Di Antonio Gregolin -riproduzione vietata di testo e foto-
“ NATO SOTTO LE BOMBE”
La storia del giovane Darko Polunic, nato sotto le granate di Sarajevo e cresciuto orfano di padre, a 17 anni scopre che la sua nascita fa parte di un documentario divenuto simbolo di quella tragedia.
L’innocenza e la guerra. Il dramma e il desiderio di avere una vita normale. Necessità vitale come il pane, per chi è passato attraverso un’esperienza violenta. Un diritto sancito coi trattati internazionali, ma che viene imposto coi ritmi lenti della storia. Ma arriva il giorno in cui la storia, individuale e sociale, presenta il suo conto. Conta poco che tu sia stato un neonato o adulto, giovane o vecchio: la storia ti ricorderà che tu c’eri!
Per questo nascere in guerra significa convivere con un’esperienza che non ti lascerà per tutta la vita. E’ accaduto anche a Darko Polunic, 17 anni di Sarajevo, la capitale della Bosnia I Erzegovina, nato sotto le granate nel 1992. Il nome e cognome è lo stesso del padre trucidato dai serbi all’età di 26 anni, pochi mesi prima della nascita del figlio.
Darko padre fu tra le prime vittime di quella tragica pagina di storia che durò quattro lunghi anni e fece migliaia di civili, con l’assedio in stile medievale della multietnica capitale bosniaca d parte delle truppe serbe. Il tutto alle porte della nuova Europa nascente. Storia recente e drammi antichi che rischiano di cadere ancora nei revisionismi nazionalistici che vengono alimentati da ambo i fronti (croato, bosniaco e serbo). A quattordici anni (2008) da quei fatti , la Bosnia del dopoguerra ha poche risposte , mentre molte restano le domande sospese sul suo futuro. Questioni che gli stessi cittadini bosniaci sentono come un peso insostenibile, quando pensano ai rispettivi caduti. Domande queste che la nuova generazione dei “bambini della guerra”, cercano strenuamente di divincolarsi, non sempre riuscendoci.
“BOMBE COME NINNA-NANNA”
Nascere nel 1992 nella Sarajevo sotto assedio, significava affacciarsi all’inferno. Vivere lì oggi, significa crescere in una città impegnata a cancellare le dolorose tracce del suo passato, ma con ferite insanabili nelle coscienze dei suoi abitanti chiamati a vivere in una sorta di limbo geo-politico, dove le speranze si fondono con il dramma dei ricordi. Ciò può coinvolgere a distanza, anche chi come me ha visto crescere negli anni un bambino nato sotto le bombe, che rappresenta la Sarajevo della rinascita. L’esperienza è dolce e forte, con le tinte delicate dell’infanzia che si scontrano quelle vivaci di un adolescente che stava per scoprire un’amara verità.
Io giornalista e lui Darko Polunic, uniti da un destino maturato col operato decennale dell’Associazione di volontariato “Insieme per Sarajevo” di Vicenza che dal 1997 e fino al 2005 ha aperto un canale di accoglienza tra famiglie bosniache e vicentine. I questi anni Darko fu ospite a casa mia per un mese all’anno di vacanza. Due mondi a confronto. Il piccolo e il grande. Il fortunato e lo sfortunato. Un legame questo nostro solo raramente snocciolava i ricordi della guerra. E con la sua crescita, vedevo maturare anche la sua consapevolezza di avere ereditato una pesante storia.
In lui restava scolpita una data: 13 giugno 1992, giorno in cui pochi mesi prima della sua nascita, lui perdeva il giovane padre colpito da un cecchino serbo in una delle trincee di Trebic, alla periferia di Sarajevo, mentre era appostato a difesa della città. Così Darko prima ancora di vedere la luce, era già orfano di padre. Un padre che in difesa dei suoi concittadini dalla una feroce aggressione serba, scelse di combattere volontariamente a fianco delle milizie mussulmane, pur essendo cattolico di madre serba e padre croato.
