OLIVIERO TOSCANI: LA BRUTTEZZA E’ SERVITA”

Di Antonio Gregolin                                                                         -Testo e foto riservati-

“SE M’INNAMORO”… DELLA BRUTTEZZA

Il celebre fotografo Oliviero Toscani, lancia la sua “crociata contro il “brutto” del nostro paesaggio italiano.

Fotografare le bellezze è pressoché facile. Immortalare invece la bruttezza non è affatto scontato. Anzi, serve un bel po’ di coraggio: visto che in giro ne vediamo fin troppa: “Tanta bruttura, da renderci ormai impotenti nonché assuefatti”. A gridarlo è uno dei maestri della fotografia italiana, Oliviero Toscani, colui che fa comunicazione ad alto impatto emotivo. “Mi fanno incazzare gli italiani che si sono abituati alla sottrazione del bene comune, che è la bellezza fatta paesaggio, della nostra Italia” dice l’ideatore di celebri campagne pubblicitarie di moda e umanitarie, milanese di nascita, naturalizzatosi poi in Toscana dove vive con la moglie Kirsti e tre figli, producendo vino, olio e allevando cavalli Appaloosa. Ne ha davvero per tutti Toscani: per i politici, gli architetti, i professionisti, i costruttori, i mafiosi, ma anche la stragrande maggioranza di quei cittadini che subendo, danno il loro assenso alla devastazione. “Siamo un Paese in balia degli scempi”, tanto da indurlo a partorire una delle sue provocazioni: fotografare e mostrare il nuovo (brutto) paesaggio italiano. “Qui è fallito un sistema democratico a vantaggio di un’Italia in mano ai clan, e il brutto è il loro pane quotidiano, che poi vomitano sugli italiani”. Un’intervista a tutto tondo, fermando il maestro tra un paesaggio e l’altro.

Comincio col chiederle cosa sia per lei il paesaggio?

E’ ciò che la natura ci da. E’ l’ambiente che l’uomo trasforma. Io sono più concentrato su questo ultimo aspetto che non sull’immagine naturalistica dei luoghi.

Com’è allora l’ immagine del territorio italiano?

Disastrosa! Io non sono tra quelli che dicono “No!” a tutto. Dico piuttosto che si potrebbe costruire meglio e con maggiore razionalità. Credo che la vera ricchezza di un paese si misuri con la qualità delle infrastrutture che servono a far vivere meglio quel popolo. Porto l’esempio di mia moglie che è norvegese: lì non sono individualmente ricchi, però hanno un paese ricchissimo, dove la scuola funziona, i servizi e le infrastrutture sono un’eccellenza. Non per questo sono perfetti, solo che lì non speculano. Non rubano. Non mangiano. Questo fa la differenza da uno Stato ricco, e uno che si vuole arricchirsi ad ogni costo come il nostro.

Si spieghi?

Partiamo dalle vostre foto sulla Valdastico Sud che, si mostra come una grande cicatrice in un territorio prevalentemente agricolo. Il problema non è solo costruire bene, ma comprendere se esistono reali ragioni per costruire. Spesso millantano soluzioni avveniristiche che invece servono solo per rimpinguare le tasche dei soliti noti. Ho l’impressione che dietro ai “competenti” ci siano solo i clan. L’Italia è il paese dei clan e dei favori. Tutta la struttura dei servizi, diciamocelo, è basata su un clientelismo senza scrupoli. Non c’è più nessun rispetto per lo Stato, e questo favorisce uno stato mafioso, dove gli ecomostri sono il modello più eclatante che sta sotto gli occhi di tutti.  La mafia non c’è solo in Sicilia. C’è a Milano, Torino, Verona, Vicenza, laddove c’è molto da spartire, e questo spinge le persone oneste a comportarsi diversamente se non vogliono essere tagliati fuori dal giro. Cioè, dalle regole della “cricca”.

Intende il “partito del cemento”?

Sì, quello che va per la maggiore di questi tempi. L’Italia geograficamente mi piace, ma non ha niente a che vedere con gli italiani che la abitano!

Che catastrofico?

