STORIA DI UN “BIOSOGNO”

 

Di Antonio Gregolin                                           -copyright2011 testi e foto riservati-

“HO UN BIOSOGNO”

Nel veronese c’è il più grande vivaio di piante biologiche d’Italia e tra i primi in Europa, frutto di un sogno di un tecnico agrario che tornando  alla terra, ha voluto  carpire i segreti delle difese naturali delle piante, per poi produrre frutta naturale.

Mani grosse da contadino, cervello fino da ricercatore e una traboccante passione per le sue piante da frutto “biologiche”. Sì, perché ascoltando Alessandro Cavaler, 62 anni di Isola della Scala (Vr) dove svolge la  professione di vivaista fuori dagli schemi, prima di vedere i meli, peri, uve, ciliegi tutti biologici, si viene catturati dalla sua ammiccante filosofia di pioniere “naturale”, che l’ha portato a diventare il più grande produttore ed esportatore in Italia di piante da frutto, resistenti alle malattie. In poche parole: “alberi che non richiedono trattamenti chimici che producono frutti biologici”. Per molti resta un sogno, ma che dal 1973 è diventata una realtà per la famiglia Cavaler. Chi scrive ha raccolto personalmente la sfida otto anni, quando piantai una cinquantina di mele “Sansa, Florina, Golden Rush, ecc. nell’orto  di casa mia. “Nessun trattamento –mi disse allora un Cavaller un po’ più giovane-, semmai solo un po’ di solfato di rame e niente più! Vedrà che pomi”. Gli ho visti eccome, anzi evitando anche il verderame, e da agosto a ottobre mi gusto mele completamente naturali. Un piacere bucolico oltre che pratico: un’esperienza quella di poter raccogliere mele direttamente dall’albero, che ai più sembra un rito  d’altri tempi e non da supermercato.

DA TECNICO DI LABORATORIO A PRODUTTORE “BIO”

Il “miracolo” di Cavaler, quello cioè di coltivare piante resistenti che non richiedono trattamenti  chimici, non è però il risultato di una modificazione genetica, come viene facile pensare.  “Niente genetica –afferma Cavaler-, ma più semplicemente una selezione di cinque varietà differenti, innestate su un ramo di Malus Fluribunda, ovvero,  melo selvatico”. Facile a dirsi, meno a farsi, tanto che il Cavaler forte della sua esperienza giovanile come tecnico presso l’Osservatorio per le malattie delle piante di Verona, allora fu colto da un dubbio che diventerà poi la sua e nostra fortuna: quella di combattere gli insetti con altri insetti, evitando la chimica.  “Elementare, basta vedere come si comporta la natura”. Un principio che gli aprirà la strada e gli occhi ad nuovo modo di fare e pensare l’agricoltura.

Così dopo aver sperimentato da sé i promettenti risultati degli incroci fatti negli anni ’70 dai giapponesi che avevano prodotto l’ormai famosa varietà di mela “Sansa”, e gli americani e francesi con la varietà “Florina”, tutti con ottimi risultati di resistenza ai parassiti, Cavaler chiese e ottenne l’autorizzazione di  coltivare e riprodurre  anche in Italia queste varietà.Ma com’è possibile che un tecnico, avvezzo ai metodi ufficiali, possa trasformarsi in un pioniere del biologico italiano? “Semplice -afferma lui con la saggezza del vecchio contadino-, basta usare gli occhi, il cervello, e la sensibilità verso ciò che poi mangiamo. Prima di lui il filosofo Ludwig Feuerbach aveva detto: “ Noi siamo ciò che mangiamo”, e oggi l’azienda Cavaler è un microcosmo dove il naturale è una questione di stile, di pensiero che diventa qualità e salute .

