TONI “STINCA”: CREATORE DI GNOMI

di Antonio Gregolin                                                                          -testo e foto riservati-

“STINK”  CREATORE DI GNOMI

Del vecchio “Geppetto” degli gnomi, oggi  resta solo il ricordo. E’ morto qualche anno fa all’età di 87 anni, ma il ricordo degli incontri nella sua bottega di montagna, profuma  ancora di leggenda.  Il suo esempio  ridà speranza a chi crede che “quanto la realtà ci nega, la fantasia ce lo regala”.

Ce stato una volta …” un vecchio e robusto signore di montagna, avvolto in un cappottone con una vistosa pelliccia di lana ingiallita, e l’espressione pacifica da saggio montanaro. Il suo nome era Antonio Vanzo, ma nella piccola frazione di Masi di Cavalese in Val di Fiemme, tutti preferivano chiamarlo come  Toni detto “Stinca”. La sua  fisionomia  somigliava  a quella del grande gnomo di legno che sembrava essere stato messo lì come custode  del suo maso poco distante dal piccolo centro abitato. Da nonno in pensione, Toni coltiva la sua  creatività, scolpendo faccette di legno che servono poi a decorare le case del borgo montano, come le camerette dei bambini, con un tocco di autentica magia.

I boschi di conifere, le alte vette frastagliate delle montagne appena innevate, i profumi e colori  di questi luoghi sembrano già di loro un incanto, con suggestioni che tentano di sopravvivere alla modernità. Che sia perché le case sono tutte ornate, oppure perché qui ancora si favoleggia che in questi luoghi siano frequentati  da gnomi dai nomi stravaganti, la realtà ha il sapore d’altri tempi. A pochi passi dalla piccola chiesa del paese, i rumori sono quelli tipici dello scalpello  sul legno che ci indirizzano sicuri verso il laboratorio dove il vecchio scultore crea i suoi personaggi. Un bugigattolo ricavato al pian terreno del vecchio maso  di legno, angusto  perché  in ogni angolo sono stipate cassette con pezzi di legno pronti a diventare fantastiche sculture.

Così doveva essere anche la bottega di  quel “mastro Geppetto” con il medesimo profumo di resina del legno con cui fu fatto Pinocchio.  Ma questa è un’altra storia, qui l’artigiano-scultore ha gli stessi tratti somatici delle sue creature lignee. L’abilità e la velocità con cui nonno “Stink” realizza le piccole opere è pura maestria. Gli basta un’occhiatina, ed ecco che dal legno con pochi colpi di scalpello e un tocco di colore si affiorano due vispi occhietti , un naso tozzo e una crespa barba bianca, da trasformare un ciocco  di legno in gnomi di montagna. Da ormai vent’anni quello che è diventato il suo nuovo mestiere dopo essere andato in pensione, lo tiene incollato al banco di lavoro per molte ore al giorno, con una tanta dedizione che per smuoverlo “bisogna chiamarlo più volte” come mi raccontano i figli. I rami grezzi  accatastati, vengono  raccolti nei pascoli d’alta quota durante gli alpeggi del bestiame, caricati sulle gerle e portati a spalle fino a valle per poi essere consegnati a nonno “Stinca”. Tutto nasce lassù tra le irte vette, per poi per essere modellato quaggiù dal fabbricante di gnomi. Nulla di questa fantastica filiera di uomo-natura sembra essere contaminato dalla modernità, e l’equilibrio sembra una regola cui si adatta anche lo scalpello nelle mani del vecchio artigiano. Così, prima ancora che il sole faccia capolino tra le vette, Toni è già al tavolo di lavoro per dare vita alle sue creature, “che hanno il potere di liberare la fortuna e la fantasia” come spiega lui. Le antiche favole di queste valli nonno”Stinca”se le ricorda tutte a memoria. Ma non è facile farsele raccontare, come se  temesse che i fragori della modernità arrivata quassù coi turisti, possa rubare il senso magico di queste valli.

All’inizio si mostra timido e diffidente, ma poi prende coraggio e inizia a raccontare con la proverbiale calma da montanaro, di quando suo nonno gli parlava degli “spiritelli” che tenevano compagnia ai boscaioli: “Storie vece -dice lui- ma anca tradision che non deve morir...”. Quelli erano i tempi in cui si credeva  che: “Fortunato sarà  chi la punta di un cappello di uno gnomo toccherà!”. Si raccontava che le minuscole creature dei boschi lasciassero i loro ciuffi di barba (lana delle pecore, ndr) tra i rovi e venissero raccolti dai boscaioli come segni per la buonasorte. Dettagli che il vecchio scultore ha bene in mente, centellinando le parole come perle preziose di saggezza e tradizione. Sorride solo quando gli chiedo se non ha mai incontrato davvero uno di questi gnomi?”.  “Ah, ah, ah! Gli gnomi sono nella nostra mente -risponde lui- e sopravvivono nella cultura di chi rispetta il bosco e ciò che esso rappresenta”. Un’affermazione che dischiude un mondo: il suo e quello del bosco da cui proviene.

