1943/2010 LA MARCIA DELLA MEMORIA

Di Antonio Gregolin                                  -© riproduzione vietata di testo  e foto-

LA MARCIA DELLA MEMORIA

In Ungheria ogni anno si commemora con una singolare marcia la campale battaglia sul Don in onore delle vittime del 1943.

HEREZ (Ungheria 2010). Un cammino nella memoria come in Italia non si vede fare più da tempo. Una lezione di storia che dall’Ungheria  aiuta  la memoria europea. Una marcia dal valore simbolico per non dimenticare la tragica ritirata dal Don del 1943: il fiume russo divenuto la tomba per migliaia di soldati italiani, tedeschi,ungheresi e romeni.Quelli che allora furono giovani sventurati, oggi sono sparuti testimoni che si spengono con il passare degli anni.

Cosa c’è allora di più autentico per le generazioni che li hanno seguiti e chiedono di onorarne la memoria, di rivivere le stesse atmosfere marciando sulla neve, con zaini, gavette e le divise storiche, nelle glaciali distese ungheresi. In centinaia a metà del febbraio si sono ritrovati in Ungheria per rievocare la tragica Campagna di Russia.

Un appuntamento tra i più significativi d’Europa, nato dopo la caduta del comunismo, cui partecipano riservisti tedeschi, italiani, ungheresi e romeni, improntato sull’ecumenismo storico e religioso. Ben lontano dall’essere una “parata” per nostalgici a caccia di emozioni eroiche da raccontare: “Quello che qui riviviamo senza alcun un giudizio storico –spiega Zsolt, giovane riservista ungherese di 22 anni- vuole essere un modo per alimentare la pietà  verso chi si è sacrificato e rischia di essere presto dimenticato…”.

UN GELIDO  INVERNO COME ALLORA…

A Herez cento chilometri fuori Budapest, l’eccezionale inverno di quest’anno (2009) sembra essere simile a quello della steppa russa, con il cielo carico di neve ricordato da Stern o nelle centomila gavette di ghiaccio di Bedeschi. L’inverno ungherese coi suoi venticinque gradi sottozero, sembra aver mantenuto la  medesima sfida  lanciata allora alle truppe d’assalto italiane, tedesche, ungheresi e rumene che invadevano  l’impero sovietico. Una riproposizione di quella che fu una estenuante prova fisica, che ancor oggi tempra lo spirito di questi giovani moderni.

Persi con gli anni estremismi e campanilismi, la pietà popolare si contrappone ai giudizi su vincitori e vinti. Chi partecipa alla commemorazione racconta di zii o nonni mai ritornati dal fronte russo.La storia non indulge, ed è così che si giustifica qui la totale assenza dei simboli nazisti. I moderni riservisti tedeschi, riconosciuti come associazione di volontariato e protezione civile, sono così costretti a mostrarsi unicamente con le mimetiche militari, piuttosto che in divisa storica. I più sono regolari riservisti. Altri, tra questi alcuni italiani, si definiscono “pellegrini” delle vicende storiche.

Persone come Simone La Mura, 38 anni di Taranto che veste i panni di un fante del 1941, disposti a percorre duemila chilometri per poi marciare con dei scarponi ferrati. Ex alpini di Belluno come Riccardo Marcolin di 66 anni e Antonio Dal Fabbro di 68 che indossa la divisa originale di suo padre, maggiore della Divisione Julia durante la vera campagna di Russia, sono i veterani della rappresentanza italiana degli storici corpi dei bersaglieri, artiglieri, fanti e alpini. Per quattro giorni la loro vita si è sostituita alla quotidianità degli sventurati “boce” del ’43. Se non fosse per i pochi segni di modernità come i cellulari, l’impressione è quella di trovarsi a pochi passi dalle rive del Don.

Abbandonata la comodità ci si ritrova nel vivo della rievocazione, con le notti trascorse in improvvisate camerate col sacco a pelo e lo zaino come cuscino. La levata alle cinque coi pasti consumati nelle gavette. Le piaghe ai piedi sono per tutti un dolorante marchio “storico” delle lunghe marce per boschi e strade, prima di raggiungere i luoghi delle varie cerimonie.

Fa impressione lo sferragliare dei soldati in marcia, gli ordini scanditi ad alta voce che rompe il silenzio dei paesi ungheresi.  Anche i camion e la cucina da campo sono d’epoca. Tutto è reso perfetto fin nei minimi dettagli: dalle divise alle armi originali, rese oggi  inoffensive. Qui puoi trovare la mitragliette “Schmeisser”, il “Panzerfaust”, il fucile K/98”tedesco, il “Parabellum” russo e i “moschetti italiani 91/38”. Oggetti storici da fare  invidia ai collezionisti.

ONORI MILITARI E PREGHIERE RELIGIOSE

Si ricorda nei vecchi cimiteri o piazze ungheresi chi ha il nome scritto su un monumento, ma soprattutto coloro che l’inverno russo ha fagocitato per sempre.  Per quattro giorni, le uniche tappe concesse durante le marce sono per le cerimonie ufficiali e religiose davanti ai monumenti. Intorno, centinaia di persone tra cui molti bambini e ragazzi che sfidato il rigore del gelo, sono l’espressione più genuina di questa sensibilità popolare. I pochi veterani ungheresi ormai vecchi matusalemme, sono però ancora ostinati a presenziare agli onori militari.

Autorità civili, preti cattolici e riformati, bande e cori femminili, s’integrano alla folla di scolari con gli occhi strabuzzati e commossi anziani. Corone di fiori, picchetto d’onore, fiaccole e inno nazionale non mancano. Preghiere nei cimiteri dove sono sepolti i caduti del’43. Mai una rivendicazione o ostentazione nazionalistica, la tangibile volontà resta la stessa: fare memoria, anche quando al di là di una recinzione militare, la colonna devia il suo percorso per permettere ai riservisti tedeschi di rendere omaggio ad una stele che ricorda i “camerati SS” caduti. Pochi essenziali gesti perché il peso della storia non lascia scampo.

PER NON DIMENTICARE…

La marcia è uno spostamento da un luogo all’altro, che inizia fin dalle prime ore del giorno. In fila si marcia spediti con gli stessi incalzanti ritmi descritti da Rigoni Stern. Le pause sono brevi, col freddo che si cristallizza  sugli elmetti e nei baffi di questi soldati armati solo “di passione e memoria”. A sera il rancio è lo stesso del mezzodì: una brodaglia di carne e patate che un tempo doveva essere una fortuna. Poi  il piacere di qualche sigaro, un po’ di grappa e una stecca di cioccolato, sembra rincuorare la truppa. E’ qui  che i più giovani sembrano dismettere  i loro “ruoli” storici.

Si fraternizza ritrovandosi in una babele di lingue, dove tra i ricordi spuntano spesso nomi di località italiane: Monte Pasubio, Altipiano di Asiago, Monte Cucco, Bussibolo, l’Ortigara, ecc.Nomi che costituiscono la geografia militare della Prima Guerra Mondiale. Si scopre così la vera passione storica di questi partecipanti. Le due guerre sembrano s’intrecciarsi e quello che non fa la storia può così farlo la memoria. C’è chi si avvicina agli italiani per chiedere informazioni  su alcuni soldati del 1918. Sembra ieri, ma da allora è trascorso quasi un secolo.

Rainer Pàl è un archeologo di professione che dirige un piccolo museo etnologico a Veszprém, sopra il lago Balaton aggregato al gruppo degli ungheresi. Un tipo schivo, ma dal piglio del ricercatore.  Da anni in occasione di questa circostanza porta in tasca una cartolina postale e una foto appartenute a due soldati italiani della prima guerra mondiale. Non perde occasione di avvicinarsi agli italiani raccontando la storia della vecchia zia Ghisela Lachner, morta a 94 anni nel 1984.

Fin da piccolo sentiva raccontare dalla zia, le storie di guerra. Di quando lei era crocerossina al seguito delle truppe austroungariche. “Quelle storie –racconta Rainer- finivano sempre coi nomi di due militari italiani che avrebbe desiderato tanto rivedere. Un desiderio rimasto incompiuto fino all’ultimo…”. Non si concretizzò, neppure quando Ghisela tornò in Italia a Padova nel 1961, accompagnata  dal figlio prete, con la precisa volontà l’intento di trovare il fante vicentino Broccardo Lino, e il padovano Arturo Brusarosco,  volontario fiumano.