CONOSCIUTO ALL’ESTERO,  MA POCO IN ITALIA

E’ il solito discorso del “nemo profeta in patria”. Così Cavaler finisce con l’essere conosciuto molto all’estero ma poco nella sua Patria. Se c’è poi da immaginarsi un futuro per la nostra agricoltura, viene da sperare, guardando al panorama europeo, che una delle possibili strade passi proprio dalla volontà e qualità di figure come Cavaler. Da questa sua conduzione famigliare di vivaio che produce 100mila piante l’anno, di cui oltre la metà destinate a paesi come la Germania, Ungheria, Bulgaria: “Solo l’anno scorso –spiega il produttore-, abbiamo prodotto e piantato per conto della Rigoni confetture di Asiago, leader delle confetture biologiche in Europa, oltre 600mila meli per le loro coltivazioni “bio” in Bulgaria. La contagiosa passione di papà Alessandro, da anni sta occupando anche il figlio Roberto, cui ora è affidato l’intero comparto estero:  “E’ sempre un fatto di cultura –replica il figlio Roberto-, così è paradossale che noi produciamo piante in Italia per poi esportare all’estero, da cui verrà il cibo naturale destinato al nostro paese”. Atteggiamento che qui si scontra con il commercio globale, ma soprattutto con gli interessi delle multinazionali della chimica.

Su questo Cavaler fuga ogni dubbi ed esterna i suoi dubbi:“Vi pare mai possibile che i nostri contadini pur sapendo che esistono varietà di alberi resistenti alle malattie che necessitano pochi trattamenti che favorisce il risparmio economico, offrendo cibo genuino, non intraprendano ciò che all’estero per molti coltivatori è già una felice realtà? Dietro questa idiosincrasia ci sono gli interessi mal celati dei signori della chimica che vedendoci come dei pericoli, fanno quadrato attorno ai contadini e al  mercato”. “C’è poi il fatto che noi italiani siamo stati educati dalla pubblicità a magiare prima con gli occhi e poi con la bocca, senza immaginare cosa realmente fagocitiamo. Il risultato sta tutto sugli scaffali dei supermercati: mele gialle e rosse prodotte in “batteria”, senza difetto e con un gusto indecifrato. Ai nostri consumatori, alla fine importa poco sapere come si  arriva a questi risultati! E i produttori dal canto loro, stanno bene in guardia a non svelarne i loro intrallazzi chimici. Non dicono che si arriva a fare venti trattamenti delle mele per completare la filiera dal  campo al banco . Se noi siamo andati fuori dagli schemi commerciali  è perché vogliamo essere certi di ciò che i nostri figli mangiano!”.

“CONTA SOLO CIO’ CHE MANGIAMO”

Ma il popolo più “esteta” d’Europa, cioè gli italiani, stanno cambiando. Effetto crisi, volontà di tornare al gusto genuino o presa di coscienza dei consumatori, sta di fatto che da noi il “biologico”  sta galoppando. “In realtà, corriamo da oltre venti anni –spiega il padre Alessandro- e lo faccio da quando solo e senza tanti aiuti economici, ho abbandonato il laboratorio per trasformarmi in coltivatore e produttore. Da allora la mia meta non è mai cambiata, e posso dire oggi che i miei sogni stanno diventando finalmente realtà! Certo, l’Italia fatica a stare al passo dei paesi cosiddetti “orti d’Europa” come la Bulgaria, Romania, Moldavia, che sul biologico stanno investendo molto. Credo però che per noi sia solo questione di tempo e sensibilità”. Strana è sapere che siano gli stessi produttori italiani ad investire in quei paesi: “Lì costa meno la manodopera, ma c’è anche una maggiore qualità e garanzia se si considera che interveniamo su terreni pressoché incontaminati”. “ Ma sta cambiando anche qui da noi. Spediamo piante in molte regioni d’Italia , comprese le valli “storiche” del Trentino dove  pian piano stiamo potenziando il settore biologico, che però ancora combatte contro i marchi che seguitano a fregiarsi di produrre mele sane grazie alle coccinelle”. “E qui chi ha orecchi per intendere, intenda” conclude salomonico Cavaler.

“Quando i nostri agricoltori capiranno -spero presto- che produrre meglio,abbattendo i costi è possibile, molto cambierà anche da noi. Salvo restando che i “biofurbi” ci saranno sempre e comunque! ”. Cavaler di assi nella manica sembra davvero averne molti:  “Vede, io vendo passione con piante! E continuo a coltivare sogni, come quello che le sto per mostrare:  sono mucche, bufali e maiali che ho iniziato ad allevare in maniera completamente naturale. I miei maiali finiscono col razzolare sotto i miei frutteti nutrendosi di frutta sana. Tanto che e se li guardate bene, sembra che vi sorridano. Non vi pare?”. Gli diedi  una risposta, ma questa è un’altra storia…

GIANANTONIO STELLA : “schei” , italiani, Unità d’Italia

Di Antonio Gregolin                                              -© riproduzione vietata del testo –

I “SCHEI” CHE AVEVAMO

L’intervista con Gianantonio Stella, autore nel 1996 del celebre libro “Schei”, racconta qui il radicale cambiamento e la crisi della società italiana. “Se penso a quel mio libro, stando ai fatti che accadono oggi –ci dice il giornalista-, mi pare preistoria!”.

