BOSNIA L’EREDITA’ DI GUERRA DIVENTA UN FILM

Di Antonio Gregolin                                      -riproduzione vietata di testo e foto-

NATO SOTTO LE BOMBE”

La storia del giovane Darko Polunic, nato sotto le granate di Sarajevo e cresciuto orfano di padre,  a 17 anni scopre che la sua nascita fa parte di  un documentario divenuto simbolo di quella tragedia.

Darko Polunic sulla sx in maglietta

L’innocenza e la guerra. Il dramma e il desiderio di avere una vita normale. Necessità vitale come il pane, per chi è passato attraverso un’esperienza violenta. Un diritto sancito coi trattati internazionali, ma che viene imposto coi ritmi lenti della storia.  Ma arriva il giorno in cui la storia, individuale e sociale, presenta il suo conto.  Conta poco che tu sia stato un neonato o adulto, giovane o vecchio: la storia ti ricorderà che tu c’eri!

Per questo nascere in guerra significa convivere con un’esperienza che non ti lascerà per tutta la vita. E’ accaduto anche a Darko Polunic, 17 anni di Sarajevo, la capitale della Bosnia I Erzegovina, nato sotto le granate nel 1992. Il nome e cognome è lo stesso del padre trucidato dai serbi all’età di 26 anni, pochi mesi  prima della nascita del figlio.

Sarajevo i palazzi sventrati dalla guerra

Darko padre fu tra le prime vittime di quella tragica pagina di storia che durò quattro lunghi anni e fece migliaia di civili, con l’assedio in stile medievale della multietnica capitale bosniaca d parte delle truppe serbe. Il tutto alle porte della nuova Europa nascente. Storia recente e drammi antichi che rischiano  di cadere ancora nei revisionismi nazionalistici che vengono alimentati da ambo i fronti (croato, bosniaco e serbo). A quattordici anni (2008) da quei fatti , la Bosnia del dopoguerra ha poche risposte , mentre molte restano le domande sospese sul suo futuro. Questioni che gli stessi cittadini bosniaci sentono come un peso insostenibile, quando pensano ai  rispettivi caduti. Domande queste che la nuova generazione dei “bambini della guerra”, cercano strenuamente di divincolarsi, non sempre riuscendoci.

“BOMBE COME NINNA-NANNA”

Darko all’età di 6 anni

Nascere nel 1992 nella Sarajevo sotto assedio, significava affacciarsi all’inferno. Vivere oggi, significa crescere in una città impegnata a cancellare le dolorose tracce del suo passato, ma con ferite insanabili nelle coscienze dei suoi abitanti chiamati a vivere in una sorta di limbo geo-politico, dove le speranze si fondono con il dramma dei ricordi. Ciò può coinvolgere a distanza, anche chi come me ha visto crescere negli anni un bambino nato sotto le bombe, che rappresenta la Sarajevo della rinascita. L’esperienza è dolce e forte, con le tinte delicate dell’infanzia che si scontrano quelle  vivaci di un adolescente che stava per scoprire un’amara verità.

gli orfani di Sarajevo in Italia nel 1998

Io giornalista e lui Darko Polunic, uniti da un destino maturato col operato  decennale dell’Associazione di volontariato “Insieme per Sarajevo” di Vicenza che dal 1997 e fino al 2005 ha aperto un canale di accoglienza tra famiglie bosniache e vicentine. I questi anni Darko  fu ospite a casa mia  per un mese all’anno di vacanza. Due mondi a confronto. Il piccolo e il grande. Il fortunato e lo sfortunato. Un legame questo nostro solo raramente snocciolava  i ricordi della guerra. E con la sua crescita, vedevo maturare anche la sua consapevolezza di avere ereditato una pesante storia.

Sarajevo by night

In lui restava scolpita una data: 13 giugno 1992, giorno in cui pochi mesi prima della sua nascita, lui perdeva il giovane padre colpito da un cecchino serbo in una delle trincee di Trebic, alla periferia di Sarajevo, mentre era appostato a difesa della città. Così Darko prima ancora di vedere la luce, era già orfano di padre. Un padre che  in difesa dei suoi concittadini dalla una feroce aggressione serba, scelse di combattere volontariamente a fianco delle milizie mussulmane, pur essendo cattolico di madre serba e padre croato.

Darko col nonno nel 1998

“Mio figlio non era un nazionalista –precisa oggi Zvonco Polunic, 75 anni, nonno e padre putativo di Darko junior-, ma cercava solo di proteggere chi non poteva difendersi dai colpi di chi ci attaccava! Un volontario che combatteva perché era la sua coscienza a ordinarglielo!”. Una storia di famiglia che diventerà presto un dramma, perché pochi giorni dopo il giovane sarebbe diventato vittima di quegli stessi cecchini che minacciavano la popolazione  di Sarajevo.