Io non sono un catastrofista o pessimista. Realista, quello sì!  Il paesaggio è l’immagine esatta del sistema sociale ed etico di un paese. E’ da sempre un termometro di civiltà. Quindi, la mancanza di eticità, di senso dello Stato, del dovere civile, crea il paesaggio degradato che vediamo. Dalla  Seconda Guerra Mondiale ad oggi, il nostro territorio rispecchia esattamente la nostra struttura politica e civile.  I disastri ecologici sono solo la conseguenza di errori che ci trasciniamo da decenni. E la televisione è l’amplificazione di questa immoralità. Siamo un Paese di “teleidiotizzati”. Oggi è lei a decide sulla morale,  l’etica, l’estetica. Non  a caso il padrone delle televisioni è il nostro monarca assoluto.

Ma non è un controsenso che lo dica uno come lei che quotidianamente si occupa d’immagine?

Lo dico proprio perché è di mia competenza e  conosco bene i meccanismi. Studio il sistema. Diversamente se non lo conoscessi, farei bene a starmene zitto.

Ma è una critica generalista…

Basta girare il mondo per sapere cosa dicono di noi. La miscela ricchezza e ignoranza, credo sia la cosa per noi più deleterea. Il Veneto in particolare, è un esempio di quanto questa  sinergia possa essere devastante! Non accuso i lavoratori staccanovisti che siete, ma piuttosto l’incapacità di reagire e subire che avete. Gente con il portafoglio pieno, ma molto spesso la testa (in senso di cultura Ndr) vuota. Persone laboriose che poi non hanno nessun tipo d’interesse nel difendere il proprio territorio. Vivere in un ambiente brutto, sta diventando una normale condizione sociale. Questo avviene in tutta Italia, ma è ancora più grave dove c’è il Pil più alto d’Europa. Questa io la chiamo “disperazione”!

Quanta severità maestro…

Io osservo, fotografo, penso e dico le cose in maniera totalmente libera dagli interessi personali. Prendere o lasciare! Potremmo prendere il meglio dal mondo e riportarlo qui, adattandolo e migliorandolo a sua volta. Invece niente…

Torniamo nuovamente al suo mestiere di fotografo:  che valore da alla  fotografia paesaggistica?.

Non interessano le foto patinate sulla natura…

Dunque, niente paesaggi, animali o fiori?

E’così. Ciò che m’interessa veramente è il territorio rinnovato anche in modo positivo dall’uomo. Io fotografo le azioni umane. Fotografare un ghiacciaio  o le nuvole non mi interessa. E’ la condizione umana che mi affascina e continua a stimolarmi.

Anche fotografare le brutture come farà col progetto “Nuovo Paesaggio Italiano”?

Mi crede se le dico che questo mio progetto è nato oltre venticinque anni fa, e solo ora riesco a materializzarlo? E’ un’esigenza che sento dentro cui non posso sottrarmi. Forse un istinto di sopravvivenza. Chi lo sa?

Mi spieghi…

Tengo fuori i politici e farò la “rivoluzione” con fotografi, ma soprattutto grazie a semplici cittadini dotati di macchine fotografiche. Queste sono e restano un’arma civica. L’immagine sta cambiando il mondo e tutto ciò che conosciamo, con la differenza che le brutture non vengono quasi mai immortalate. Ora è il caso di mostrarle.

Vedere per capire, dunque?

In realtà noi conviviamo con il brutto. Gli italiani poi non vedono più le loro vergogne ed esportano un’immagine falsa di loro stessi. l 95% delle cose che sappiamo lo dobbiamo alle immagini. Io non sono pessimista, auspico solo che le cose si possano fare meglio. I nostri nipoti cominceranno a capire e fare diversamente di come facciamo noi oggi.

Lei però parla di “rivoluzione”…

Non mi fraintenda, ma già parlare come in questo caso di questi temi è rivoluzionario! Al mondo basterebbe che la metà convincesse l’altra metà per migliorarlo. Non crede?

A lei o al mondo?

(Sorride). Il problema è che gli italiani non danno un valore al loro paesaggio che sta alla base del nostro turismo. Io non cambierò l’Italia, ma cercherò di fare l’italiano coerente proprio senso civico. Prometto che verrò anche nel vicentino, prima con un work-shop che servirà a proporre poi una mostra sugli scempi nel vostro territorio, in cui non mancheranno le vostre “belle” foto aeree sull’autostrada.

Intanto in Parlamento passano leggi come il “condono edilizio”, o quella che i comuni avrebbero  solo un mese per denunciare gli abusi”.