Dal suo celebre libro “Schei” del 1996 ad oggi, c’è di mezzo la più grave crisi economica che il nostro Paese dal dopoguerra abbia vissuto. ”Crisi o recessione, chiamatela come vi pare, ma se non è zuppa e pan bagnato. Sta di fatto che da 1996 è cambiato tutto…” risponde Gianantonio Stella, volto noto del giornalismo italiano che da veneto (nato ad Asolo nel 1953), negli anni è diventato la “coscienza critica che fa le pulci al malcostume italiano. Un lavoro da virtuosi e coraggiosi. Ne parla con noi il noto giornalista  che graffia i poteri forti.

Stella, come sta il nostro Paese oggi?

Bene sotto certi punti di vista; l’economia ad esempio si sta risollevando. Maluccio invece sotto molti altri aspetti, tra questi quelli  documentati nel libro.

Ad esempio…

Da dove cominciamo? Servirebbero otto ore per risponderle. E’ come se dicessimo se è peggio il clientelismo o la devastazione del territorio? Tutto è così fortemente collegato che è difficile dare delle risposte rapide a un sistema così complesso come il nostro.

Se molti dei nostri “malanni” sono il risultato delle scelte fatte dai nostri politici, stando alle pagine del suo libro, davvero questi sono tutti uguali?

No! Chiamparino non è Cuffaro. Cofferati non è Loiero. A destra come a sinistra è pieno di politici “per bene e capaci, solo che in senso generale, noi non ci possiamo sostenere una classe digerente con questi privilegi (si dica che il nostro Quirinale –è scritto nel libro-, ha costi quattro volte superiori a quelli di Buckingam Palace della regina Elisabetta). E’ la gestione di questo nostro Paese a rendersi inaccettabile, e assolutamente inaccettabile!

Parliamo ora di quel suo Veneto considerato come “la locomotiva d’Italia”?

Il Veneto ha un problema che è quello di una gestione esclusivamente egoista dove ognuno si fa gli affari suoi. E’ un sistema quello veneto che non è mai riuscito -scusate il giro di parole-, a far sistema. La nostra è una Regione,  e lo dico da veneto quale sono, nel quale c’è stata una esasperazione totale dell’individualismo che  ha portato a fregarcene di tutto ciò che c’è intorno a noi. Questa idea ha creato e continua a creare dei veri disastri sociali e politici. Occorre che il Veneto si faccia carico di una gestione d’insieme delle cose, altrimenti è inutile che ogni volta che fanno un governo ci lamentiamo perché  non ci sono veneti. Non c’è ad esempio un veneto, un trentino o friulano, che sia mai diventato nella storia della repubblica, presidente della Confindustria. Sono anni che il Veneto ha una rappresentanza ministeriale che è drammaticamente più bassa rispetto al resto delle altre regioni.

Il motivo è che abbiamo un modo di gestire  noi stessi assolutamente frammentato. Noi siamo un insieme di formicai che non riescono ad avere delle api regine; anzi, ci sono guerra intestine  che reprimono le queste cose… Ogni comune ad esempio, si fa i “ca..i” suoi, senza nessun tentativo di fare dei progetti  allargati; così le nostre strade sono il frutto di una cattiva gestione del territorio come noi abbiamo qui. Capisco che ai vicentini possa dare fastidio essere equiparati alla situazione napoletana, ma le nostre strade e quelle di Napoli sono frutto della stessa gestione.

Questo giustifica l’idea del federalismo e/o secessionismo sbandierato dalla Lega?

Se parliamo di secessionismo, dico che è una grande “cazzata”, di cui non condivido neppure una briciola. Diversamente il federalismo, se è sul modello tedesco mi va benissimo; se invece federalismo significa vedere Totò Cuffaro che gestisce Selinunte evitando così di abbattere insediamenti abusivi, allora preferisco lo stato centrista francese.