“Mio figlio non era un nazionalista –precisa oggi Zvonco Polunic, 75 anni, nonno e padre putativo di Darko junior-, ma cercava solo di proteggere chi non poteva difendersi dai colpi di chi ci attaccava! Un volontario che combatteva perché era la sua coscienza a ordinarglielo!”. Una storia di famiglia che diventerà presto un dramma, perché pochi giorni dopo il giovane sarebbe diventato vittima di quegli stessi cecchini che minacciavano la popolazione di Sarajevo.
E VENNE IL GIORNO…
”Il sangue e le lacrime hanno lo stesso colore in ogni parte del mondo…” mi raccontava nel 1997 un’anziana profuga mussulmana mentre aspettava il ritorno dei suoi figli scomparsi a Gorasde durante la guerra che da lei non sarebbero più tornati. Dark in tutti questi anni non lo vidi mai piangere. Raccontava di suo padre come glielo avevano raccontato. Come un’ombra o come si può raccontare un quadro senza averlo mai visto. Questo possono fare gli orfani. Nulla più! Lo spirito di quel padre riviveva nel nonno paterno Zvonco che ne aveva preso la paternità. Passarono gli anni e lui cresceva in una Sarajevo che sembrava seguire la rapidità della suo sviluppo fisico, con un futuro cestista di pallacanestro. Da città distrutta a capitale risorta, con vecchie cattedrali e nuove moschee che cercano di contendersi territori, come pure rinnovare la convivenza etnica che qui vi fu fino al 1992. Sarajevo è una perla tornata al suo antico splendore, incastonata però in un territorio incapace ad occulta le ferite di guerra. Splende Sarajevo oggi, mostrando una doppia faccia, mentendo in molti sai sul suo recente passato.
Darko ha la fortuna di vivere questa rinascita con la nuova generazione di bosniaci, che resta però figli della guerra. A 16 anni Darko decise d’intraprende l’indirizzo scolastico di veterinaria sulla base delle esperienze che fece in Italia, proprio a casa mia, con gli animali: cavalli, tartarughe, asini. Mi capitò solo rare volte di chiedergli quanto gli mancasse il padre. E la sua risposta fu sempre una scrollata di spalle, per dirmi forse, che a questo non c’era risposta! Un padre non si può certo dimenticare. Può però accadere che la storia abbia una memoria che riaffiora violentemente, quando gli stessi uomini credono di scalzarla. Quella memoria che un giorno irruppe sorprendentemente, nella vita di Darko attraverso fotogrammi inediti, dove lui era l’ignaro protagonista, senza però rimembrare d’esserne testimone .
“PLANET SARAJEVO” IL DRAMMA DIVENTA FILM
E’ un lungometraggio presentato nello scorso settembre (2007) a Sarajevo, e proiettato in molti festival cinematografici nel mondo. Un racconto a fotogrammi sulla guerra a Sarajevo, viste con un occhio naif da Sahin Sicic, cinerasta locale che durante il conflitto girava in presa diretta gli eventi a rischio della sua stessa vita pur di lasciare un documento ai posteri su quei tragici momenti. Non è il solito documentario degli orrori. Si mostrano in una “quasi normale” sequenza, immagini di quotidiana “follia” di chi viveva da assediato. Vecchi e animali, bambini e nonni, morti e vivi, sono la cruda trama del cortometraggio “Placet Sarajevo” che per il valore documentaristico ha ricevuto alcuni importanti riconoscimenti internazionali. Il giovane Darko vide il filmato poche settimane dopo la sua uscita. Fino ad allora, gli avevano raccontato che durante quei giorni bui, una ragazza aveva ripreso la sua nascita e la vita dei suoi famigliari con una telecamera, senza poi sapere più nulla. In lui c’era un pizzico di curiosità, ma anche questo episodio raccontato sembrava averlo già archiviato. Tutto poteva pensare, ma non certo che un giorno lui si sarebbe rivisto protagonista di quel film che ora stava vedendo.
