alcuni personaggi politici italiani: “La mia arte non serve il potere. Il mio aratro resta un simbolo di libertà!”.

LAND-ART: L’ESPRESSIONE NATURALE DELL’ARTE

La Land art o Earth art pone le sue radici nel suolo statunitense negli anni ’70. Il termine fu coniato per la prima volta da G.Schum pubblicando un video sui lavori di Long, De Maria e Christo. Questi artisti avvertirono l’esigenza forte di un ritorno alla natura e di sciogliere le catene della civilizzazione e dell’opprimente vita cittadina di quel decennio.

Si tratta di un’esperienza creativa all’interno dell’arte concettuale che rinuncia alla volontà di creare una forma nuova, cioè fatta dall’uomo, ma assume come forma la realtà stessa. Gli artisti “land” considerano il dato fisico come un tutt’uno con l’arte, dove l’oggetto nudo presentato nella sua forma primordiale potrà essere colpito da elementi esterni che mutano la sua azione, ma senza sostituirlo, né coprirlo come avviene con la pittura o con la tavola.

Il loro obiettivo è far entrare in piena sintonia l’opera con l’ambiente circostante oltrepassando i limiti del prodotto mobile, in questo modo il fruitore sarà in grado di realizzare un’esperienza estetica più completa. Tra gli esponenti emergenti della Land-Art italiana, il capofila dei disegni sui campi è proprio il veronese Dario Gambarin.

ISRAELE VISTO DAL CUSTODE DI TERRA SANTA

di Antonio Gregolin                                     -© riproduzione vietata di testo e foto –

SAIO, SANDALI E TOLLERANZA

A tu per tu con il Custode di Terrasanta

Il “saio” in Israele si integra con la quotidianità, restando il simbolo di un possibile dialogo a distanza tra l’Oriente e l’Occidente, avviato con l’utopia di Francesco di Assisi . Da allora, il pertugio del confronto perseguito dal francescanesimo vede spiragli di lucidità religiosa e politica, riconosciuta da palestinesi e israeliani. Chi sta a cavallo di queste due realtà  da qualche anno è padre Gianbattista Pizzaballa(è nato a Cologno Arsero- Bg- nel 1965 ) investito oggi del ruolo di Custode dei Luoghi Santi. La sua formazione pastorale come  assistente spirituale dei cattolici israeliani e palestinesi gli permette di conoscere a fondo il pensiero che permea  le diverse comunità. Parla ebraico ed è un uomo pacato quanto determinato al dialogo.

L’ho conosciuto nella sua comunità di Gerusalemme poco prima che  ricevesse la  nomina di Custode. Per capire la sua esperienza, basti ricordare che nei pressi del suo convento in Jaffa Street in tre anni (2002-2005) si sono verificati più di tredici attentati kamikaze: “Vivere in Israele – mi disse allora- non è uno scherzo! Ma nonostante tutto rimane una  Terra Santa!”.  Da allora  mi rinfaccia  una mia battuta rivelatasi poi una intuizione: ” Ti vedrei bene come Custode …” gli dissi. Quanto segue è il sunto di più dialoghi avuti con lui in questi anni di amicizia, che dimostrano la vivacità culturale di un frate dinnanzi a due civiltà allo scontro.

Da quanti anni si trova in Israele?

Dal 1990, dunque venti anni, di cui gli ultimi cinque come Custode francescano di Terra Santa.

Come sta vivendo questa ennesima crisi tra Israele e Palestina (dal 2003 ad oggi)?

Purtroppo con una certa abitudine. Non è la prima volta e dico con altrettanta sofferenza che non sarà l’ultima, in cui la voce delle armi spazza via ogni possibilità di riconciliazione. Chi vive in questo contesto, non si stupisce più davanti alle reazioni più estreme. Solo che nel caso di Gaza, l’impatto emotivo e mediatico che si è avuto in Occidente, ha fatto crescere l’eco senza però risparmiare sangue innocente.