” Entrambi furono soldati feriti e fatti prigionieri nel 1918 sul fronte triestino e poi internati in un campo a nord di Budapest, dove sono stati curati dalla stessa zia” racconta Rainer. Dopo la liberazione i contatti tra i due giovani italiani e la crocerossina ungherese continuati per qualche anno grazie ad alcune cartoline che Ghisela ha conservato. Sono le stesse conservate ancora oggi dal nipote Rainer: in una c’è la foto autografa di Broccardo e una cartolina spedita da Fiume nel 1919 dopo la liberazione dal Brusarosco nella quale scriveva di “aspettare con ansia sue notizie…”.

“Trovare oggi i figli o parenti di questi due italiani –spiega il nipote Rainer- sarebbe per me e la mia famiglia oltre che una curiosità, la felice conclusione di due storie rimaste sospese, dove dei a nemici in guerra sono diventati poi amici in pace. “Mia zia non ha potuto in vita rivedere quelle persone che ha cercato per anni”. “Oggi –conclude il nipote Rainer-, io non ho perso la speranza di poter ritrovare i discendenti di quei soldati…” nonostante il tempo e i ricordi sepolti sotto la neve d’Ungheria.

SCATTI DI MEMORIA


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2009 “INSIEME FACCIAMO  LA STORIA”

Lo “storico” incontro di quattro reduci novantenni della Seconda Guerra Mondiale che si sono incontrati per la prima volta

Sono gli ultimi, autentici, testimoni della storia  scritta sui libri. Veterani di guerra. Soldati del fronte. Superstiti della follia chiamata guerra. “Testimoni” come si definiscono loro oggi. Sopravvissuti all’inferno sono poi  diventati nonni e bisnonni che oggi sentono il peso della memoria, con la speranza che il loro sacrificio, ma prima ancora quello dei commilitoni che non a casa non hanno fatto ritorno,  non sia dimenticato. Ci sono poi momenti, come questo, in cui le diverse storie possono fondersi in una stretta di mano collettiva. Un incontro che diventa un’icona di riconciliazione per quanti  la storia l’hanno vissuta, ottemperando a degli ordini che li ha  visti più difensori di  ideologie, che salvatori della Patria. Per questo sono “vittime” due volte: degli orrori e della follia umana. Ma salvi e ancora vivi…

MAI INCONTRATI PRIMA

L’incontro con la storia è avvenuto quasi per caso, in una casa di Grisignano di Zocco tra il padovano e vicentino. Quattro esperienze che unite compongono la geografia della Seconda Guerra Mondiale. descrivono fronti diversi, ma con un intento comune: raccontarsi per non dimenticare ciò che è stato Chi col bastone, chi in carrozzina o sulle proprie gambe, a metà dello scorso febbraio Cristiano e Matteo Dal Pozzo, Vittorino Miotto e Albano Cozza, si sono incontrati insieme per la prima volta. I loro occhi si sono fatti subito lucidi, ma poi i ricordi hanno la meglio tanto da sembrare un fiumi in piena.

Vittorino Miotto, 90 anni appena compiuti è nato a Montegalda ma risiede oggi a Bastia di Rovolon (Pd), è uno degli ultimi autieri ad aver  lasciato il fronte russo dopo la disfatta del 1943. “Del mio reparto della 137ma autosezione pesante della Divisione “Pasubio” su 52 soldati siamo tornati in otto a casa”. Come lui, oggi ne restano altri due: un torinese e un milanese. Cristiano Dal Pozzo, 96 anni di Rotzo è lo storico veterano che apre le annuali sfilate degli alpini in mezza Italia. Una “star” di montagna che indossa la sua vecchia divisa da coloniale color sabbia, che lo identifica con la campagna in Libia e Abissinia del 1943.

Albano Cozza, 90 anni di Montegalda, detto “armonica” perché suonava al fronte per i suoi commilitoni prima di scagliarsi all’attacco, ha combattuto come alpino dal ’40 al ‘43 sul fronte greco-albanese, rischiando di finire poi nell’inferno russo.

Gianni Dal Pozzo, 96 anni di Rotzo, risiede a Mestrino (Pd) è conosciuto come “el maistro” per i suoi 47 anni di servizio scolastico dopo che nel 1940 si è trovato a combattere in Libia e Tunisia dove è sopravvissuto alla battaglia di El Alamein, per poi trascorrere quattro anni di prigionia in un campo inglese tra India e Pakistan. Storie che chissà quante volte hanno raccontato, ma che qui ripetono sapendo di condividere un momento che potrebbe non ripetersi più.  Per tutti loro, la guerra è rimasta un incubo indelebile il cui peso, sessantacinque anni dopo i fatti,  strappa lacrime pesanti come le loro storie. Non c’è tregua alla memoria e i fatti di ieri rendono increduli i giovani di oggi: “Come quando seppellii i miei soldati –racconta Gianni Dal Pozzo- dopo la battaglia di El Alamein, mettendogli sul petto delle bottiglie coi loro nomi; gli stessi che poi trovai in Libia inscritti sul monumento commemorativo per i nostri caduti”. Per Cristiano Dal Pozzo, “dieci anni di naja, di cui sette passati al fronte, sono stati un insieme di fortuna e benedizione visto che alla fine ho riportato casa la mia pellaccia…”. Albano Cozza, racconta la sua versione della storia: quella vissuta sul fronte greco-albanese dal ’40 al 41 dove si è trovato a combattere contro gli ebrei italiani che espulsi dalle leggi razziali, si erano arruolati con l’esercito greco. “Eravamo a Tepelene nel sud dell’Albania, quando durante le pause dei combattimenti alcuni ebrei italiani dalle trincee nemiche ci chiamavano, qualcuno scherzava o imprecava, ma soprattutto perché sparavano contro di noi”.

Vittorino Miotto, ha ancora in mente quel giorno d’autunno del 1942: “Ci trovavamo a Gorlowka nel nord dell’Ucraina, a pochi chilometri dal Don. Qui ogni mattina vedevamo un piccolo gruppetto di persone con la stella gialla sul braccio, diretti a scavare una fossa nel vallone che divideva due binari. Una mattina, udimmo spari cadenzati. Incuriositi in tre valicammo l’argine e lì vedemmo l’inferno.  Uno ad uno i prigionieri venivano allineati e scaraventati nella fossa con un colpo di pistola alla nuca.

Riuscivamo a vedere bene la scena e i terribili dettagli. Come militari e le guardie tedesche di vedetta ci permisero di avvicinarci. Il nazista che sparava si fermò di scatto, sorpreso quanto noi e voltandosi ci pose la pistola invitandoci a proseguire quel suo “lavoro”: “Italianish cameraten…” ci disse. Terrorizzati rifiutammo, fu allora che l’aguzzino ci apostrofò dicendoci: “Italianish scheisse…”.

ISRAELE reportage 2003

di Antonio Gregolin                                                -© riproduzione vietata di testo e foto –

ISRAELE ONE THE ROAD

Capire Israele e la Palestina è come vedere attraverso una lente d’ingrandimento offuscata.

Intravvedi  appena i chiaroscuri, mentre quello che noi osserviamo da qua, sono solo i riflessi (spesso miraggi), di una realtà  tanto complessa da essere incomprensibile. Chi vive lo storico conflitto sa di essere continuamente plasmato dalla storia. Ma cosa realmente sappiamo del conflitto in Medio Oriente? Un reportage a stretto contatto con  arabi ed ebrei durante la Seconda Intifada. Aver conosciuto il dolore di due popoli, non basta ancora a dare delle risposte. E la tentazione resta quella del facile giudizio.

PALESTINA2004

E’ il medesimo “Welcome to…” scritto sui muri di Sarajevo, Grosny, come di tutte le città dove la guerra ha dispiegato le sue ali. Lo stesso è nella Palestina di oggi con un “Welcome” che esce dalla bocca di tutti, vittime e occupanti,  senza che però nessuno sia ancora stato capace di scriverlo definitivamente sui trattati di pace. “La nostra terra è occupata, cosicché,  ad ogni azione corrisponde una reazione!” è l’equazione che viene offerta a chi visita oggi i territori palestinesi dopo lo scoppio della seconda Intifada. Parole queste che pesano come pietre e si prestano all’ambiguità delle parti. Parole che molto spesso, qui anticipano le armi stesse,  perché  arrivano prima  dei proiettili o dei “istishhadi” i martiri-kamikaze.  Parole che diventano abitudine alla paura quotidiana: “Questa non è una guerra, ma occupazione…”. “La nostra non è più vita da ormai tre anni, – risponde la gente palestinese -, basta guardare come siamo ridotti…”. Ci sono immagini che col trascorrere  del tempo noi stessi ci siamo abituati: quelle dei bambini che sbucano dalle vie dei villaggi per sfidare i giganti corazzati a colpi di pietra. Degli omicidi “chirurgici” perseguiti dai raid israeliani. La distruzione di case e quartieri come ritorsione. E’  questa l’idea  occidentale che si è sedimentata nei decenni del crogiolo Medio Oriente: “Così si finisce col guardare sempre e solo da una parte…”, commentava un vecchio palestinese in un quartiere popolare di Tulkarem che nella pace “ho smesso di credere da anni!”.