E’ un disastro.  Gli italiani dopo aver varate queste leggi si plagiano, dicendosi: “Noi siamo geniali”. Abbiamo il “Made in Italy”e altre cag…te del genere. Ma geniali a fare cosa? A rubare all’ultimo minuto, nelle emergenze. Dove stanno tutti questi creativi architetti italiani. Guardate cosa fanno a Vicenza, Padova, Verona, ma anche Roma Firenze, Palermo… E poi pretendiamo di esportare l’immagine dell’Italia, del Bel Paese, verde e ricco di storia?  Mentiamo ai turisti nella stessa maniera con cui noi pensiamo che il Texas sia pieno di cow-boy.

Ma allora quale sarà il nostro futuro?

….(fa una smorfia)

Okay, mi pare chiaro. Ho capito!

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INNO AL BRUTTO CHE AVANZA

di Bepi De Marzi scrittore-poeta- compositore

Guardatela, guardatela e dimenticatela, l’ultima campagna tra i Monti Berici e i Colli Euganei.  Ci sono borghi e contrade dai piccoli nomi, Colzé, Monticello, Lóvolo, Are, Saline, Caselle, Granze, Albettone… Ci sono paesi come cittadelle di antichi mestieri, Montegaldella, Agugliaro, Noventa, Villa Estense, Vescovana… E i canali di acque lente, partite dalle montagne o risorte in polle, fossi e stagni fioriti, riflettono le colture da alimentare nei giorni delle cicale. Cercatelo, godetelo e dimenticatelo, l’ultimo silenzio di questi luoghi discosti, finora lontani dai tormenti della fretta,
dall’isterico frastuono delle grandi strade. Qui si raccontavano fiabe, leggende di nebbie o di venti, di ombre come nuvole secondo le albe e i tramonti; qui si è innamorata la storia della gente serena nel lavoro dei campi. Qui ha vissuto la fede  dei Padri con le tradizioni di preghiere corali nelle chiese, di canti alla distesa nelle processioni, nelle trepide speranze delle Rogazioni.

Qui hanno trovato slarghi tra girotondo di tigli, tra profumi di broli, le Ville dei nobili che arrivavano paciosi e indolenti dalle città: chi sui barconi agli attracchi di pietre appena lavorate, chi sulle carrozze di pazienti cavalli finalmente liberi sulle strade di ciottoli bianchi.
Tra poco, tra qualche stagione, questo incanto sarà solo memoria. E vengono, i torbidi rapinatori dell’armonia e del silenzio, accompagnati da sussiegosi e saltellanti ruffiani, a camminare qualche metro di questo scempio chiamato autostrada. Sul capo mettono, senza ragione, gli elmi colorati dei minatori; e si scambiano strette di mano per le telecamere addomesticate; e si mandano compiaciuti sorrisi prima degli immancabili pranzi che scandiscono l’inarrestabile avanzare della distruzione.  Guardate, guardate tutti ciò che accade tra Vicenza, Padova e Rovigo. E piangete.

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SCATTI  DI BRUTTEZZA


KATIA RICCIARELLI: LA “PANTERA” DEL BEL CANTO

Di Antonio Gregolin                                         -foto e testi riservati-

KATIA RICCIARELLI:

“SMETTO, MA NON MOLLO…”

Un  vis à vis con l’artista, la cantante, la donna del bel canto italiano.

Una Katia Ricciarelli smagliante. Divertita e divertente. In lei convive lo spirito della “paesana” rodigina, del personaggio televisivo e dell’artista del bel canto. Donna-artista che ad un certo punto della sua carriera, slla soglia dei sessanta anni, è stata capace di compiere un gesto affatto scontato:  “Mi sono ritirata, perché ho capito –spiega la Ricciarelli- che non avevo più la voce dei bei tempi. Mi è sembrato dunque naturale accettare quello che la natura mi ha dato e oggi si sta gradualmente riprendendo. Per questo motivo, con altrettanta spontaneità ho deciso di abbandonare i grandi palcoscenici per dedicarmi all’insegnamento e ai piccoli concerti che tanto mi piacciono”. Così ha fatto e  sta facendo senza però perdere il ritmo dello spettacolo. Si sposta in continuazione per l’Italia e non declina inviti all’estero: “Mi diverto così e spero di fare divertire il pubblico…”.