E VENNE IL GIORNO…

Il sangue e le lacrime  hanno lo stesso colore in ogni parte del mondo…” mi raccontava nel 1997 un’anziana profuga mussulmana mentre aspettava il ritorno dei suoi figli scomparsi a Gorasde durante la guerra che da lei non sarebbero più tornati. Dark in tutti questi anni non lo vidi mai piangere. Raccontava di suo padre come glielo avevano raccontato. Come un’ombra o come si può raccontare un quadro senza averlo mai visto. Questo possono fare gli orfani. Nulla più! Lo spirito di quel padre riviveva nel nonno paterno Zvonco che ne aveva preso la paternità. Passarono gli anni e lui cresceva in una Sarajevo che sembrava seguire la rapidità della suo sviluppo fisico, con un futuro cestista di pallacanestro. Da città distrutta a capitale risorta, con vecchie cattedrali e nuove moschee che cercano di contendersi territori, come pure rinnovare la convivenza etnica che qui vi fu fino al 1992. Sarajevo è una perla tornata al suo antico splendore, incastonata però in un territorio incapace ad occulta le ferite di guerra. Splende Sarajevo oggi, mostrando una doppia faccia, mentendo in molti sai sul suo recente passato.

darko e fabio in Italia

Darko ha la fortuna di vivere questa rinascita con la nuova generazione di bosniaci, che resta però figli della guerra. A 16 anni Darko decise  d’intraprende l’indirizzo scolastico di veterinaria sulla base delle esperienze che fece in Italia, proprio a casa mia, con gli animali: cavalli, tartarughe, asini. Mi capitò solo rare volte di chiedergli quanto gli mancasse il padre. E la sua risposta fu sempre una scrollata di spalle, per dirmi forse, che a questo non c’era risposta! Un padre non si può certo dimenticare. Può però accadere che la storia abbia una memoria che riaffiora violentemente, quando gli stessi uomini credono di scalzarla. Quella memoria che un giorno irruppe sorprendentemente, nella vita di Darko attraverso fotogrammi inediti, dove  lui era l’ignaro protagonista, senza però rimembrare d’esserne  testimone .

“PLANET SARAJEVO” IL DRAMMA DIVENTA FILM

E’ un lungometraggio presentato nello scorso settembre (2007) a Sarajevo, e proiettato in molti festival cinematografici nel mondo. Un racconto a fotogrammi sulla guerra a Sarajevo, viste con un occhio naif da Sahin Sicic, cinerasta locale che durante il conflitto girava in presa diretta gli eventi a rischio della sua stessa vita pur di lasciare un documento ai posteri su quei tragici momenti. Non è il solito documentario degli orrori. Si mostrano in una “quasi normale” sequenza, immagini di quotidiana “follia” di chi viveva da assediato. Vecchi e animali, bambini e nonni, morti e vivi, sono la cruda trama del cortometraggio “Placet Sarajevo” che per il valore documentaristico ha ricevuto alcuni importanti riconoscimenti internazionali. Il giovane Darko vide il filmato poche settimane dopo la sua uscita. Fino ad allora, gli avevano  raccontato che durante quei giorni bui, una ragazza aveva ripreso la sua nascita e la vita dei suoi famigliari con una telecamera, senza poi sapere più nulla. In lui c’era un pizzico di curiosità, ma anche questo episodio raccontato sembrava averlo  già archiviato. Tutto poteva pensare, ma non certo che un giorno lui si sarebbe rivisto protagonista di quel film che ora stava vedendo.

Non appena sullo schermo riconobbe  “quel bambino che piangeva sotto le bombe”, ebbe un sussulto e poi una conferma riconoscendo il volto lancinato della mamma Nada e dei nonni Zvonco e Radostiva durante i funerali del padre. Fotogramma dopo fotogramma il puzzle della sua vita si stava ricomponendo. Per il giovane Darko fu un inaspettato colpo allo stomaco. Un salto nel buio del suo passato, tanto che al primo smarrimento seguì la commozione: “Comincia piangere come non avevo mai fatto prima…” mi raccontò lui di quel momento.  La storia gli stava presentando il conto, mostrandogli quella scomoda realtà di cui era figlio.