Lui è vecchio, ma anche i suoi figli la pensano nella stesso modo: “Finché loro firmano protocolli, noi viviamo come topi in gabbia: senza lavoro, con poco cibo e continue vessazioni…”. Metafore per descrivere l’intrigo della realtà in cui quotidianamente vivono: “L’immagine è quella della favola araba che narra di un bellissimo uccello cui è stato negato di volare e cantare”. “Noi ci sentiamo come quell’uccello. Così, se la pace verrà, sarà comunque una pace senza giustizia”, spiega Yunes, 40 anni architetto palestinese di Tulkarem, laureatosi a Venezia, il cui cognome  chiede di essere  omesso per questioni di sicurezza . “ Di  questi  tempi, una foto o una parola di troppo potrebbero essere rischiosi…” dice lui. E’ la quotidiana  cautela di chi tenta di racconta la propria vita, convinto che chi è lontano non può comprendere il significato di dover vivere “prigionieri in casa”, per colpa dell’assedio.

“ON THE (MAP)ROAD”

Emerge subito chiara una cosa quando incontri la gente dei villaggi delle aride colline della West Bank (Palestina): “Com’è strano vedere dei giornalisti occidentali da queste parti. Dite sempre ciò che accade in Israele, parlate dei loro morti, delle loro sofferenze, ma difficilmente voltate le telecamere per mostrare come viviamo noi qui oggi!” “Welcome of Palestine…” ti ripetono. Tulkarem, Jenin, Nablus, Jerico, Ramallah, Hebron o Gaza sono città che raggruppate assieme formano un territorio non più grande della nostra Lombardia. Distanti una trentina di chilometri l’una dall’altra, coprendo l’intero tracciato in meno di due ore di macchina. Due ore che qui possono diventare due giorni, come due settimane proprio perché sei n Palestina: “ Qui il tempo non vale più– ribatte un tassista arabo-, questa è la terra  dove tutti sanno quando partono, ma non quando arrivano. O se arrivano…”. Basta un carro armato messo di traverso per passare ore interminabili sotto il sole desertico. Uomini, donne, vecchi e bambini, tutti hanno pari dignità e trattamento in attesa  dell’ordine di passare.  Va meglio se sei un turista (non certo per caso e per questo sospetto per gli israeliani ), e mostri il passaporto hai il vantaggio di ricevere il lasciapassare. Se poi sanno che sei italiano, i soldati israeliani si concedono anche all’ironia: “ Italia, Juventus, Milan, good. Good…” Così finisci con il lasciarti alle spalle tutti, dimenticando la sindrome psicologica da blocco stradale che qui è pane quotidiano. “Va così da tre anni, tutti i giorni, tutte le ore – risponde la gente per strada-, non ci resta allora che battere le piste sterrate tra le colline desertiche”, sentieri tortuosi percorsi da capre e macchine insieme, difficilmente controllabili dall’esercito israeliano, dove trovi l’altra Palestina che in pochi conoscono.

L’ASSEDIO.GLI ASSEDIATI. GLI ASSEDIANTI

Sono ormai tre anni che i miei figli vanno a scuola solo quando i carri armati glielo permettono”, risponde una giovane mamma araba. Il parco giochi, è per tutti un desiderio inconfessato. Ci si accontenta del poco che l’assedio lascia passare. Si gioca con tutto e diventa quasi un gioco  anche tirar sassi contro i carri armati o jeep dei soldati israeliani di pattuglia. Il loro arrivo è un appuntamento fisso per molti bambini. Pochi secondi e la strada si riempie di bambini e ragazzi, loro che hanno preso il posto degli adulti della prima Intifada. I carri armati invece  sono sempre gli stessi: si fermano e puntano minacciosi contro i bambini che sembrano come cavallette. Un gioco che però può farsi mortale. Ma stavolta niente spari e dunque niente feriti o morti: solo per oggi.  Poi tutto torna nella calma apparente.Entriamo allora in un cimitero di Tulkarem dove Nassir conosce una ad una, le tombe dei martiri, come loro chiamano i caduti: “Questi sono morti una settimana fa, un altro è stato colpito solo ieri in una sassaiola come quella di prima.” In una  vicina tomba, un ragazzino ha lasciato tra i fiori secchi uno strano oggetto: una bomba a mano resa inerte, utilizzata come giocattolo. “Qui tutti imparano a vivere alla giornata, – risponde Yunes il mio accompagnatore- senza più abitudini o programmi per il futuro. La stragrande maggioranza dei palestinesi, non lascia le proprie città da ormai tre anni nonostante abbiamo parenti o amici a pochi chilometri da qui”. Singolare storia quella di Abdul Sabbah, 29 anni di Tulkarem, promessa sportiva del calcio che solo tre anni fa militava in una squadra italiana di serie “C”. Lui racconta di essere tornato dall‘Italia per una visita ai genitori poco prima dell’inizio delle ostilità. L’assedio l’ha colto di sorpresa e costretto a rimanere qui. Un anno, poi due, ora è al terzo e lo si vede dalla pancetta che mostra per dire che non è più in forma: “Ecco come mi sono ridotto, – risponde Abdul-, niente più allenamenti o palestra. Insomma, niente più calcio e carriera. Niente più futuro o sogni per me!”, Così oggi trova sostegno facendo svariati lavori in città: “Niente d’importante, ma in ogni caso mi considero un privilegiato, giacché l’85% dei miei coetanei  è disoccupato. Ma qui hanno ucciso il mio sogno…”. Yunes invece ha chiuso il suo ufficio d’architettura due anni fa: “Nessuno ha più soldi per pensare ad una casa. Molte costruzioni infatti, sono ferme da tre anni. L’occupazione militare,  oltre ai morti ha causato un collasso di tutta l’economia locale. Nessuno va più a lavorare in Israele. Nessuno può andare o venire dall’estero. Chi vive qui ha solo un’idea fissa: sperare che l’assedio abbia presto fine!”. A far da padrone alla vita quotidiana, qui è sempre il coprifuoco imposto dai militari israeliani: “Non ci resta che obbedire – risponde sarcastico un commerciante-, così  invece di aprire il negozio restiamo a casa a fare figli. Io ad esempio, sono arrivato a sette: gli ultimi tre li considero come figli dell’Intifada, per metà miei e per metà di Sharon… ”

LA GUERRA  SEGRETA DEGLI ULIVI

Chi l’avrebbe mai detto che proprio gli alberi della pace diventassero bersagli di guerra?  L’ulivo è vita, ricchezza, bellezza. Vivono su questa terra prima ancora degli israeliani e palestinesi, ma oggi basta il rumore di un bulldozer per sradicare anche questa certezza: “Li rubano gli israeliani – accusa un contadino arabo-, che arrivano nei nostri campi con le ruspe e i camion per trasportare gli ulivi al di là del confine”.

Un confine per niente definito politicamente, ma già reale anche sul piano morfologico:  quello ebraico, è lussureggiante con i “moshav o kibbuz” dove l’agricoltura è un segno di eccellenza della promessa israeliana di “fare fiorire il deserto”. In Palestina invece, il terreno è aspro e il lavoro segue i ritmi agresti tradizionali. “Gli ulivi sono per questo il nostro unico tesoro. L’olio e il bene più prezioso che ora  ci vogliono rubare…” ripete l’anziano contadino.

E i segni di questo scempio sono visibili dalla strada: “In quelle buche c’erano i miei alberi, oggi finiti chissà dove?”.  Un dramma silenzioso che si piega dinnanzi la forza dei mezzi militari. Così finisce con l’essere “sradicata” anche la storia di questi vecchi contadini.