Dolcezza e severità sembrano convivere in lei: quale di queste due caratteristiche s’identifica maggiormente? Sono dura quanto austera,  ma pure dolce e passionale quando serve. Credo comunque  di rientrare nella norma della stragrande maggioranza della gente comune. Dipende però da cosa mi dicono o fanno: credo che ad ogni azione corrisponda una reazione, anche se mia mamma mi chiamava “fiammifero” perché mi accendo immediatamente. Poi però mia passa subito. E’ una caratteristica di chi si è fatta da sola come me e  ha sempre vissuto in maniera autonoma, nonostante i diciotto anni di matrimonio con Pippo Baudo. La durezza è qualcosa che ti devi  costruirti dentro, se vuoi stare sulla breccia.

Le tre grandi passioni della sua vita? Sicuramente il canto, poi il lavoro,  la recitazione e l’insegnamento. Oltre a queste quattro c’è poi l’aspetto più venale del mio  divertimento che sono le slot machine. Non sono una accanita giocatrice, ma quando gioco mi viene l’adrenalina a mille. Chissà, forse questo è peccato…

I suoi tre grandi   amori.. (S’illumina) Josè Carreras che ha rappresentato un periodo della mia vita artistica oltre che passionale. Altro genere d’ amore che però supera tutti, è stato quello verso mia madre che purtroppo non c’è più. E poi il mio ex marito, Pippo, con cui c’è stato una grosso feeling che nel tempo è venuto a mancare: nella vita succede! C’è poi da  aggiungere e lo metterei tra i primi, l’amore che da otto anni nutro per la cagnolina che sta  sotto questo tavolo, che si chiama Doroty come la moglie di Caruso.

I tre grandi maestri… Ho adorato Carlos Kleiber, Herbert Von Karajan , ma stravedo per Claudio Abbado

I tre paesi… Amo molto l’Austria, la Francia e l’Inghilterra perché con loro ho un rapporto lavorativo. Se però dovessi viverci, allora scegliere Londra.

Le tre delusioni? (Determinata) Su tutte quella della Scala  di Milano perché è un teatro che da sempre ha avuto un cattivo rapporto con me. Stranamente ho  raccolto successi in tutto il mondo, ma quando sono arrivata alla Scala, lì ho sempre picchiato il naso. Mi consolo dicendomi che non tutto il mondo può sbagliarsi!  Semmai, c’è qualche difettuccio di base proprio tra i signori della Scala. Ma si può anche vivere senza costoro. Così, se c’è un matrimonio che non va, bisogna saper tagliare, e io con la Scala ho tagliato da mò,  e senza rimpianti. Se poi penso alle delusioni personali, la risposta sarebbe: ho avuto così tante soddisfazioni dalla  vita che, sarei un ingrata verso il cielo se  dicessi  il contrario.

Lei  è una donna veemente: crede che la bellezza televisiva delle veline di oggi  sia significativa sul piano artistico? (Gongola un pò) Queste figure che spesso non necessitano di una base artistica, non hanno altro che la bellezza che gli viene chiesta. Per la lirica se un personaggio sta bene in scena ed è credibile, tanto di guadagnato. Ma abbiamo avuto esempi lirici, ricordo qui la Kabajeva o lo stesso Pavarotti, che nonostante la loro mole hanno sempre trasmesso qualcosa di eccelso che gli veniva da dentro e ben al di là della loro fisicità. Il melodramma  è così, pieno di incoerenza anche sul piano fisico. Per questo si può essere credibili, e lo si è, anche oltre i cento chili…

I maligni dicono che l’astro Ricciarelli sia  tramontato. Lei cosa gli risponde? (Per niente stizzita) E’ una dichiarazione  stupida la loro! In effetti io opere non ne faccio più. Mi cimento oggi in concerti e film. Insegno nella mia Accademia e mi occupo di tante cose diverse. Io stessa ho dichiarato che non voglio più fare opere che hanno rappresentato i miei cavalli di battaglia. Sarebbe stupido a questa mia età, fare confronti con sé stessi. E’ come un ballerino  che a sessanta anni volesse ballare come quando ne aveva venti. Oggi io sono sulla soglia dei 62 anni e non pretendo di certo di avere la stessa voce di quando ne avevo 30 o 40! Non voglio che si dica che l’Otello che facevo 40 anni fa era  che meraviglia.