Un messaggio ecologico, da profondo conoscitore della natura che spiega  il perché oggi la fantasia venga meno anche nei bambini, conseguenza della distruzione del regno naturale. Scolpire il legno per il vecchio Toni è un’arte che gli è stata insegnata da uno scalpellino della zona, quando ancora era bambino. Ma i veri segreti della scultura li ha soprattutto appresi lavorando come boscaiolo tra  queste valli: “E’ dentro il fitto dei boschi -spiega lui-, che ho imparato a conoscere l’anima del legno col suo linguaggio”. Segreti che sembrano giacere dentro il suo piccolo laboratorio pregno di leggende e profumi di resina, dove nascono una miriade di piccole figure, destinate ad entrare nelle case di bambini italiani e tedeschi.

Tra una pausa e l’altra si concede pure uno “snack” antico” a base di radici di genziana e pinoli di Cirmolo. Roba forte da uomini duri, ma che conservano un animo dolce come il legno di quella conifera che cresce solitaria tra gli alti pascoli di montagna. Un gusto incisivo che da queste parti serve a ricordando che chi beve questo liquore può campare fino a cent’anni. Sarà, ecco perché sorseggiandolo fingo di crederci anch’io. Toni da parte sua ne è quasi certo! Quella del vecchio fabbricatore di gnomi della Val di Fiemme è una giornata che si chiude non prima aver ritoccato e sistemato sulle  cassette le opere ormai concluse, nell’attesa che sia poi il vento asciugandole, a dagli l’ultimo afflato di fantasia. E’ un lavoro fatto a due mani: quelle dell’artigiano e le forze naturali. Ecco perché ogni scultura ha una sua unicità, ma un medesimo, segreto, messaggio: “Imparerai più nei boschi che dai libri…”. E ora che lui  è come un vecchio  albero, i segni del tempo  sono come un libro aperto.

Quella di Toni Stinca è una passione che ha contagiato anche i due figli, decisi a seguire le orme del padre. La sua è diventata una famiglia che ha fatto della fantasia un mestiere, e oggi che Toni non c’è più, l’eredità fantastica dell’artigiano è tramandata ai figli, impegnati a mantenere viva la tradizione sugli gnomi. Quegli stessi nati dal legno dei boschi della Val di Fiemme , cui il buon Toni infondeva un’anima antica da renderli quasi veri.

CHE TEMPO CHE FA O FARA’?

di Antonio Gregolin                                               -© riproduzione vietata di testo e foto-

NOI “PROFUGHI AMBIENTALI”?

Intervista con lo scienziato di “Che tempo che fa” sul dissesto idrogeologico e ideologico nazionale.

Luca Mercalli è il  climatologo con la  “farfallina” di “Che tempo  che fa” su RaiTre. Il  “filosofo del tempo” com’è  stato definito, è prima ancora uno scienziato (Presidente della Società Meteorologica Italiana) che da anni porta a conoscenza del grande pubblico i rischi degli effetti climatici sulla nostra quotidianità. L’abbiamo raggiunto nel suo rifugio-ufficio in Val di Susa, per discutere sull’alluvione che ha travolto il Nordest, e lui ci parla subito di “sfollati ambientali”.

Ma la questione può estendersi a tutto il territorio nazionale, ormai in perenne emergenza idrogeologica (e ideologica!?). Mercalli non è nuovo a queste definizioni, visto che da anni in video come nelle conferenza scientifiche enuncia con dati alla mano, un numero crescente di fenomeni che causano “sfollati, profughi o scampati” per le mutazioni climatiche.  Per il meteorologo non vi sono dubbi, rincarando la dose sui rischi futuri se non si rivede lo sfruttamento del territorio italiano , prossimo al collasso.

Perché associa l’alluvione veneta ai fenomeni  di dissesto nazionale, definendoli come l’ovvia conseguenza “naturale” dei nostri comportamenti ?