Così la guerra degli ulivi continua, ma la paura per i contadini della Palestina è anche un’altra: finire sotto il tiro dei coloni, proprio quando loro vanno  nei campi: “E’ successo – spiega il contadino – che israeliani degli insediamenti, abbiano ferito o ucciso nostri lavoratori mentre raccoglievano le olive.” Sangue tra gli ulivi, laddove la parola Intifada (cioè risveglio), si vorrebbe fosse più semplicemente un risveglio da quella  paura di morire tra gli  alberi della pace.

IL MURO DELL’APARTHEID

Cemento armato alto sei metri. Operai che lavorano sotto scorta armata, come è normale che sia in Israele per chi è impegnato in opere pubbliche. Qui si difende tutto, anche un muro che sta per nascere. Alto 6 metri e lungo complessivamente 350 chilometri, la nuova “barriera” che dividerà israeliani dai palestinesi, sarà tre volte più lungo e due volte più alto del “Wall” di Berlino. Da un anno (2004)  la sua costruzione prosegue inesorabile. Nemmeno nei colloqui di  Aqaba si è parlato del muro. Tutti lo osservano, ma pochi ne parlano. In tanto, il muro non sì ferma…

Dove il muro passerà, le ruspe spianano una striscia di terra  sufficiente per otto corsie stradali. Una barriera di cemento, che, forse, sarà  molto più di un divisorio. Un confine di Stato già deciso unilateralmente. Per ora nel bailamme dei dialoghi di a pace,  che qui nessuno sembra più seguire, è l’unica cosa certa e visibile a tutti. Tulkarem. Jenin o Gerusalemme allora, come Berlino? L’idea è quella, con la promette  di far diventare  tutto ciò il più tecnologico “wall” del mondo: fili elettrici, sensori, raggi infrarossi, fossati, telecamere, torrette saranno poste da qui al 2005 (data certa di fine dei lavori) , dove nessuno potrà avvicinarsi per scrivere sul  muro: shalom o salam.

VITA DA PROFUGHI

I profughi di allora, della prima Intifada, sono i vecchi di oggi. I figli di oggi invece, sono la memoria degli esuli di allora. Tutti però hanno in comune  il titolo di profughi. Ciò significa essere senza passaporto,  carta d’identità, ma  figli riconosciuti di  un passato storico che pesa sugli accordi di pace di domani. Oggi migliaia di persone che hanno trasformato le tendopoli in quartieri di cemento. Agglomerati di palazzi e case, facili  bersagli delle rappresaglie israeliane. Edifici mai terminati che dal ’48 ad oggi, sono parte integrante delle grandi città palestinesi. Dedali di stradine, di case porta a porta, di vite unite o separate da pareti quasi trasparenti, dove è rischioso avventurarsi da soli nella giungla dei disperati.

Là, dove macchina fotografica è vista con sospetto, come se fosse un arma: “Così gli israeliani – ci racconta una donna del campo di Jenin-, sono camuffati da giornalisti e fotografano. Poi, arriva l’esercito e porta via i nostri figli e colpiscono i nostri uomini.” La paura è anche quella di parlare o essere fotografati. I sospetti non mancano, anche se poi la diffidenza della gente spesso  viene superata davanti ad un caffè arabo. Qui nessuno può  programmare nulla:  giornalisti inclusi. Arrivare a Jenin, all’estremo nord della Palestina, vuol dire aspettare per ore al check-point militare.

La città viene costantemente riaperta e chiusa da ormai 135 giorni d’assedio totale, come ci dice al telefono  Belal Altaher che dirige il centro ospedaliero Patient’s Friends Society di Jenin. Lui arriva a prenderci con una ambulanza, spiegando ai soldati che siamo sotto la sua protezione. L’ospedale è il virtuale confine che separa il più grande e conosciuto campo di profughi di Palestina. Quindicimila le persone che ospita, buona parte dei quali sono sfollati del 1948. “Per la stampa israeliana si tratta di un covo di kamikaze…” ma per il dottor  Belal è gente comune che chiede di essere aiuta. “L’assedio ci sta sfinendo anche sul piano sanitario.

Negli ultimi mesi si sono ripetuti gli scontri armati e le risposte non si sono fatte attendere. Sono state colpite le stesse ambulanze, mentre  i carri armati non le hanno risparmiate schiacciandole come  fogli di carta.” Al centro del campo, una piazza sterrata sembrerebbe il centro del quartiere: “Qui invece sorgeva un anno fa, 200 case andate distrutte dagli israeliani  – risponde il dott. Belal-, lasciando solo polvere e macerie. Il massacro causò 68 vittime (stime palestinesi N.d.R) distruggendo 600 abitazioni e danneggiandone altre 400. “I carri armati non chiedono il permesso! Se vogliono passare, ti distruggono la casa, oppure la cucina o la stanza da letto”.“Sta calando la sera, è meglio tornare – ci raccomanda il dottore-, sappiamo per esperienza  che questo coincide solitamente con l’inizio del coprifuoco. In tre anni  sono stati bel 115 i giorni di isolamento totale che la gente di Jenin ha dovuto sopportare. Viviamo così, ma questa non chiamatela vita!”.

IL SACRO CHE CONVIVE CON IL “MOSTRO”

Un botto sinistro,improvviso, a pochi metri da me, squarcia l’atmosfera cittadina di Gerusalemme di un assolato meriggio di giugno, seguito da attimi di silenzio profondo in cui niente sembra potersi muovere. “E’ lui…”, si sente dire qualche istante dopo dalla strada. Poche parole per farti capire di essere caduto nell’inferno biblico della “Geenna”. Sono passate da poco  le 17 di mercoledì 11 giugno 2004 e la centralissima Jaffa Steet è affollata di traffico come sempre. Tanto viva quanto dannata: in soli due anni, dodici attentati e decine di morti. Un giovane palestinese  elude la sorveglianza travestito da ebreo ortodosso, mescolandosi tra la convulsa folla  del grande mercato Mahane Jehuda.

Impossibile distinguerlo tra la moltitudine omologata degli  ebrei ortodossi Haredin col cappello e cappotto  nero. Il giovane attende  l’autobus numero 14  sapendo  che avrebbe atteso una sola fermata, quella successiva, per compiere una strage in cui sarebbero morte 17  innocenti. E’ il solito macabro rituale del suicida-cacciatore in cerca della ignara preda seguendo il motto: colpire ovunque e chiunque. Il boato è sordo, paragonabile ad una scatola di fagioli con dentro un petardo, a tal punto che la deflagrazione spegne sul nascere  anche le fiamme spigionate dalla esplosione.  I vetri infranti delle finestre dei palazzi vicini completano la scena dell’orrore. Poi  d’ improvviso, il disarmante silenzio tipico di questi istanti.

Anche il tempo si dilata in quei brevi attimi. Sai di essere  passato di lì solo pochi minuti prima. Immagini di  aver sfiorato l’attentatore ed essergli passato a fianco.  Qui il dramma, porta l’espressione di tante  persone comuni. Comune come è spesso  l’attentatore, che compie un “rito” già tracciato da altri con la stessa vile dinamica di morte. A Gerusalemme c’è chi muore e chi vede morire. I commercianti del quartiere dal canto loro sono stremati. Alcuni hanno scelto di chiudere definitivamente l’attività: troppo duro e rischioso dover lavorare così. In quegli istanti, tu straniero non capisci o non  sai capire. E’ una donna ad urlare: “E’ lui…”. Prima ancora di vedere quanto è accaduto, sa già udendo quel suono sinistro che il “mostro” è tornato per strada.

Si va così ad orecchio anche per distinguere un attentato: per capire se si tratta di un autobus o uno sparo tra la folla. E’ l’abitudine a fare da maestra, tanto che  i commercianti di Jaffa street in questo si definiscono “specialisti”. L’autobus sventrato dista appena cento cinquanta metri. Dal silenzio al caos ordinato è solo questione di attimi. Tutto, anche nei soccorsi,  sembra essere già ampiamente collaudato e puntuale.