E’ direttrice di una  Accademia Lirica da lei fondata, c’è ancora speranza e futuro per un giovane che vuole intraprendere questa carriera? Dipende sempre da come gli studenti lirici studiano. Oggi l’appannaggio del vil denaro è talmente importante che se non si lasciano conquistare dalla macchina dei “schei” per cui dopo vengono stritolati e spremuti, allora si può sperare in qualcosa di buono per il futuro della lirica.

E in Italia? Beh, è come in altri paesi…

A proposito dei tagli statali alla cultura, cosa ne pensa? In Francia e Germana per capirci ci sono stati ben prima che da noi. Se tagliano i fondi, io dico che  tutto sommato è anche un bene. Ciò stimola i talenti e le volontà…

Di tutta la sua carriera, qual è il miglior ricordo che conserva? Il Concorso televisivo verdiano del 1972 che mi ha aperto le porte al mondo. Sono venuti da tutti i paesi per vedere quella ragazza giovane  piena di buone speranze.

Cosa si auspica per il suo futuro: un nuovo matrimonio, un nuovo film o piuttosto, una vita tranquilla in campagna? Niente di più di quello che faccio e ricevo già ora. Prendo ciò che passa il convento e me lo tengo stretto.

Lei è  rodigina, che rapporto ha con la sua terra natia? (Orgogliosa) Straordinario! Dico sempre che noialtri veneti abbiamo una marcia in più.

Cosa le è rimasto  di quelle sue origini? Tutto! Dico sempre che se cado, cado sempre in piedi, perché noialtri veneti abbiamo una grande forza di recupero e volontà. E non è poco, mi creda! Non mi spaventa niente…

Credere che il non essere stata figlia di papà, aver faticato e lottato abbia inciso nella sua carriera? Sicuramente. Ritengo che un’artista completo dia  il meglio di sé quando “l’aqua toca el dedrio”. Quando cioè  ti devi guadagnare il successo, ma soprattutto dopo che hai sofferto. La Traviata, l’Otello, ecc.  non li puoi interpretare al meglio se non hai prima vissuto le loro passioni, delusioni, innamoramenti, che restano i punti inossidabili del melodramma di sempre.

Se le dico politica italiana, cosa pensa? (Si fa seria) Dico che ci vorrebbe un po’ più di calma, perché così si fa l’infelicità del nostro paese.

Mi dica uno dei peccati più gravi d’Italia? (Ride) E’ quello che non è un peccato vero e proprio, ma semmai un pregio: ci convinciamo che alla fine noi risolviamo sempre tutto!  Non è così”.

Qual è la cosa che la spaventa di più? Decisamente la vecchiaia.

E quella che invece la gratifica? La grande serenità che ho negli ultimi tempi.

Per avere successo bisogna davvero essere pronti a tutto? (Risposta esplosiva) Assolutamente no! Disposti a tutto nel senso che bisogna essere disposti a sacrificare tutto. Questo sì!

Lei cosa ha  dovuto rinunciare per la sua carriera, e cosa invece ha guadagnato? Nella mia vita e carriera ho avuto tutto, quindi ho rinunciato  a quelle cose che sicuramente avrei potuto avere: dei figli, un marito, però sono molto tranquilla anche in questo. Se non sono venuti o il rapporto è durato quello che è durato pazienza. Sono fatalista anche in questo.

Preferisce la felicità o la serenità? Quando si è sereni si è felici. Dunque essendo serena oggi sono anche felice. Amo tantissimo anche i miei errori perché da quelli ho imparato  tante cose e ciò che invece potrei non avere imparato, dico pazienza visto che siamo esseri umani

Qual ‘è la cosa che la rattrista maggiormente? La canzone della Vallì  “Ebbene andrò lontano”. Ricordo che piaceva a mia madre e amava che gliela cantassi. Oggi non la canto  più perché quel ricordo mi  fa arrivare una tale nostalgia che ogni volta mi  prende il magone.

Cosa ama e cosa detesta del mondo dello spettacolo? Frequento poco la gente del mio ambiente. Non amo affatto il gossip: niente stampa scandalistica. Sono anni che non compro giornali “rosa”. Quella è roba che non mi appartiene, ma soprattutto non m’interessa sapere sugli altri e tanto meno quando parlano -se parlano?- della sottoscritta!