Non appena sullo schermo riconobbe “quel bambino che piangeva sotto le bombe”, ebbe un sussulto e poi una conferma riconoscendo il volto lancinato della mamma Nada e dei nonni Zvonco e Radostiva durante i funerali del padre. Fotogramma dopo fotogramma il puzzle della sua vita si stava ricomponendo. Per il giovane Darko fu un inaspettato colpo allo stomaco. Un salto nel buio del suo passato, tanto che al primo smarrimento seguì la commozione: “Comincia piangere come non avevo mai fatto prima…” mi raccontò lui di quel momento. La storia gli stava presentando il conto, mostrandogli quella scomoda realtà di cui era figlio.
UNA SCOMODA VERITA’
Quel “pugno” allo stomaco, lo provai anch’io quel giorno di febbraio del 2008, quando per l’ennesima volta ritornavo nella nuova Sarajevo. “Voglio che tu veda questo Dvd” mi chiese inaspettatamente Darko mentre eravamo riuniti con la sua famiglia. Una richiesta che mi parve da subito bizzarra. Mi sorpresi e gli risposi: “Un’altra volte…”. “No -mi incalzò lui- è bene che tu lo veda subito!”.
Di lì a poco, mentre il filmato scorreva in televisione, lo schermo rifletteva gli occhi arrossarsi di mamma Nada e nonna Radostiva, mentre il nonno fu presto costretto dall’emozione a prendere una pastiglia per il cuore. “Questo sono io…” mi disse Darko indicandomi quel piccolo volto avvolto in fasce. “Quello lì invece è mio papà morto all’obitorio… E questo invece è il suo funerale…” mi spiegava il ragazzo, mentre io rimanevo senza parole. Dopo tanti anni, vedevo quello di cui Darko mi aveva sempre raccontato centellinando i fatti e le parole. La sua verità entrava in me con la crudeltà di chi si sente impotente, nel vedere questo suo lato oscuro, venire alla luce attraverso delle inedite immagini. Stavo vedendo qui il suo dolore, ma vedevo anche il debito che lui aveva in sospeso con la sua storia.
Immagini dove Darko ha rivisto tutto ciò che fino a quel giorno, gli era stato risparmiato: il cadavere del padre e la fossa con la terra che ricadeva sulla bara. Nonno Zvonco è visibilmente scosso, e quel suo silenzio quasi un abisso: “Disastro, disastro…” ebbe solo la forza di sussurrare davanti allo schermo. Lui cui la guerra aveva strappato il giovane figlio, una delle prime vittime caduta nei primissimi giorni di guerra a Sarajevo: “Era il 13 giugno del 1992 quando venne ucciso mio figlio- mi racconterà poi la moglie – e mio marito fu costretto ad andare per venti giorni di seguito dai miliziani serbi per trattare la restituzione del corpo. Gli chiesero subito dei soldi. Poi un giorno lo picchiarono e lo rispedirono indietro”. “Chiedeva solo un po’ di pietà per quei sei giovani uccisi, ma in guerra, soprattutto in questa nostra guerra -sottolinea l’anziana donna- la pietà era morta prima ancora che uccidessero le persone. Fu solo al ventesimo giorno e dopo aver riscosso i soldi, che i serbi concessero i corpi: uno ad uno, costringendo i famigliari a portare i sacchi neri sulle spalle per svariati chilometri!”.
I ricordi di quegli istanti sembrano palpabili, e si sommano alle immagini del televisore, facendo sembrare il tutto come un fiume in piena di emozioni, con il dramma rivissuto laddove la tragedia si era consumata. “Per me, mio padre è stato un eroe…” mi dirà poi Darko, con quella timidezza mal nascosta dai suoi occhi che si arrossano ogni volta che rivede questo documentario. “Papà non l’ho conosciuto, ma ora, finalmente so perché è morto, e questo mi basta!”. So comunque, che resta impossibile trovare per un ragazzo (allora bambino) una giustificazione plausibile a tutto questo. Ognuno di noi si sente solo nei minuti di silenzio calati dentro quel piccolo appartamento di Sarajevo. Quasi un momento “sacro” di quella Sarajevo-santuario dove le pietre sono vive di quella memoria che vorrebbe gridare alle sue nuove generazioni di non scordarsi mai di essere figli di quella terra, violentata dalla guerra.
SCATTI DI MEMORIA