Il suono dei cellulari di chi chiama da casa copre quello delle ambulanze che fanno la spola  dai vicini ospedali.L’angoscia della gente qui si affida a quello squillo per sapere se sei vivo. “Via tutti…”, grida la polizia per paura che vi sia un secondo o un terzo attentatore, nascosto tra la folla come già dimostrato n precedenti attentati.. Arrivano i “rabbini” addetti alla pietosa raccolta dei brandelli di carne sparsi tutto intorno. Le ambulanze portano via i feriti. C’è chi grida e si dispera. Cultura religiosa e laica si mescolano in quella strada dove i cadaveri sono come corpi michelangioleschi. Morire per strada in Israele è una certezza quotidiana. Ma tutto passa  e per oggi le vittime possono bastare: “Almeno per alcuni giorni – risponde cinicamente un ebreo a pochi metri dall’attentato-, possiamo dormire tranquilli. Prima che tutto ritorni…”

L’ANTIDOTO AL DOLORE

C’è una cosa che la nostra televisione non ti può mostrare con le  immagini di un attentato kamikaze. Lo smarrimento che si prova sapendo che la tua vita è costantemente sotto tiro. Stress da attentato è la sindrome più comune. Devi così camminare osservando chi ti passa affianco. Evitare i luoghi affollati come pub o ristoranti. Sei perquisito prima di entrare in farmacia o in un supermercato. Il tutto in nome di una sicurezza nazionale che è “antidoto e malattia” collettiva. Già  alcune ore dopo l’ennesima strage, arrivano i mezzi per sostituire il prefabbricato in cemento e plastica che costituisce la fermata degli autobus. Sul posto rimangono per terra solo candele. Il giorno seguente, come se niente fosse successo qualche ora prima, riecco le persone sedute sul medesimo  posto dove si trovavano le vittime.

I bus tornano a circolare e le persone riempiono nuovamente i bistrò: “E’ la disperata voglia di continuare a vivere, nonostante tutto…” risponde una giovane commessa. Anche i giovani tornano nei loro soliti luoghi di sempre. “Ma il dolore rimane nascosto dentro. Invisibile ma presente in tutti noi.  I  17 morti di ieri non sono le uniche vittime innocenti di questo conflitto – ci spiega  Zehava  Vider, ebrea di 48 che ha perso l’intera famiglia in un attentato-, dobbiamo ricordarci anche di chi rimane in vita come testimone che porterà il peso della storia. Siamo noi quei testimoni violentati dalla morte e costretti a vivere. Noi siamo i famigliari delle vittime che aumentano il numero dei disperati futuri. Noi che siamo vivi…”.

IL DOLORE DELLA PACE

Due incontri straordinari che hanno in comune un fatto tragico: il padre  di un giovane kamikaze arabo, e la madre e moglie di una famiglia ebrea sterminata nello stesso attentato.

Lui è un anziano palestinese costretto a vivere con la sua numerosa famiglia in un angusto appartamento alla periferia di Tulkarem, dopo che la  sua casa di tre piani è stata distrutta dai buldozer  come rappresaglia israeliana, perché il giovane  figlio si è fatto esplodere compiendo una strage all’Hotel “Parking” di Netanya, un anno e mezzo fa. Sterminò allora 33 israeliani, ferendone 80 feriti. Fu uno degli attentati più efferati della Seconda Intifada,  non solo per l’alto numero di vittime, quanto per il particolare momento di festa che fino ad allora garantiva tra le parti una “tregua morale”. Zehava Vider, ebrea di cinquant’anni vive a Beqaot, un blindato e florido insediamento israeliano posto sulla sommità di una brulla collina sassosa, lontana cinquanta chilometri da Tulkarem.

Viveva lì con la sua famiglia, prima di diventare una testimone oculare di quell’attentato kamikaze che gli  ha decimato la famiglia: “Sono una sopravvissuta – risponde Zehava- , visto e considerato che oggi della mia famiglia siamo rimaste solo in due. Ho perso mio marito, la mia figlia più giovane, il mio futuro cognato e gravemente ferita l’altra mia secondogenita. Da  quel momento là,  la mia non è più vita…”. Due genitori e due testimonianze  a confronto, separati solo da check-point e un deserto che tra loro è sterminato più che mai .

IL PADRE CHE INNEGGIA AL MARTIRE

“Sono il padre di un “istishhadi”, un martire della resistenza palestinese e ne vado fiero -mi spiega subito l’anziano Abdel  Basit-, perché mio figlio sarebbe comunque morto per mano israeliana. Era ricercato dai servizi segreti solo perché tentava di fuggire a Bagdad per unirsi in matrimonio con una palestinese irachena. Otto mesi prima dell’operazione (l’attentato kamikaze Ndr.), mio figlio era scomparso. Da allora non l’ho più rivisto. Nessuno della mia famiglia  sapeva  quello che avrebbe poi compiuto a Netanya.” “E’ stata una sua libera scelta, immolarsi per la causa palestinese”. “Se me l’avesse chiesto – sottolinea il padre-, gli avrei risposto che questa non è una questione famigliare, ma individuale. Ha fatto quello in cui credeva di più!”.

“Non si può morire per una casa o per la terra – risponde Adlel Basit- , diverso è se lo  fai per il tuo popolo quando si trova oppresso da una forza militare che ci occupa da tre anni. Quello sì è un sacrificio che piace a Dio. I nostri martiri sono eroi e benché questo sia un onore, nessuno potrà mai più ridarmi la gioia di mio figlio.” “Eccolo Abdul, – dice il padre, mostrandoci le foto del manifesto che inneggia al suo martirio, in tenuta da kamikaze-, un ragazzo come tanti altri  che, come tanti altri, è rimasto vittima della prepotenza israeliana. Se questa è la “fabbrica dei kamikaze”- come dite voi occidentali-, è perché  a distanza cinquant’anni nessuno ha voluto porre fine alla nostra tragedia personale e sociale. Solo con i nostri martiri riusciamo a parlare e farci ascoltare per spiegare al mondo le nostre ragioni. E dire che tutto potrebbe finire immediatamente, se solo Mr.Sharon ritirasse all’istante il proprio esercito dalle nostre città. Scoppierebbe immediatamente la pace…”.

LA MORTE NEGLI OCCHI DELLA MADRE

Di quell’angelo della morte palestinese, Zelava Vider colona israeliana presente sul luogo dell’attentato suicida costata la vita a 33 persone, tra queste tre suoi famigliari, non ricorda assolutamente nulla: “Di quegli istanti – racconta Zelava Vider – ricordo solo il buio e la sensazione di bruciore nei capelli. Quel giorno, eravamo tutti seduti attorno al tavolo. Felici come lo sono le famiglie ebree durante la festa di Pasqua “Pesach”. Vidi un buio improvviso e pensai ad un guasto, pochi istanti dopo un barlume di luce illuminò il corpo completamente insanguinato di mio marito riverso sul pavimento. Vicino a lui mia figlia  col il suo fidanzato straziati, mentre la figlia maggiore ferita, rantolava dal dolore. Non sapevo il perché io fossi ancora in vita. Non sapevo cosa stesse accadendo e se quello fosse l’inferno in cui ero caduta”. Il suo calvario continuò nei giorni successivi l’attentato: ” I miei cari -racconta la donna- ,  morirono uno ad uno nei  vari ospedali di Netanya. Ebbi solo la fortuna che mio figlio quel giorno non fosse lì con noi. Si salvò solo una delle mie due ragazze, nonostante le gravi ferite subite. In un solo  attimo la mia vita è cambiata. La mia famiglia distrutta…”. “Oggi è solo il fanatismo di pochi che impedisce la nascita della vera pace – ammonisce l’ebrea Zehava-, io non odio i palestinesi per aver sterminato la mia famiglia. Semmai, non perdono quel palestinese. La colpa è soprattutto delle loro autorità politiche che si arricchiscono con i soldi destinati al popolo palestinese. Serve che l’Europa  controlli e fermi i finanziamenti destinati alle scuole, asili e ospedali palestinesi, fingendo di non vedere come quei soldi finiscano col finanziare la lotta armata e gli stessi terroristi. Ditemi perché il loro leader Mr. Arafat, è tra gli uomini più ricchi del mondo, mentre il suo popolo è ridotto alla fame?” “Alle mie domande, so che nessuno  mai saprà darmi una esaustiva risposta -sottolinea la madre ebrea-,  dopo che ogni mattina, alzandomi mi chiedo, perché? Mio marito ha donato gli organi, i cui reni sono andati ad una donna palestinese.  Ho incontrato quella donna araba. Ci siamo guardati e abbracciati. Ma non posso perdonare chi invece, festeggia offrendo cioccolatini per strada, ogni qual volta  un uomo semina morte. Se poi  dovrò lasciare questa terra in cambio della pace, sono pronta a farlo solo in cambio di una sicurezza vera.” “Posso immaginare quel suo dolore di madre e moglie – gli  risponde da Tulkarem l’anziano Abdel padre del kamikaze -, e gli vorrei dire che mi dispiace molto. Ma vorrei che sapesse come per colpa di uno, oggi gli israeliani continuino a  far ricadere le colpe su tutte le persone innocenti della mia famiglia. Sono cinquant’anni che preghiamo per la pace, senza che nessuno mai porga ascolto  alle nostre suppliche…”.  E se la pace arrivasse, gli chiedo: “Magari…” rispondono i due genitori con gli occhi che parlano più ancora delle loro stesse parole.