Il federalismo cui vengono date delle deleghe di gestione che poi sono usate malissimo, non mi interessa. Dipende tutto dalle competenze: se a un nostro sindaco ad esempio, cui è stato consentito di devastare il territorio, pretende il federalismo per avere i poteri assoluti per continuare nella sua devastazione senza dover rispondere a nessuno, questo non va bene. Oggi  la Lega non è più un partito di protesta, bensì un rappresentanza molto simile agli altri partiti e per certi versi anche peggiore. L’esempio l’abbiamo avuto proprio quando al parlamento si è trattato di votare quella legge che serviva ad equiparare i super stipendi dei nostri parlamentari (15.706 euro al mese di media) i più alti d’Europa, a quelli europei. La Lega si è  regolata astenendosi o votando contro come avrebbero fatto un Gava, un Pomicino, un Tanassi  o tutti quei peggiori elementi che vengono raffigurati dall’immaginario collettivo leghista. Così la legge non è passata! Il vicentino “leghista” ad esempio, è una realtà dalle molte sfaccettature, non è solo quello protesta, delle quote latte, del capitalismo sfrenato; ma  è anche quello della manifestazione pacifica per il Dal Molin, è una culla di grandi talenti scientifici e letterari. E’una città viva e lo stesso mi pare sia la sua provincia, pur essendo una realtà molto complesso  difficile da sintetizzare in poche parole.

Non ci lascia molti margini di speranza però…

In questa situazione e con questo tipo di sistema  elettorale, oggi è impossibile migliorare e miglioraci.  Non c’è modo di punire chi governa male! Ecco  allora che l’unica soluzione disponibile al momento è  quella del referendum che non risolverà tutto, ma  metterebbe in crisi certi sistemi regimentati dai  partiti. Questa mi pare che sia l’unica strada maestra che noi italiani dovremmo percorrere. Bisogna che tutti i cittadini facciano più politica, anche se si tratta di una casta chiusa che molte volte impedisce loro l’accesso. Sono poi per il finanziamento pubblico per i partiti, altrimenti fa politica solo chi è benestante. Questo è un regime che ha il monopolio del potere e se lo tiene stretto; ma visto che siamo per la democrazia l’unica cosa è provare ad entrarci. Ci sono due modi per cambiare: uno è quello di fare la rivoluzione; l’altro è accettare il sistema democratico fino in fondo, comprese le sconfitte.

Ciò potrebbe  far pensare che Lei è pronto a scendere in politica?

No, no! Macché, credo di essere più utile facendo quello che so fare meglio: scrivere.

C’è così da sperare nel ricambio generazionale?

Quando scrissi “Schei” i ragazzi che aspiravano ad un posto fisso, erano il 4%, i restanti volevano mettere su un’impresa propria. Qualche anno dopo quelli che volevano il posto fisso erano già saliti al 28%. Oggi sono certo, che lo stesso sondaggio dimostrerebbe con assoluta chiarezza che la maggioranza dei nostri ragazzi aspirano al posto fisso.

Vuole dirmi che rischiamo di non farcela?

Se si pensa che “farcela” voglia dire chiudersi in casa, allora penso che i veneti non ce la faranno. Se non trovano il coraggio di aprirsi come hanno fatto in passato estirpando l’idea di far valere regole tutte nostre che per gli altri non valgono, la vedo dura. Molto dura!

Avrebbe così tanti e buoni argomenti da poter scrivere un “Schei” atto secondo. Ci sta pensando?

No! Non m’interessa. Ho già altri libri per la testa. In Italia può mancare tutto, meno che le notizie!

SONO UNO DALLE MOLTE IDENTITA’ COME L’ITALIA!”

Il parere di uno dei più noti giornalisti italiani sull’Unità d’Italia

“Italia, sì. Italia, no…”cantava qualche anno fa Elio e le Storie Tese dal palco di Sanremo. “Italia, forse…” che oggi celebra “divisa” la sua Unità a 150 anni dalla sua fondazione. “Che le celebrazioni abbiano finalmente inizio…” direbbe il ciambellano di corte del tempo dei Savoia. Ma in epoca repubblicana e “libertina” come la nostra, la ricorrenza viene vissuta  sotto molteplici aspetti.

(Nel marzo scorso a Vicenza, fuori da una discoteca è stata bruciata su un falò la sagoma di Garibaldi con la scritta “L’eroe degli immondi”).