Non lo dico solo io da povero scienziato, è la storia scritta sui libri che dal 1200  ad oggi ci dimostra che fenomeni più o meno eccezionali sono ciclici quanto naturali. Con un’aggravante moderna che dagli anni’70 ad oggi, che chiamiamo  “impronta ecologica”,  si è fatta eccessiva quanto devastante. Questa rende esplosiva la situazione, al punto da trasformarsi ormai in calamità nazionale. Basti vedere i danni e i costi che ciò comporta. Questo mio è un discorso che puntualmente rimarco quando sto televisione. Ma come vede, tutto passa e pochi ti ascoltano in questo Paese. Le faccio u esempio pratico:  giusto il sabato prima della alluvione in Veneto, davanti a tre milioni di spettatori, dissi che il 2-3 novembre scorsi ci sarebbe stata una situazione delicata con forti piogge con rischio di esondazioni. Poi dal dire al fare, si sa che la gente oggi preferisce vedere il Grande Fratello che ascoltare un’allerta meteo! Dico di più, chi come me fa questo mestiere e cerca di farlo con la massima serietà scientifica oissibile, oggi viene recepito come uno che porta “sfiga”! Immagini lei dover lanciare un appello come quello che prediceva l’arrivo di una vasta perturbazione generata dalla depressione «Xanthippe», così battezzata come è uso da oltre un decennio dall’Istituto di Meteorologia dell’Università di Berlino, che ha scaricato sul nord Italia tra cento e duecento millimetri di pioggia in due giorni, con picchi di 400-500 mm sull’alto Vicentino. L’effetto è stato quello che non c’è stato alcun tipo di allerta e tantomeno prevenzione. Cosa questa che contraddistingue gli italiani dal resto dell’Europa!

Questo alimenta i dubbi di  chi dice che “il disastro  (come molti disastri italiani  dal Vajont a oggi), possono  essere evitati”?

Sia chiaro che come scienziati noi studiamo l’entità del fenomeno, ma non la localizzazione precisa. Definiamo l’area, ma è estremamente difficile individuare quali città o paesi saranno colpiti. Ciò non toglie che un’allerta non vada mai sottolineata. Questo è un Paese dove nessuno si prende le responsabilità per il “procurato allarme” qualora il fenomeno non si verifica con precisione. La scienza su questo lascia dei margini di errore geografico, non meteorologico.

L’evento che vi ha colpito, tuttavia non è stato eccezionalmente intenso, capita più o meno ogni anno. Anzi, ormai di situazioni alluvionali vengono registrate mensilmente su tutta l’Italia e la stampa né da costantemente notizia. Perché allora siamo sempre qui a stupirci di fronte alle vittime e ai danni? In effetti nubifragi, frane e alluvioni fanno parte, dalla notte dei tempi, della naturale dinamica del territorio e sempre ci saranno, qui come altrove. È la nostra vulnerabilità che si è accresciuta, a seguito di una dilagante cementificazione fondata su un approccio di dominio sull’ambiente piuttosto che di convivenza.

Sta arrivando al dunque: la natura mette il suo, ma l’uomo fa ancora peggio?

Sono stanco di ripeterlo: la natura concorre, ma siamo noi ad intervenire nelle forme peggiori contro il territorio che poi si gira contro. Il peggio è che davanti a queste catastrofi, noi seguitiamo  a essere ciechi e  sordi. Lei sa che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire… e la natura questo non lo dimentica!

Significa che  gli italiani  sono sordi e ciechi  intenzionalmente?

Assolutamente, sì! Da una  parte esiste una  componente educativa,  imposta da un modo errato di progettare, gestire il territorio come fossimo dei predatori. Dall’altra mettiamo la componente politica che è ottusa su questi temi, e il disastro quotidiano è servito! In fondo, ci comportiamo con l’ambiente come fanno i fumatori davanti ad un pacchetto di sigarette anche se vi è scritto: “Nuoce gravemente alla salute”. L’esempio mi pare chiaro!

Tutti colpevoli dunque?

Andate a spulciare tra i libri di storia! Anzi, basta leggere le pagine degli atti del convegno che si tenne a Vicenza nel 2004 su “Consumo del territorio” per capire che era già tutto scritto. E questo per quanto riguarda una provincia, immagini lei  quanto è stato scritto, ma resta inascoltato,  sulle restanti provincie e regioni d’Italia!

Tutto prevedibile?

Quando manca –ed è mancata- è un’etica del costruire, programmare e pianificare. Da noi la questione è cronica. Diversamente, se ci fosse una pianificazione razionale che sposa la scienza con lo sviluppo, molte cose si potrebbero prevedere. Ma questa è L’Italia!