L’ESODO… DEMOGRAFICO

I numeri lo confermano. Anzi, le previsioni israeliane sono allarmistiche: entro il 2005 la popolazione ebrea sarà raggiunta, se non superata, da quella palestinese. Ciò vuol dire che presto in un territorio grande come il Nord Italia dovranno convivere quasi 9 milioni di persone divise a metà. Un problema  più che reale, visto l’impegno con cui stanno cercando di  dare una soluzione le autorità israeliane. Al continuo flusso di ebrei che fanno ritorno nella “terra promessa”, arriva il sollecito d’Israele che concede nuovi terreni per i rientri, soprattutto di ebrei russi. Per contro, è cresciuto il numero di cittadini che chiedono di lasciare il Paese. Basta  osservare la fila di centinaia di persona dinnanzi all’ambasciata americana di Gerusalemme, per capire  che vivere da israeliano non è cosa facile. Lo scontro è anche politico dove l’ala moderata accusa i conservatori di non volere la pace, considerandoli i responsabili  della fine di  Rabin. I conservatori  fanno invece appello a tutta la dialettica tradizionale per evocare i diritti sulla che essi hanno sulla loro terra promessa. Non a caso il “No” di Sharon  alla richiesta palestinese per la sospensione della costruzione del muro che dividerà in due il territorio, continua a fare il gioco del gatto e la volpe. Se da una parte la paura  per i palestinesi rimane quella della deportazione come ultima soluzione, da parte israeliana non ci sono sconti per la sicurezza in Israele sul piano delle trattative per il tavolo di pace.

A distanza di otto anni da questi racconti, Arafat e Sharon non fanno più parte della scena attiva della storia. Eppure, nulla sembra essere  cambiato per questi popoli. In quegli anni si auspicava l’uscita di scena dei  due antagonisti  politici per costruire la pace. Oggi che quella storia si è conclusa, la realtà mostra che nulla è cambiato e/o  s’intende  cambiare. Così la pace seguita a parlare la lingua delle pietre .

11 SETTEMBRE2001

di Antonio Gregolin                                                                    – testi e foto riservati-

ANTOLOGIA DI UNA TRAGEDIA

NELLE   STRADE DI NEW YORK

La verità è quella trasversale di tutte le guerre e tragedie: il tempo sana le ferite. Lo stesso è valso per il dramma che New York ha subito con l’attentato alle Twin Tower dell’11 settembre 2001.

Qui, dove tutto è volutamente amplificato e fa presto a rivestirsi di nuova trasgressione, ciò che resta del dramma profondo, lo trovi ancora per strada, dentro le famiglie o le coscienze dei singoli. La memoria affiora anche nei luoghi  dove i newyorchesi si mescolano con i cinesi, italiani, sudamericani, africani, pakistani e afgani: quelli  che qui chiamano il “popolo della city”.

“New York in fondo, conferma di non essere l’America… ma molto di più!”.Una città senza volto,  dalle mille facce, che oggi ha un dramma divenuto una “stigmata storica” che accomuna tutti in una anomala integrazione che abbatte ogni limite di quartiere, finendo col rendere uomini anche gli “homeless” che spuntano come ombre nella notte tra i vicoli della  Big Apples . Uguaglianze e capricci della storia che qui tange tutti, dal basso all’alto di una società vorticosa che si reputava invulnerabile. New York  si maschera, ma anche si dispera. Come capita a coloro che hanno oltrepassato la linea rossa della tragedia. Qui come in Bosnia, Ruanda, Afganistan, il dramma si ripete inesorabile anche per quello che gli americani definiscono come il “primo atto di guerra in patria”.

Questi sono gli stralci degli  articoli che ho scritto in quelle quattro settimane trascorse a NY dal 20 settembre alla fine di ottobre 2001.


IL CIELO SOPRA NY.

…Il Word Trade Center si mostra come un gran braciere dove si è consumato il sacrificio. Da poco sono stati spenti gli ultimi focolai, e la nube di fumo che i newyorchesi si erano rassegnati a vedere per settimane dopo l’11 settembre, si è rarefatta, sgombrando il cielo sopra New York. La cenere  è caduta per giorni e giorni come avvenne sessanta anni fa nelle città vicine ai campi di sterminio nazisti.  Anche lì, fu per pazzia di un uomo o degli uomini!…

HO VISTO IL MIO AMICO ANDARSENE IN FUMO”

Il cielo di New York  è tornato a farsi sereno, dopo settimane. Ma le coscienze sono rabbuiate, come quella della giovane romana Francesca De Graff,  di 28 anni, da tempo trasferitasi a lavorare a NY, che  mescola l’ansia ai  racconti di un amico che  se né “andato in fumo”. “In questa città -racconta lei- dove tutto supera le dimensioni umane e l’individualismo è quasi una legge, tre anni conobbi  fa un amico. Uno di quelli che incontri casualmente senza immaginare che diventerà uno dei tuoi affetti più cari. L’ultima volta che vidi Scott fu la fine di agosto, sette giorni prima dell’attentato.

Lui si  era sposato solo  poche settimane, e mostrava tutto  il carico di gioia che si portava in corpo. Era tornato a lavorare nel suo ufficio in una delle due Torri tre  settimane prima della tragedia. Ma quel maledetto mattino di settembre,  con un cielo terso come è oggi sopra i grattacieli di NY, lui non è scappato all’appuntamento con la morte”. “Così Scott non lo rivedrò più –racconta la giovane- , di lui non è rimasto altro che un pensiero su cui piangere”. Un ricordo strappato al dramma di molti altri: “Anche lui da settimane è  diventato un “missing”, uno dei migliaia di  dispersi tra quelle colonne di fumo”.

“Ancor oggi -conclude Francesca con le parole rotte dalla commozione -, non posso immaginare di aver respirato il mio miglior amico” dice guardando l’enorme groviglio di cemento e ferro che è oggi Ground Zero, osservato dal tetto di un grattacielo a pochi metri di distanza, dove siamo giunti eludendo la sorveglianza. “Essere qui equivale ad aver dato l’ultimo saluto a Scott!”. Francesca  inspira profondamente e poi lancia un bacio al vento. Quel vento dove ora riposa il suo amico di un tempo.

HAI IL TURBANTE? ALLORA SEI UN TERRORISTA”

Solo da poco Shuja Chughtai, pakistano di origine ed emigrato vent’anni fa in America, ha ritrovato il coraggio di rimettersi il turbante: “Subito dopo gli attentati -racconta l’anziano imam mussulmano che quotidianamente assiste i prigionieri nelle carceri-, centinaia di nostri fratelli sono stati arrestati. Le carceri di NY sono stracolme di persone trattenute per scopi cautelativi”. “Per strada ora la gente ci guarda con sospetto. Fin dai primi giorni dopo l’attentato  -ricorda l’Imam-, ci guardavano per via del turbante e della barba,  dicendoci senza troppo ritegno: “Terroristi!” “Da allora e per qualche mese ho preferito togliermi i segni distintivi, per evitare discriminazioni. Ho tolto il  turbante ma mi sono tenuto la barba. Oggi  a distanza di qualche mese ho ripreso le mie abitudini, anche se so che molte cose sono cambiate e credo che molto dovrà ancora cambiare per questa America, se vorrà continuare a vivere in pace con il resto del mondo. E sebbene questo clima di tensione ci faccia sentire tutti noi stranieri mussulmani come dei responsabili, è vero anche che se  questo fosse capitato in India ad esempio, ci avrebbero già sterminati tutti! Anche se sto meditando di andarmene e tornare nella mia terra, ripeto anch’io oggi e sempre “God bless America.”