Più che criticare un gesto che si squalifica da solo, mi piacerebbe chiedere ai suoi autori cosa sanno della Storia d’Italia? La loro può essere una goliardata, come no! D’altro canto, c’è chi in questa Italia fa politica con le battute come fosse tutta una goliardata. Non ci si stupisca allora, se poi si confonde la storia con l’assurdità. Mi pare così irrazionale prendersela con un personaggio come Garibaldi. Se a contestarlo poi sono anche i leghisti, permettetemi di dire che se c’è stato uno che citava Pontida e la battaglia di Legnano, come punti di riferimento per incoraggiare le sue camicie rosse a battersi contro il nemico, quello fu proprio Garibaldi. Le sue colpe sono l’avere unito il sud all’Italia? Primo, bisogna mettersi nell’ottica di quel momento storico, dopo di che ogni opinione è legittima. Ma da qui a dire che è stato un bandito e suoi garibaldini una  ghenga di malavitosi, come si sente dire da qualcuno, risponderei  di dare le prove storiche! Bisogna studiare e assumersi la scomodità di approfondire i fatti. Credo sia legittimo in una Italia unita e democratica come vorrei fosse il mio e nostro Paese, pensarla anche diversamente dalla storia che andiamo celebrando.

Quello che è illegittimo è rovesciare infamie (ma il termine più eloquente sarebbe “me…”), contro un Garibaldi che più volte ha dato prova di essere stato più disinteressato di tanti altri. Ha guadagnato Caprera? Si sappia che l’isola delle capre, che non era la Costa Smeralda di oggi, è venne regalata con una sottoscrizione spontanea avviata dai lettori dei giornali inglesi, al condottiero italiano perché potesse ritirarsi in pace. Lui, non ha mica rischiato la pelle per diventare presidente di qualcosa! Se fosse stato un ladrone, come mai era amato da tutto il pianeta? Dopo l’Unità era già immensamente famoso in Sudamerica per le sue gesta. Come mai venne eletto all’Assemblea Nazionale francese, anche se poi temendo che la sua popolarità potesse dare fastidio, annullarono la sua elezione? Come mai il francese Dumas seguì solo Garibaldi? Trovatemi un Dumas che oggi vada dietro a qualcuno di quelli che sparano su Garibaldi? Ecco perché sotto il cielo dell’Unità d’Italia, vedo una grande confusione. Ognuno racconta un suo pezzo di storia: così hanno fatto i Savoia, poi i fascisti,  dopo i partigiani,  e ora c’è la Lega con la sua “verità” sui fatti. In tutti possiamo trovarvi un pizzico di verità, ma non la Verità! Ai leghisti chiederei: cosa sarebbe stata Torino senza l’immigrazione del Sud? Dove vanno a finire molta produzione del nord? Si dica che oggi il Piemonte avrebbe il 58% della popolazione se non avesse avuto gli immigrati  meridionali. Cosa avrebbe fatto poi la Fiat senza la manodopera del Sud?

Tante domande, dunque. Io però celebrerò la mia Unità, mettendo fuori di casa la  bandiera italiana, orgoglioso di essere cimbro, asiaghese, vicentino, veneto, settentrionale,  ma di essere anche italiano ed europeo. Dover rinunciare ad una sola di queste identità, mi darebbe fastidio perché io sono tutte queste cose messe assieme. Concludo con una frase di Josefh Roth che fa dire al protagonista di uno dei  suoi romanzi: “Sono nato  per vivere in una casa e non in un cesso!”.

MARIO RIGONI STERN: Così non si muore più.

Di Antonio Gregolin                                                       -testo e foto riservati-

 

COSI’ NON SI MUORE PIU’!

La scomparsa dell’ultimo cavaliere delle steppe e foreste, Mario Rigoni Stern, con una sua inedita confidenza a sostegno del “saluto”. Malato da tempo, la notizia della sua scomparsa,avvenuta ad Asiago il 16 giugno 2008, per espressa volontà dello scrittore venne divulgata solo il 18, a funerali avvenuti.