Quali sono secondo Lei, le condizioni imprescindibili tra le parti per una pace stabile?

Non si può pensare che le armi stabilizzino l’area. Anzi, ne peggiorano le conseguenze. Per poter parlare di un cammino sostanziale quanto efficace di pace tra israeliani e palestinesi, è fondamentale che vi sia  il coinvolgimento di tutta la società. La politica da sola non basta, anzi alle volte peggiora le situazioni. Qui bisogna coinvolgere i settori sociali, partendo dalla scuola, opinione pubblica, industria, agricoltura. Insomma, tutti quei settori che sono vicini alla gente  e ai popoli. E’ da questo che decollerà un processo di pace irreversibile, per ora ignorato dalla grande politica globale.

Lei ha la possibilità di vedere il conflitto con due visuali diverse:  Occidentale e Medio orientale. Quali sono le rispettive differenze?

La visione orientale è carica di rancori, come riflesso di libertà negate e prospettive represse. Nell’ottica occidentale invece, prevale una politica razionalista che mal si adatta alla cultura araba. Vi è in questo senso,  una politica internazionale che si schiera da una dall’altra parte a seconda delle proprie convenienze come si vede in questi giorni. In questo la scuola europea e italiana ne è un esempio eloquente…

Qual è la situazione degi cristiani arabi?

Come tutti gli altri arabi. Non stiamo parlando di un popolo distaccato dalla realtà. La differenza semmai degli arabi cristiani è che  loro non coltivano rancori o vendette, ma subiscono le stesse frustrazioni e vessazioni  di chi è sottomesso con le armi.

Sono decenni che il percorso di pace in  fa un passo avanti e tre indietro:c’è uno scontro di civiltà?

Non credo, anche se i rischi non mancano e sembrano aumentare.

Visto con gli occhi di un europeo, ci sono sufficienti motivi per accusare e assolvere tutte le parti in conflitto. Come disse Pilato a Cristo proprio in questa terrà: “Cos’è la verità?” anzi, dove sta la verità in questo momento?

Non è facile rispondere. Compito della nostra missionarietà non è quello di esprimere giudizi, stabilendo ragioni o torti. Noi siamo qui per aiutare le persone a crescere nel dialogo, allontanandole da questo circolo vizioso di sangue che non si interrompe dal 1948. Qui, nessuna parola esclude l’altra come nessuna verità. Per cui cosa sia la verità non è una preoccupazione assoluta. Per noi cristiani conta l’incontro, il dialogo con l’altro: ebreo o arabo. Col giusto o con l’iniquo. Non facciamo politica e non siamo dei chiaroveggenti. Ci basta essere  tra la gente e con la gente.

La sua nomina a Custode ha da subito suscitato  un certo stupore. Si tratta di un segnale che prelude ad una svolta?

Non posso negare che la novità lo è stata innanzitutto per me! Per il fatto di avere scelto un frate qualsiasi quale sono: uno degli ultimi arrivati (sebbene abbia già  un trascorso di quattordici anni in Terra Santa ndr), considerando la veneranda saggezza di  molti miei confratelli. La nostra presenza nei luoghi santi è per definizione e volontà dello stesso Francesco, un segno che nei secoli si è consolidato nella tradizione di questa terra e della sua gente.

Il coraggio non è tanto mio sapendo di dover custodire questa antica missione; semmai, di tutti quei miei confratelli che hanno creduto nominando un frate come me, di dare un segno alla realtà storica di oggi. Sì, diciamo pure che il segnale di rinnovamento, arriva dall’Ordine dei frati in un momento in cui i cristiani in tutto il Medio Oriente stanno vivendo un momento difficile. Basti pensare al loro spopolamento in molte aree geografiche, così come di quei luoghi ritenuti santi, ma non meno sicuri, come sta accadendo in Palestina.  Vi  è poi la gestione dei 300 nostri frati disseminati in tutto il bacino Mediterraneo. Trecento frati che possiamo dire valgono per tremila, considerando il lavoro che quotidianamente sono chiamati ad esercitare: dalla custodia dei luoghi santi, all’educazione, alla assistenza verso i più bisognosi, alle famiglie cristiane, arabe o ebree.