Per finire riassumiamo: chi è  Katia Ricciarelli? Una donna che ha dato tanto, ma ha ricevuto forse meno di quanto ha dato. Ma questo fa parte del gioco. Il fatto stesso di donare, mi basta, perché quando fai del bene, stai bene! Come artista sono pienamente soddisfatta di ciò che ho fatto e ricevuto. Mi basta questo…Ascoltando le centinaia di registrazioni che ho a casa che non ho mai ascoltato prima, ho sentito delle cose straordinarie. Questo vuol dire che ho dato parecchio. E consiglio anche a quelli che non sono stati teneri con me, di  andarsele a sentire.

ZAZA’ ” PRINCIPE DE BARBONIA”

Di Antonio Gregolin                                             -testo e foto riservati-

“ER PRINCIPE DE BARBONIA”

Due giorni  in compagnia di Zazà,  il “principe” dei senza tetto romani, adottato da un intero quartiere (reportage 2000)

Ci sono esperienze che vorresti vivere per meglio capire quanto ti circonda. Vivere per qualche giorno fianco a fianco con un  “senza tetto” d’eccezione come Serafino, seguendo i suoi ritmi, si è rivela essere un’ esperienze in grado di cambiare il modo di vedere quelle “ombre di strada” fatte di povertà, ma anche di tanta umanità e un’inaspettata simpatia, come  per il caso di “Zazà”.

 

Nel 2000 , giusto a scavalco tra un secolo e l’altro, ricordando quanto descritto da Stanley Kubrick del ’68, nel film “2001 Odissea nello spazio”, lontani da quella ipertecnologica realtà, la vita sulla terra appare ben altra cosa. A dimostrarlo c’è  “Zazà”  il cosiddetto “principe barbone”. Un “principe” della strada carico di umorismo, incontrato un giorno di fine ottobre sotto il cielo di Roma. E’ uno  che  lo vedi arrivare per poi sparire nel nulla. Un’ombra che sbuca da un vicolo romano. Ombre o “homeless” preferisce chiamarli qualcuno. Uomini che semmai, spesso combattono contro i pregiudizi sociali. Ma questo è  davvero un “prinicipe della strada”: un anziano signore di 75 anni (foto sopra), che alle soglie del nuovo Millennio vive e dorme all’ombra del “cupolone” di S. Pietro. Il suo nome anagrafico Serafino, sembrerebbe avere un ascendente nobiliare: “Ma quale nobiltà?Il rispetto io l’ho raccolto tutto per strada. Anzi in un quartiere…” mi dice lui ironizzando. Ironia  la sua spontanea e tutta romana, tanto da renderlo un simbolo per uno dei quartieri più popolosi della capitale, dove tutti qui lo chiamano “Zazà, er principe de barbonia!”. Anche nei tratti sembra conservare un non so che di nobiliare, il suo volto assomiglia ad uno dei personaggi di Caravaggio -il pittore che sceglieva  dalla  strada  i suoi protagonisti-, ritratti nel quadro Giuditta e Oloferne.

Ho in mente il profilo della “vecchia serva” caravaggesca che trovo somigliante a Zazà. Appena glielo dico, lui risponde: “Ah Caravaggio, grande pittore! A me piace pure  Michelangelo e Bernini. Non è un caso se ho scelto di vivere proprio vicino a loro, tra S.Pietro e Castel S.Angelo. Così posso dire che casa mia l’ha progettata nientemeno che, il Bernini!”. Non sono certo risposte che ti aspetteresti da un cosiddetto “barbone”, tanto che l’icona stereotipata del senzatetto crolla davanti a un Zazà con l’aria distinta e una inusuale eleganza, con la cravatta lisa e una bottiglia di plastica infilata in tasca che gli danno un pizzico di estrosità. “Oh, sono o non sono er principe -dice lui in romanesco-,  me servirebbe solo nà stiratina qua e là. Ma che ce voiamo fà?”. A nessuno però verrebbe da pensare che proprio quel “principe” abbia come regno, uno scatolone e un telo di plastica dove infilarsi per la notte.