Eravamo al’inizio dell’estate del 2009. Quel giorno pioveva, e la gente era costretta in casa. Tutto fuori si era fermato perché il calcio comanda e in televisione offriva sull’altare delle vacuità, la partita Italia–Francia. Sui monti gli ultimi singhiozzi di freddo frenava il movimento dei turisti. La notizia asciutta e diretta, fu di quelle che ripudiano ogni superfluo commento: “Mario Rigoni Stern a 86 anni è andato avanti”, come dicono gli alpini quando devono parlare  di morte, lasciando al silenzio il più assordante dei rumori.  Lo scrittore delle montagne è andato da quel “Dio delle cime” in punta di piedi, col suo ultimo passo d’eleganza umana che ha un che di  originale in questa epoca. L’ha fatto come pochi sanno ancora fare. Cinque mesi di fulminea malattia, un cancro al cervello, l’ha tradito. Gli ha tolto le parole dalle pagine che doveva ancora scrivere.  Ha dissipato una vita che però ha già  lasciato montagne di ricordi. Dal terribile “Don” russo, alla vita tra le cime dell’Altopiano. Dalle steppe lontane alle foreste vicine e oggi,  dalla terra al cosmo. Questo è il saluto a Mario Rigoni Stern. Il  più grande e ultimo insegnamento, forse, non lo troverete  nei suoi tanti scritti di vita, ma nel greve  silenzio del suo consegnarsi alla morte. Chi -mi chiedo-  sa ancora morire così? Una morte degna del più umile dei servi, come pure di un imperatore.  No, direbbe lui, ma solamente un morire da vecio montanaro!”.  Un segreto che però lui non  ha rivelato, nell’ultimo suo tratto di strada terreno: morto e sepolto, la notizia è stata diffusa solo il giorno seguente. A cose fatte e a funerale completato. Così -ripeto- non si muore più!

Il fatto che  fosse già sepolto, non ha lasciato margini alla vanità del nostro fremito quotidiano. Modestia e grandezza, messi in nuda terra. Così ha voluto, così è stato! Un morire “epico”, raro, assoluto per uno che ha succhiato l’essenza della vita che gli stava per essere strappata n guerra. Lui che ha raccontato per una vita intera  fatti divenuti poi epici. Racconti di assalti, battaglie e ritirate, come pure di pacifiche foreste, galli cedroni e vecchi montanari. Dopo questo, l’ultimo suo capitolo  ha voluto che non diventasse un racconto. Ha saputo combattere battaglie in terre lontane, ma ha  duellato con la morte immerso nel  silenzio  di quel suo ultimo “fronte” che è stata  la sua casa ai margini del bosco. L’immagine ultima che ora consegna  al mondo è quell’inevitabile tumulo di terra con una croce di montagna, dove sotto potrebbe esserci chiunque. Invece, riposa  Mario Rigoni Stern lo scrittore di tante morti. Lo stesso che avevano candidato al Nobel per la letteratura, ma  che  fin quassù non è mai arrivato! “E chi se ne frega!” avrebbe esclamato lui. Lo volevano pure  senatore a vita, ma non lo è mai diventato: “Meglio restare un montanaro qualunque!” .

la semplice croce sulla tomba dello scrittore

Ho ancora nella mente quel doppio nostro incontro in casa sua, cordiale quanto sincero. Senza formalismi, davanti a un bicchiere di garbato vinello a parlare -chissà perché- di spiriti del bosco come gnomi e fate, fino a parlare del film  “Il Segreto del bosco vecchio” di Ermanno Olmi, guarda caso suo unico vicino di casa. Oggi la scena degli spiriti degli alberi che consolano l’albero che spetta d’essere abbattuto, mi fa immaginare quello che sarebbe piaciuto anche al vecchio Stern delle montagne eterne dov’è finto. Lui, che da uomo, ora si è trasformato – chissà-, in spirito dei boschi!?  Che bello sarebbe, e così mi pare d’immaginare  l’ultima scena di un improbabile racconto: l’umidità scende nel profondo della foresta di “pesso” (abete rosso) come un lenzuolo bianco, col fresco che ti penetra dentro e ti ristora l’anima. “Mario è arrivato…” annunciava l’eco portato col fruscio degli alberi, di valle in valle  fino ad arrivare al piano. Un eco d’addio. Un saluto di benvenuto! “Ora racconterà le sue storie anche noi tutti” bisbigliarono qui gli alberelli più giovani, mentre nelle contrade gli uomini andavano dicendo: “Zè morto Stern. Un omo tutto d’un “pesso”. Per dire -forse- che lo scrittore di queste foreste,  è ora diventato un albero della loro specie !