Può offrire delle soluzioni?

Come risposta, vi voglio  consigliare un film che  potete vedere direttamente  su internet: www.il  suolominacciato.it . C’è  di che riflettere! La ricetta  internazionalmente poi affinché le forti piogge facciano meno paura sarebbe: 1) una più saggia pianificazione urbanistica con drastico blocco della nuova edificazione, evitando il rischio delle città allargate; 2) una coraggiosa rilocalizzazione degli abitati in zone a rischio, come ha fatto il governo francese nelle aree costiere inondate dalla tempesta Xinthia dello scorso febbraio; 3) un fondo assicurativo obbligatorio sui rischi naturali; 4) un programma a lungo termine di manutenzione idrogeologica capillare e diffusa in luogo di grandi opere di canalizzazione e arginatura che spesso producono un senso di falsa sicurezza e aprono la strada a nuovi insediamenti edilizi; 5) martellanti programmi educativi di prevenzione, nelle scuole e in televisione: si abbia il coraggio di spiegare alla gente in prima serata come ci si deve comportare in caso di emergenza; 6) potenziamento dell’infrastruttura di previsione meteorologica e protezione civile, incluse esercitazioni. È probabile che in futuro i cambiamenti climatici proporranno precipitazioni ancora più intense: una ragione di più per attrezzarsi e cominciare a ragionare, per salvarci.

E intanto, si seguita a dare  forza al partito del cemento…

Così va l’Italia! Vorrei solo che a fronte di questo nuovo mostro mi trovaste un sindaco, un ingegnere, un progettista, disposti ad andare da un notaio per sottoscrivere la propria responsabilità qualora l’edificio andasse sotto acqua. Lei crede che  esista uno così coscienzioso?  Magari, e ve lo dico da italiano!

SCATTI DI  MEMORIA

Le seguenti immagini fanno riferimento alla recente alluvione  nel Veneto) dal 1 nov al 25 dic 2010

L’INDIANA JONES DELLA CAROTA BIANCA

di Antonio Gregolin – testo e foto riservati-

CHI CERCA TROVA…

LA CAROTA BIANCA

“L’indiana Jones” vicentino che fruga  tra i quadri dell’Arcimboldo in cerca di antichi sapori.

Chi cerca, prima o poi qualcosa trova…” e poco importa se al posto di un autentico tesoro, vi è un’antica carota che si credeva ormai persa! Almeno che non si senta cultori e ricercatori gastronomici, come il vicentino Giancarlo Rizzi, 55 anni di Monticello Conte Otto (Vi),  che ha ritrovato un  sapore antico, che rasenta una scoperta al limite con l’archeologia.  Un archeologo del gusto come Rizzi da oltre trenta anni fa della sua cucina una indomita passione verso la vecchia tavola. E’ con questo suo spirito che da anni  lui va esplorando i segreti della cucina popolare, che l’ha portato fin dentro i quadri dell’Arcimboldo, celebre per le sue “naturabilie” vegetali. E’ tra quei vivaci colori che il gastronomo vicentino ha notato la presenza di un ortaggio che ormai lui stesso reputava perso. Un’operazione da vero e proprio “giallo”…gastronomico!

Da quasi due secoli –racconta l’oste Giancarlo, davanti ad un gustoso piatto di ravioli ripieni di carota bianca-, di questa verdura si erano perse le tracce. Ricordo che nel 2004 stavo conducendo una ricerca gastronomica sulle ricette ai tempi del Palladio. In molte di queste spuntava il nome di uno strano ortaggio bianco sconosciuto ai più. Rivolgendomi a professori, botanici, esperti di cucina  sono arrivato ad un nome: “Pastinaca Sativa”,  grande pianta biennale che fiorisce al secondo anno con un lungo fittone bianco che poco ha a che fare con l’altra arcinota carota arancione “Daucus Carota”. Era lei la verdura che stavo cercando ritratta nei quadri che studiavo!” Era proprio la bianca carota che in Italia si voleva estinta. Per il cuoco fu una  folgorazione, e si mise sulle tracce per trovare le piante.

“Cercavo soprattutto i semi. Così cominciai a frequentare fiere nazionali e internazionali e convegni di orticoltura, comprese le ricerche  in Internet”. Molti gli rispondevano confondendola però con la radice del radicchio. Altri col “daikon” giapponese. Ma della carota bianca nessuna traccia. Fino al 2004, quando dall’Austria un grossista di verdure gli diede una risposta che per lui fu un segnale di speranza: “Certo, la carota bianca noi la coltiviamo, ma non possiamo darle i semi…” gli rispose il grossista. Bastò uno scambio di foto e informazioni per capre che la scoperta aveva dato frutto: “Finalmente –aggiunge il cuoco vicentino-, avevo trovato la carota che cercavo!”.