L’appuntamento per il giorno seguente è sotto il colonnato di S.Pietro. Lo ritrovo puntuale  con in mano una borsetta  con una mela e una cipolla, “cose  utili per combattere gli acidi urici ai piedi” mi garantisce l’uomo. Per due giorni chiedo  di poter diventare la sua ombra, e lui arricciando il naso mi borbotta: “La gente fa presto a dirti cosa sei o non sei! E nessuno mai mi ha chiesto prima di voler fare la mia vita!”. E’ così che Zazà asseconda la mia inusuale richiesta, non prima avermi detto che non lo vedrò chiedere  l’elemosina come fanno  gli altri: “Ciò di cui ho bisogno, lo ricevo direttamente da quelli del quartiere che mi conoscono e mi vogliono bene. Quando poi fa freddo, me ne vado alle mense popolari o nei centri di accoglienza come quello di “Casa Serena”, nel quartiere Prenestino poco distante dalla stazione centrale”. E’ in questo centro gestito dai Missionari della Carità di Teresa Madre di Calcutta, che Zazà  ha la sua tana segreta e sicura, dove lui arriva puntuale verso le cinque della sera. Prima però pregano insieme, e poi segue un pasto caldo per tutti .

La notte poi la trascorreranno in una delle camerate dove quotidianamente sono ospitate settanta “ombre umane”. “Dopo aver perso la mia famiglia, -mi racconta Zazà- mi sono perso pure io!”. E’ iniziata così, con una perdita affettiva, la sua ormai ventennale esperienza di strada: “Nonostante la sfortuna, -aggiunge il principe- nel mio piccolo continuo a vivere al meglio…”, senza farsi mancare quel buonumore che lo rende così speciale. Da romano verace, conosce tutto della sua città: “Conosco tutti i chiaroscuri di Roma. Tutto ciò che la gente vede e soprattutto quello che non vuol vedere”. Lo fa fin dalle prime ore dell’alba, quando esce dai cancelli di Casa Serena, fino al tramonto quando vi  ritorna. Il suo mezzo di trasporto è  invariato da ormai vent’anni: quel tram numero “96” che  dalla periferia lo porta nel centro cittadino.

“Ovviamente, -confessa lui-, non c’ho mai il biglietto, perché non ho gli spiccioli…”. Capita così che nei giorni di pioggia lui trascorra la sue ore seduto sui tram, per assicurarsi un riparo economico e sicuro: “Gli autisti mi conoscono tutti,  e c’è pure chi tra loro mi offre un cappuccino al bar!” Quando poi scende, incontra i suoi amici seduti agli angoli dei marciapiedi: “Tra di noi– spiega  Serafino- ci conosciamo quasi tutti…”, in questo la povertà non fa distinzioni. Il giornale che quotidianamente ha sottobraccio, lo ritira da anni gratuitamente dalla redazione de “Il Messaggero” in via del Tritone, dove lui entra ed esce come fosse un vecchio cronista, salutato da tutti, direttore compreso. Quando invece torna per strada, sono in molti a fermare Zazà, dicendogli: “Ao Zazà, tutto bene?”. All’incrocio di via Nazionale ad aspettarlo come al solito c’è Zippo, “er vecchio custode de macchine del centro de Roma”, altro personaggio pittoresco, un suo amico d’infanzia con cui condivide  il medesimo destino di strada. I due si lasciano poco dopo davanti all’entrata del piazzale dove c’è la sede dei netturbini della Capitale, famosa per il tradizionale presepio permanente, costruito coi sassi di tutto il mondo.


Zazà conosce benissimo questa zona, come pure il palazzo:  “E’ qui  ho la mia casa estiva”. In pratica una capanna di cartoni sotto cui sono ammucchiati degli stracci colorati e un materasso, il tutto mimetizzato in un angolo del pergolato. “Sono gli stessi netturbini che entrano ed escono  a controllare che nessuno venga a rubare (?) a casa mia” dice Zazà. Quando arriviamo per prima cosa
lui sistema un vecchio ombrello colorato che si staglia tra il grigiore dei muri scrostati.