QUEGLI ITALIANI “TRA LE TORRI”

…L’odore acre del fumo che si leva dalla voragine occultata dai grattacielo, arrivava  fino nel quartiere della vicina “Little Italy”. Una zona storica oltre che turistica, tra le più celebri. Roccaforte dell’italianità ora insidiata dalla predominanza della vicina China Town. Anche qui la crisi è evidente dopo l’11 settembre 2001, come sottolineano i molti gestori di ristoranti dai nomi italici, quali: Sorrento, Napoli, Palermo ecc. : “Qui – ci dice Franco G. di 47 anni calabrese, molti dei quali passati in varie parti del mondo e giunto dieci anni fa a NY per vendere sigari italiani e cubani-, il vero emigrante tipo è scomparso del tutto. Non ci sono più i poveracci che arrivano in cerca di fortuna. Chi arriva oggi, è semmai il laureato in cerca di  laboratori di ricerca o fondi. E’ il businessman in carriera, assai diverso dalla generazione che ci ha preceduto. Ormai qui sono quasi tutti di seconda generazione, sta  di fatto che dopo il crollo delle torri, niente è più come prima: sia per noi sia come gli americani. Per capirlo basta che lei metta il naso fuori di qua!”. “Il sogno americano, forse è finito per sempre…probabilmente presto torneremo a vedere le macchine di seconda mano. Spariranno molte limousine che  circolano per le strade. Già ora sono molti meno quelli che vengono nei ristoranti italiani e non solo…” “Dopo gli attentati sto pensando  di rientrare in Italia. L’America è una grande casa per  tutti, ma non è più il sogno di molti”.

IL VETERANO DELLA LITLE ITALY: “MAI VISTO NULLA DI SIMILE”

E’ seduto in un cantuccio del suo negozio tra santi di gesso e giornali italiani che vende ormai da più di settant’anni in una delle strade più note del quartiere italiano. Lui è considerato da tutti il grande vecchio degli italiani di New York. Figlio di immigrati napoletani,  Rossi Luigi ha oggi 91 anni e nonostante due bastoni che lo aiutano a camminare, non ha perso lo spirito del commerciante che “è qui da una vita”. Era seduto nella stessa sedia anche quell’undici settembre quando, sotto il crollo delle due torri moriva anche un suo nipote pompiere di appena trentacinque anni.

“E’ stato tremendo..” commenta il decano Luigi. “Nella mia vita ne ho viste tante, ma mai dovete credermi, ho vissuto una tragedia del genere.” “Credo  che da quel giorno anche la mia New York sia morta…” “Qui non passa più nessuno, vendi uno o due giornali al mattino, e poi aspetti che arrivi la sera.” “Ai miei tempi – racconta Luigi Rossi- eravamo tutti o quasi poveri; diciamo così che tutto era più facile. Oggi l’America è diversa….tanto diversa a tal punto che stento a riconoscerla!“.

SONO SCAMPATA AD UNA GUERRA, NE’ HO VISSUTA UN’ALTRA

Quando parliamo del futuro, Marisa Cerlieco di 62 anni, emigrata nel lontano ’69, esclama: “Sono molti anni che vivo qui. Ho fatto la mia vita  in compagnia di mio marito Edoardo e mai come ora  non vedo un futuro per noi..” Il suo è un italiano  che sa poco di americano e molto ancora di triestino. “Come posso dimenticare la mia Italia!” ci dice la signora Marisa. “In questi mesi purtroppo, sto rivivendo la mia seconda guerra, dopo che all’età di otto anni, scampai come profuga la provincia di Pola con la convinzione che per noi istriani e dalmati quello era un secondo Olocausto”.”Soffro terribilmente  per questa America che non si meritava questo affronto.”

“Quando ho visto le due Torri accartocciarsi, – ricorda la signora Marisa con gli occhi lucidi – mi è tornato alla mente tutto il mio passato che speravo di aver dimenticato.  Ho vissuto delle emozioni così intense  che, vedendo tutto quel dolore e disperazione ho cominciato a piangere. E’ stato terribile!”  “Mia nipote quel dannato giorno mi ha telefonato da Las Vegas per dirmi: zia sei viva? Cosa hanno fatto alla mia NY!”. “Vorrei  ricordare a coloro che continueranno a vivere in America, soprattutto ai giovani, di continuare a credere nelle radici  democratiche di questa terra, anche se so che questo è il momento peggiore della mia vita qui. Non per questo perdo il coraggio e la forza di dire agli italiani di non dimenticare la memoria della mia gente che combatté allora contro un’altra violenza perpetrata contro noi istriani e dalmati durante la guerra. Anche allora come oggi,  fu contro civili innocenti…”.

NOI RAGAZZI VISSUTI ALL’OMBRA DI UN SIMBOLO

Sono giovani  americani come ce li immaginiamo: in jeans, pallone da rugby in mano e gli immancabili cappellini alla moda (in questo momento vanno per la maggiore quelli dei pompieri di NY), sandwich e qualche sigaretta. Tra tanti anche una testa colorata di blu che si aggiunge ai diversi colori delle facce di questi giovani. I più sono cinesi, indiani, filippini, pakistani o irlandesi. L’universo dei giovani di NY continuano a  risponde agli stereotipi che ci ricordano la “Big Apple”. Tra loro c’è Alexis, una ragazza con un sorriso nascosto da un apparecchio. Alasm  invece, ha un velo nero che le inquadra  il dolce viso.

In comune hanno l’età, 17 anni, lo zainetto che portano sulle spalle e la città in cui oggi vivono. Ragazze come tante, se non fosse che quell’11 settembre loro  si trovavano  proprio nella scuola che sorgeva a pochi metri dal Word Trade Center. In pochi istanti, inconsapevolmente,  sono diventate da studentesse a testimoni. Hanno visto tutto dalla finestra della loro classe, spalancata come una pagina di storia: “Doveva essere un giorno di scuola qualsiasi, – racconta Alexis-, quando improvvisamente un forte boato ha fatto tremare l’intero palazzo. Le luci si sono spente, poi il fumo….”. “Dall’alto cadevano pezzi in ogni direzione – aggiunge Alasm,-,  come una pioggia di meteoriti. Fu allora che vidi cadere dalle torri persone simili a foglie…”. Un mese dopo, loro continuano a frequentare la stessa scuola anche se in un nuovo edificio non lontano dal “Ground Zero”. Tutte le mattine percorrono un tratto di strada dove i mezzi di soccorso si mescolano ai bus di linea e al traffico.

“E’ inevitabile  dopotutto  che oggi le nostre vite siano cambiate – mi risponde Alexis-, l’idea stessa dell’America è cambiata, così come il nostro amore per  questo Paese. Oggi anche noi ragazzi sentiamo uno spirito nazionalistico che non sapevamo di avere”. Basta però il rombo di un aereo, uno dei tanti che quotidianamente sorvolano New York per attirare l’attenzione di tutti. Un flashback che non ha bisogno di  giustificazione alcuna, ma  che passa presto  e fare tornare sui volti delle ragazze  il fresco sorriso:

“Nonostante la paura, raccontano loro, la gente  è ritornata nei grattacieli con la voglia di continuare a vivere anche se sotto di loro hanno l’enorme deserto di cemento  del WTC.”.“Qui a Manhattan mi sento sicura risponde Aslam che porta il velo della tradizione islamica-, diversamente sarebbe se vivessi nei quartieri come il Queens o Halem dove le diversità razziali sono più marcate tra le diverse comunità raziali. I miei compagni sono  stupendi, – afferma la giovane mussulmana-  e sebbene se in classe  sia l’unica con il chador, tutti sono stati molto comprensivi e solidali con me. Anche perché conoscono la comunità islamica da cui provengo. Qualcuno si è offerto addirittura di proteggermi per strada..” .

“Il  velo rappresenta il simbolo della mia fede, dei valori in cui credo”, risponde Alasm. “L’Islam  è contro ogni violenza compreso il suicidio messo in atto dai terroristi che ci hanno colpito. La loro è stata una visione  troppo restrittiva che ha escluso tanti altri insegnamenti che vanno contro ciò  in cui crediamo. Quello, non è il mio Islam! Non vedo il motivo di andarmene, New York è la città in cui voglio continuare a vivere anche dopo gli attentati”. Anche la sua amica Alexis è d’accordo : ” Oggi amo più di prima questa città. Sono nata e cresciuta  a NY ed anche se fino a qualche mese fa consideravamo l’ipotesi di poter frequentare l’università in altri Stati.

Oggi, sia io e molti della nostra scuola,continueremo i nostri studi restando qui.Ciò che ho vissuto spero non si ripeta più per nessuno altro al modo quello di cui sono stata testimone, ha cambiato in me il concetto stesso di vita e di vivere.Forse, sì, ci ha migliorato un po’ tutti…Abbiamo imparato a non dare più niente per scontato. Compreso che la vita può cambiare da un momento all’altro. A  essere diventati importanti sono i nostri stessi piccoli gesti  quotidiani. Banali, se volete, ma importanti perché non credevamo facessero parte di quella normalità che ci è venuta a mancare improvvisamente. Abbiamo così una comprensione più profonda della vita. Talmente profonda che capire questa nostra esperienza senza averla vissuta, è  impossibile!”.