E la svolta?

Non dimentichiamoci  che sono chiamato a perpetuare una tradizione secolare, che vede una prima difficoltà nel differente valore tra la cultura occidentale da quella orientale. E’ difficile comprendere quanto questo incida nella realtà locale, se non si conosce e si condivide questa stessa realtà. Da parte mia – e lo dico con molta umiltà-, ho un’esperienza decennale con i cristiani di origine ebraica, con cui ho sviluppato una pastorale tutta incentrata sul dialogo e la disponibilità. E’ dunque difficile spiegare ad un occidentale la poliedricità di questo mondo, se non ci si immerge in questo mondo. E’ forse per questo mio assorbimento culturale, fatto di esperienza e cultura che confesso tutto il mio amore per questa terra, fatta di contrasti e di ombre, ma anche di segni di resurrezione che spesso non trovano la giusta considerazione che dimostri quanto qui la speranza sia viva nell’animo del popolo. Se vogliamo questa è già una svolta decisiva. Nonostante la mia personale esperienza di vita passata nella casa francescana  di S. Simeone e Anna, nella centralissima Jaffa Street, dove in tre anni sono avvenuti più di tredici attentati suicidi con decine di morti, tanto che gli attentati ho imparato a riconoscerli dai rumori, posso dire ora più che mai quanto la speranza non sia colpita a morte. Anzi, è proprio in questo contesto così articolato che la nostra presenza in Terra Santa, continua ad avere un valore assoluto di testimonianza ed accoglienza.

Un impegno  il suo che per tradizione è inevitabilmente anche un ruolo “politico” e sociale.

Il mio ruolo ha certamente diverse sfaccettature. La prima è di ordine religioso rivolto al mondo cattolico-cristiano, come verso le altre fedi, considerando che si tratta della terra madre delle tre fedi monoteiste. La seconda è di carattere sociale; indubbio è l’esempio di Francesco che seppe dialogare con il saladino. Su queste tracce perseguiamo il cammino del poverello  che oggi calza i nostri sandali. Non a caso il compito che vorrò perpetuare sarà quello di ascoltare tutti. Dai pii religiosi ai politici estremisti, senza però mai tralasciare quel senso di dialogo che ci rende liberi di esprimere con coraggio e determinazione anche sulle questioni più spinose di questi popoli. Se serve lo ribadirò a tutti i capi religiosi e politici, Sharon incluso.

Non teme per questa sua nomina (2005)  in un momento storico tanto delicato?

Paura no! Sono sereno perché sono tra la mia gente e solo Dio sa di quanta sete di speranza ha bisogno questo popolo. Fare in modo che i pellegrini tornino in Terra Santa, aiuta questa gente e può aiutare anche noi nella nostra missione di custodi dei luoghi santi. Ripeto, resta difficile per voi in Europa comprendere il pensiero e la cultura di questa terra . Il rapporto con la tradizione è inscindibile. Cercherò  semmai di allentare i formalismi in modo che, emerga la sostanza piuttosto che la forma. In fondo, la semplicità rimane “un arma”  che per noi francescani è un valore inalienabile, davanti  cui possono cadere molte barriere…

Barriere?! Intende il muro di sicurezza voluto da Israele per difendersi dagli attacchi palestinesi?

Comprendo  fino in fondo, in virtù anche della mia personale esperienza, il bisogno di sicurezza che rivendicano gli ebrei con l’edificazione del muro, ma non penso che sia questa la risposta che risolverà i problemi di questa terra. Lo dico basandomi  sulla mia esperienza, pensando anche a  ciò che i nostri muri occidentali hanno creato nella storia e nelle persone.