UN SALUTO. UN INCONTRO.UN INEDITO RACCONTO

Mario Rigoni Stern  l’ho incontrato personalmente tre volte nella sua casa di Asiago(Vi) tra il 2005 e il 2007. Qualche conversazione telefonica e un invito: avere un suo ricordo su un particolare saluto ricevuto in tutta la vita. Ha risposto con entusiasmo e prontezza a questo mio invito, servito per affrancare il prezioso messaggio lanciato dalla Campagna SALVA IL SALUTO. Il suo racconto è un pezzo di storia. Della sua storia. Divenuto oggi un genuino  ricordo  dell’uomo -scrittore e saggio, che fu schivo come un capriolo.

La casa di Stern ad Asiago dove sono avvenuti i nostri incontri

E’ tra le firme letterarie che ha stigmatizzato di più il valore del saluto. Lui, che racconta storie sull’Altopiano di Asiago, lasciando parlare le montagne, gli alberi e le vicende umane trasformandole in vita da leggere, come un pozzo di memorie, ci racconta un altro spaccato di quella sua storia che ci pare senza tempo. Lo fa narrando un episodio che è fortemente legato alla campagna di sensibilizzazione  www.salvailsaluto.com che ha coinvolto tutto il territorio nazionale nel 2006, per cui lo scrittore si è speso con questo suo contributo di vita. Era per noi una grande speranza! Qualcosa cosa di grande e forte, poter vedere ogni giorno  quella bambina polacca che ci salutava nella sua innocenza.  Nel 1943 la Polonia di Hitler, divenne la nostra prigione: sporchi, pieni di pidocchi e malattie  incatenati come cani, percorrevamo ogni giorno la stessa identica strada. Ma ogni giorni quel  qualcosa di diverso era lì ad aspettarci, guardarci e salutarci! Aveva il volto dolce di una bambina bionda che alzava la sua manina. Quasi un angelo. Lei però non sapeva quanto desiderassimo vedere quel suo fare. Non immaginava quanto la sua presenza fosse una speranza per tutti noi. Attendavamo con ansia ogni giorno quel nostro incontro, fatto a distanza. La sua era la forza semplice di una bambina che si scontrava con l’assurdità dei grandi, dei forti. Aspettavamo che la piccola ci salutasse per continuare a nutrire la nostra speranza di vita!” “Piccoli, semplici gesti come questi, – racconta lo scrittore- ne avrei parecchi da raccontare, ma forse, quel  saluto così spontaneo e semplice aveva l’incredibile capacità di trasformare la sua fresca innocenza in un atto sacro, tale da farci sopravvivere. Quel  saluto valeva davvero una vita. La nostra di vita! E dire che non ho mai potuto ringraziare quella piccola polacca…”. “Chissà perché oggi i nostri giovani non ci salutano più?” . “Non lo so e me lo chiedo spesso. Senza però trovarmi una risposta.” La montagna sono i suoi ricordi, il suo stile di vita, quello della gente semplice che incontri quando vai in vacanza. Proprio in quei momenti il saluto ti  viene spontaneo: lo fa il turista come il montanaro, l’anziano come il giovane:  Io – racconta Stern-, sono uno scrittore  che non viaggia molto, quando lo faccio rimango male ogni qualvolta saluto dei ragazzi che non ricambiano… Forse è  colpa della  tecnologia, di quella fretta di oggi che ci fa dimenticare come il salutarsi sia principalmente una forma di rispetto verso il mondo che ci è attorno.” “Benvenga questa straordinaria campagna per salvare il saluto, non può che fare del bene a noi gente di montagna -auspica lo scrittore -, come a quelli di pianura e fino al mare. Salutare, in fondo fa bene a tutti!”. Un ultimo “Ciao” tutto personale, è quello che alla fine mi riserva il grande e vecchio scrittore, da quella sua sommità di ricordi dove ora ha trovato   rifugio eterno.

«Ecco, sono ritornato a casa, ancora una volta; ma ora so che laggiù, quello tra il Donetz e il Don, è diventato il posto più tranquillo del mondo. C’è una grande pace, un grande silenzio, un’infinita dolcezza. La finestra della mia stanza inquadra boschi e montagne, ma lontano, oltre le Alpi, le pianure, i grandi fiumi, vedo sempre quei villaggi e quelle pianure dove dormono nella loro pace i nostri compagni che non sono tornati a baita».