“Anche i nostri sogni sono mutati – incalza Alasm-, spesso mi trovo a sognare una moschea in fiamme”.”Quando mi sveglio  – ricorda Alexis-, ho in mente gli aerei e la gente che fugge via. L’idea del rombo dei motori di quegli aerei che hanno sorvolato la nostra scuola per poi schiantarsi nelle Torri Gemelle. Questo mi perseguita  anche ora perché abito a pochi chilometri dall’aeroporto JFK  e sento costantemente quei rumori  dentro e fuori la mia testa”. Ma l’opinione che  hanno della guerra in Afganistan è una questione ancora più personale : “Per me – risponde la ragazza mussulmana – i bombardamenti  in Afganistan non fanno altro che peggiorare la situazione internazionale”.

“E’ ovvio -continua- che non posso non  nutrire simpatia per la popolazione inerme che lì viene colpita. Non ci si rende conto  che i bombardamenti non risolvono i problemi , semmai  finiscono per alimentare il terrorismo…” . Alexis ascolta e poi aggiunge: ” Io sono americana, dunque credo e spero che la guerra sia mirata a catturare i responsabili. Certamente non è volta a piegare il popolo afgano, ma sta di fatto che questa guerra è diventata per noi  un fatto  personale.  Per noi la guerra era l’immagine dei nostri soldati che combattevano all’estero, lontani dal loro Paese. Ora invece, riguarda un concetto più diretto che  tocca  tutti,  adulti e bambini” cosa  che in America accadde solo per la guerra in Vietnam!

“QUEL CAMBIAMENTO DI CUI NON SI PARLA”

L’intervista con il cardinale Egan, testimone dei fatti.

Il grande “braciere ” da qualche giorno ormai ha finito col bruciare tutte le speranze di restituire i corpi delle vittime. Sessanta giorni dopo il crollo delle due torri, sono stati spenti gli ultimi incendi a “Ground Zero”. Un segno di normalizzazione dopo mesi e mesi di afrore a cui la gente si era ormai abituata per “tornare a vivere una vita normale”come si augurava l’allora sindaco Rudolf Giuliani mentre passava il testimone al suo successore Judith Nathan. A fianco della città che vuol riscattarsi, resta quella sprofondata nel dolore delle migliaia di famiglie, degli affetti dissoltisi tra la polvere delle torri, a cui spesso non rimane altro che un oggetto su cui piangere Un cambiamento morale e civile che il cardinale Egan, arcivescovo di New York, ha riassunto in questa intervista all’ombra della cattedrale di S. Patrick nel centro di Manhattan. “Ogni situazione – spiega il porporato- , ogni dramma o evento in cui il vissuto passa attraverso  il dolore, è un’esperienza spirituale per tutti. In fondo, questo nostro dolore e la dimostrazione che il sangue come la speranza, non fa distinzione di razza o nazionalità. E’ un peccato che la stampa internazionale si sia lasciata sfuggire in questi mesi di cronaca, quelli che sono gli esempi di fede e i simboli di speranza più autentici  dell’esperienza umana dei cittadini  gente di New York!”

Nel suo recente viaggio in Italia, lei ha parlato di un esame di coscienza da parte di tutti gli americani?

“Quando mi chiesero se gli americani si fossero fatti un esame di coscienza,  risposi che sicuramente se lo stavano facendo, ma dissi anche  che il vero esame di coscienza non deve essere fatto solo in casi straordinari come questi, ma dovrebbe essere una pratica costante per tutti gli uomini di ogni nazionalità”.

Lei è passato da una  tranquilla diocesi del Connecticut a  guidare la  chiesa di New York in uno dei momenti più difficili della sua storia. Come ha vissuto questa esperienza?

Appena un anno fa fui inviato dal Papa a  guidare la chiesa newyorchese passando dalla tranquilla diocesi di Bridgeport, a quella più concitata e multietnica di New York. Pensavo fosse solo un  passaggio  istituzionale che presto mi avrebbe portato ad assumere le abitudini della grande città, visto anche le mie passate esperienze in altre parti del mondo, come i vent’anni trascorsi in Italia. Invece, mai mi sarei  aspettato di poter  diventare il testimone oculare di quella tragedia che ha cambiato le sorti  di migliaia di persone. Una lezione di vita che certamente sarà impossibile dimenticare!”

Quali sono i ricordi che ha della tragedia?

In quei giorni nelle ripetute visite alle rovine, osservando il lavoro della nostra gente che opera tra quelle macerie ho visto tante volte la santità. Dopo quei tragici fatti sono entrato in molte famiglie colpite dalla perdita di uno o più famigliari: uomini onesti che lavoravano per portare a casa il pane alle loro famiglie. Solo qualche giorno fa celebravo un memoriale di uno dei tanti pompieri dispersi e mai ritrovati. Ha lasciato cinque figlie e due ragazzi adottivi: due orfanelli arrivati dall’Irlanda. La sua era la vita normale di un padre di famiglia che da solo sfamava cinque bocche ed accoglieva due figli adottivi. Di lui ora non rimane che cenere; ma questo non importa a chi vuol solo parlare delle star di Hollywood o dei politici! Ma questa è solo una delle tante storie che viviamo quotidianamente nella nostra città, fatta ancora di persone.

Com’è  allora questa America di oggi?

E’  l’altra America di cui non si vuol mai parlare. Quella che vediamo nelle chiese,  tra le pareti di casa o nei confessionali. Insomma, quella gente  che vuol continuare a sperare con l’aiuto della preghiera. Tutto questo lo possono confermare i molti sacerdoti, anche italiani, impegnati nelle diverse chiese di New York, nelle strade o nelle diverse comunità.

Lei è stato tra i primi a giungere nel luogo del disastro, qual è l’esperienza umana e pastorale che oggi si porta dentro?

La mia esperienza in questi tre interminabili mesi è ricca di grandi e piccoli gesti quotidiani che mi riportano costantemente alla memoria quelle indelebili ore trascorse a pochi metri dalle Torri Gemelle. Quel giorno con l’aiuto di un poliziotto che abitualmente sosta qui fuori, raggiunsi quasi subito l’area del Word Trade Center. Lì c’era il caos più totale. Mi dissero di correre all’Ospedale di S.Vincenzo per accogliere i morti. Andai e mi trovai a fianco con un gruppo di soccorritori. Venni a sapere da un dottore che suo padre lavorava al centoquattresimo piano della Torre Uno. Ricordo d’avergli detto di andare a cercare subito suo padre. Ma la sua risposta fu decisa: “No -mi rispose il medico- devo rimanere qui!”. Qualche settimana dopo, fu lo stesso medico a scrivermi una lettera piena di sentimento e fede, in cui mi diceva che suo padre era un “missing”, uno dei tremila morti mai più ritrovati.”

Sul piano internazionale , secondo Lei come sono cambiati i rapporti dell’America con il  resto del  mondo?

Lasciamo da parte per una volta la questione politica o internazionale e fermiamoci a capire ciò che sta avvenendo dentro i cuori  della nostra gente! Per comprendere a fondo l’animo di questo popolo, che vive e lavora tra i grattacieli bisogna prima scrollarsi di dosso molti pregiudizi. C’è un’America di cui volutamente non si vuole parlare…

Per concludere, lei ha  sottolineato la nascita di un nuovo modello di santità. Quale?

In questo periodo ho avuto la grazia di poter vedere una quantità tremenda di santità. Forse laica, ma con una spinta che rasenta il soprannaturale. Ricordiamoci comunque che il dolore  così come il sangue, sono uguali in ogni parte del mondo. La nostra gente l’ha dimostrato e lo sta dimostrando con un impegno umano che richiede ancora un prezzo alto da pagare in fatto di sicurezza. So ad esempio, che  in molti casi ci persone che hanno lavorato come pompieri, ma anche come operai al Ground Zero, che sono tenuti sotto stretta  sorveglianza medica per colpa degli effetti collaterali causati dalla micidiale polvere che hanno respirato. Non sappiamo ancora cosa ci aspetta nel futuro..”, conclude il cardinale di New York, lasciando intendere che molta della strada tracciata dalla nuova santità deve essere ancora percorsa.

L’ALBUM DELLA MEMORIA