La storia negli ultimi due secoli l’aveva fatta quasi cancellata dalla nostra memoria: “I vecchi scrollavano le spalle non appena gli chiedevo se conoscessero questo genere di carota. Insomma, sapevo che c’era, ma qui nessuno l’aveva mai assaggiata o vista addirittura…”. Tutta colpa -pare- dell’avvento di quella arancione, importata dall’Olanda, dove si vocifera fosse stata ibridata  per omaggiare la potente famiglia degli Orange (arancio in francese). Quest’ultima precoce, colorata e di rapida crescita, ne facilitò la diffusione  facendone un simbolo della cucina mondiale. La ”bianca” invece, più ingombrante e con una radice grossa e albina che si diparte dalla radice in molte altre piccole tubercoli secondari, ha un sapore decisamente più delicato, e in questo caso meno fortunato!”.

Così in pochi anni il  mutare del colore delle carote modificò prima la vista e poi   i gusti di molte ricette tradizionali. Era una svolta gastronomica tale che, quella che anticamente per l’imperatore Tiberio “non doveva mancare nella sua tavola”, stava diventando un ortaggio  sempre più marginale, che presto sarebbe stato dimenticato. Era la fine della “gloriosa” carota bianca? Macchè, piccole coltivazioni sopravvissero qua e là in molti scampoli d’Europa. In Austria, Germania, Ungheria, Francia e Spagna la si può ancora trovare, seppur con difficoltà, nei mercati. In Italia, purtroppo è del tutto scomparsa, fino a quando “l’investigatore” Rizzi ne ha recuperato la memoria, il gusto e la forma. Il difficile   fu però reperirne le sementi: “Chi le aveva –sottolinea il cuoco vicentino- se li teneva gelosamente; finché, in  Francia, trovai chi fu disposto ad offrirmene una manciata”.

Quel piccolo “tesoro” arrivato in Italia  venne subito interrato dal Rizzi: “Quattro contadini  del mio paese  si offrirono per l’esperimento di coltivazione. Trascorsero dei mesi senza vedere alcun progresso. Tre contadini abbandonarono sconsolati l’esperimento. Il quarto, seguito costantemente  dalla mia speranza di ricercatore, nel 2006 poté avere la sorpresa  di vedere spuntare finalmente le prime pianticelle tanto desiderate. Ricordo che mangiammo qualche mese dopo le prime carote bianche con curiosità e altrettanta soddisfazione. Lasciammo in terra solo alcune piantine per assicurarci  i semi…”. Fatta la scoperta e recuperato l’antico e originario ortaggio, la fantasia culinaria di Giancarlo che fa il cuoco dall’età di quindici anni nella cucina del ristorante di famiglia, si è sbizzarrita. Piatti  con carota bianca entrarono nel menù fisso, e per lui e la sua carota bianca fu una rivincita…”. Convinti gli agricoltori locali, oggi si pensa ad una produzione che possa permettere di arrivare fin sui banchi del mercato provinciale e regionale. La scoperta di Giancarlo è stata poi riconosciuta dalla stessa Municipalità di Monticello Conte Otto, tanto da ricevere il marchio di garanzia di prodotto  “De-Co” (Denominazione Comunale). Primo passo per un investitura più ampia a livello nazionale. Ma il cuoco non si è fermato qui: convinto che la carota bianca fosse ancora presente nel suo territorio, avviò delle ricerche ancora più serrate.

Conoscendone  foglie e proprietà, mi sono messo a cercarla nei luoghi selvatici più sperduti del mio territorio. Finché un bel giorno, in un ansa del fiume Brenta (Pd), ecco spuntare quello che  andavo cercavo: “Era un esemplare di carota bianca selvatica!”. Appagato, il ricercatore attese la sua fioritura per recuperarne i semi: “Ricordo che custodii la pianticella come un reperto storico…”. Il futuro della carota bianca sembra così meno incerto, grazie alla dedizione di un cuoco che ha studiato l’Arcimboldo per cercare quel prodotto che oggi troneggia tra i suoi ingredienti e ha reso celebri i suoi menù. Quella che si credeva scomparsa, in realtà -come tutte le cose selvatiche-  si era solo fin qui nascosta alla nostra travolgente modernità.