“Non te spaventà per tutto stò casino! Qui ce vengo quando me capita. Devi sapè che a Roma ce stanno tre cose: er Papa, S. Pietro e poi ci sto io, ma un pochino meno santo. Stamo tutti qua, vicini vicini, anche se er papa e i santi non vengono mai a trovarmi”. Si fa improvvisamente  serio solo quando mi spiega di essere preoccuparlo per un possibile sfratto: “Tra qualche mese, dicono che qui verrà costruito un nuovo palazzo e allora dovrò abbandonare, dopo venti anni, questa mia casa di cartone, e mi spiace tanto!”. “Io sono nato povero, ma libero -aggiunge poi ritrovando un pizzico d’orgoglio-, me possono tojere pure sta casa, ma mai la  libertà! Ora però te porto a fare n’altro girello… N’amo va!”. Imbocchiamo dopo poco una scorciatoia che lui conosce a memoria che ci porta a passare dal retrobottega di un fruttivendolo, mentre lui si fa largo tra la gente prima di raggiungere una drogheria  dove lavora un suo amico d’infanzia.


Vivere per strada vuol dire anche avere bisogno di tutto e di tutti, ma Zazà anche in questo si mostra diverso. Basta osservarlo mentre regala un pupazzetto raccattato chissà dove, al nipotino del droghiere. Una scena da libro “Cuore” con il piccolo che gli tende la mano e il povero che gli sorride: Zazà è fatto così, e sembra averlo capirlo pure il bambino. E’ quasi mezzogiorno e la fame si fa sentire: nella panetteria del quartiere, Serafino entra per chiedere un pezzo di pizza. La fama di “buono” lui se l’è costruita giorno dopo giorno, e la simpatia lo aiuta a non essere costretto a tendere la mano: “Quelli che sono costretti a  farlo –aggiunge lui-, è perché non c’hanno affatto fantasia. Simpatia e cortesia te possono fare magnà!”. Zazà sa così di essere ormai un personaggio pubblico e le persone che lo incontrano per strada gli offrono spontaneamente da vestire e magari gli tendono pure un cartoccio da consumare al parco pubblico: “Come vedi io on chiedo nulla. Son loro a darmi ciò che mi serve, e io ripago con un sorriso!”.  Nel pomeriggio c’0è pure chi lo invita  al bar per fare un giro “di scopone” . E così va tutti i giorni: “Alle volte cambio via, per non annoiare la gente…”. Ma non è astuzia  la sua, semmai
è un’innata simpatia che lo aiuta nella  sopravvivenza.

La cupola di S. Pietro domina sul cielo, mentre il via vai di pellegrini in Piazza S.Pietro è quello caotico  di sempre. I turisti stanno col naso al in su, mentre Zazà osserva pacato questo ginepraio. E’ tardo pomeriggio e l’ombra che ci ripara dal sole è quella proiettata dal grande obelisco sotto cui si siede Serafino. Per diletto non perde l’occasione per mostrarmi quanto conosca l’antica storia di queste mura. Mastica pure qualche parola in inglese, spagnolo e un misto tra tedesco e romanaccio scambiato con qualche turista.   La tecnica sembra rodata con garbo, tanto distinto che qualcuno si ferma ad ascoltarlo. Non passa qualche minuto che il vecchio Serafino, calamita l’attenzione  di una scolaresca: “Stì ragazzetti, mi ricordano i tempi dell’infanzia, quando la mia Roma non era certamente come quella che vedete oggi voi qui…”. Si disseta pure lui alla fontanella come fanno i bambini. Sembra avere un rapporto privilegiato con loro, favorito da quell’aria da “tenero nonno” che non lascia trasparire la sua  condizione. I pregiudizi in questi casi sono armi che Zazà sembra trattare con disinvoltura e altrettanta dignità.


La giornata volge ormai al tramonto e lui congedandosi dal gruppetto di ragazzi, riprende la strada del ritorno verso Casa Serena. Chissà se sa di essere un pezzo della Roma più “verace”, di quella genuina ed estemporanea che tanto piace a chi la visita. Lui è un romano vero, ma più ancora un autentico cittadino del mondo:
“Non ho più la mia famiglia – conclude l’anziano-, ma in compenso sono stato adottato da un intero quartiere. Fortuna che non tutti hanno! Non credi?”. Quello che ora l’attende è  una nuova  notte in una camerate del centro d’accoglienza. Zazà torna così nel suo mondo: nell’ombra. L’ultima immagine radiosa però del “principe de barbonia” è quella di vederlo allontanarsi nella foresta di colonne del Bernini: “Le mie colonne..” come le definisce lui, dove compare e scompare mentre mi saluta con la mano, quasi a segnare il destino di chi vive ai margini del mondo, pur stando al centro di una Capitale dove  Zazà ha il merito di essere a modo suo un “autentico maestro di strada” .