UNA SCOMODA VERITA’

Quel “pugno” allo stomaco, lo provai anch’io quel giorno di febbraio del 2008, quando per l’ennesima volta ritornavo nella nuova Sarajevo. “Voglio che tu veda questo Dvd” mi chiese inaspettatamente Darko mentre eravamo riuniti con la sua famiglia. Una richiesta che mi parve da subito bizzarra. Mi sorpresi e gli risposi: “Un’altra volte…”. “No -mi incalzò  lui- è bene che tu lo veda subito!”.

quartiere di Dobrjina dove ha vissuto per anni Darko

Di lì a poco, mentre il filmato scorreva in televisione, lo schermo rifletteva gli occhi arrossarsi di mamma Nada e nonna Radostiva, mentre il nonno fu presto costretto dall’emozione a prendere una pastiglia per il cuore. “Questo sono io…” mi disse Darko indicandomi quel  piccolo volto avvolto in fasce. “Quello lì invece  è mio papà morto all’obitorio… E questo invece è il suo funerale…” mi spiegava il ragazzo, mentre io rimanevo senza parole. Dopo tanti anni, vedevo quello di cui Darko mi aveva sempre raccontato centellinando i fatti e le parole. La sua verità entrava in me con la crudeltà di chi si sente impotente, nel vedere questo  suo lato oscuro, venire alla luce attraverso delle inedite immagini. Stavo vedendo qui il suo dolore, ma vedevo anche il debito  che lui aveva in sospeso con la sua storia.

io con la famiglia Polunic

Immagini dove Darko ha rivisto tutto ciò che fino a quel giorno, gli era stato risparmiato: il cadavere del padre e la fossa con la terra che ricadeva sulla bara. Nonno Zvonco è visibilmente  scosso, e quel suo silenzio quasi un abisso: “Disastro, disastro…” ebbe solo la forza di sussurrare davanti allo schermo. Lui  cui la guerra aveva strappato il giovane figlio, una delle prime vittime caduta nei primissimi giorni di guerra a Sarajevo: “Era il 13 giugno del 1992 quando venne ucciso mio figlio- mi racconterà poi la moglie – e mio marito fu costretto ad andare per venti giorni di seguito dai miliziani serbi per trattare la restituzione del corpo. Gli chiesero subito dei soldi. Poi un giorno lo picchiarono e lo rispedirono indietro”. “Chiedeva solo un po’ di pietà per quei sei giovani uccisi, ma in guerra, soprattutto in questa nostra guerra -sottolinea l’anziana donna- la pietà era morta prima ancora che uccidessero le persone.  Fu solo al ventesimo giorno e dopo aver riscosso i soldi, che i serbi concessero i corpi: uno ad uno, costringendo i famigliari a portare i sacchi neri sulle spalle per svariati chilometri!”.

Darko oggi a 17 anni

I ricordi di quegli istanti sembrano palpabili,  e si sommano alle immagini del televisore, facendo sembrare il tutto come un fiume in piena di emozioni, con il dramma  rivissuto laddove la tragedia si era consumata. “Per me, mio padre è stato un eroe…” mi dirà poi Darko, con quella timidezza mal nascosta dai suoi occhi che si arrossano ogni volta che rivede questo documentario. “Papà non l’ho conosciuto, ma ora, finalmente so perché è morto, e questo mi basta!”. So comunque, che resta impossibile trovare per un ragazzo (allora bambino) una giustificazione plausibile a tutto questo. Ognuno di noi si sente solo nei minuti di silenzio calati dentro quel piccolo appartamento di Sarajevo. Quasi un momento “sacro” di quella Sarajevo-santuario dove le pietre sono vive di quella memoria che vorrebbe gridare alle sue nuove generazioni di non scordarsi mai di essere figli di quella terra, violentata dalla guerra.

SCATTI DI MEMORIA

NEL PAESE DELLE SCOPE VOLANTI

                   -riproduzione vietata di testo e foto copyright 2011-

Gli ultimi “scopettari”  che stanno per entrare  nella leggenda

E’il felice epilogo del film del 1951 Miracolo a Milano”, tratto dal romanzo Totò il buono di Cesare Zavattini), capolavoro indiscusso di Vittorio De Sica, quello delle scope volanti  che invadono il cielo della metropoli meneghina, parodia di una città che oggi invece soffoca nel suo traffico urbano. Per curioso che sia, anni dopo, Steven Spielberg si ispirò a quelle scope volanti per la celebre scena di E.T  in versione bicicletta. Non sappiamo però se quelle scope di De Sica provenissero dalla Valdambra (Toscana), dove da millenni si perpetua la tradizione della fabbricazione delle scope di erica. Qui vantano il primato di produrre le scope più antiche d’Italia.

Sarà lì che forse conservano la formula  per far levare le scope magiche? Non è dato a sapersi, anche se frequentando quella popolazione, il dubbio che la formula sia conservata gelosamente  dentro i piccoli e pittoreschi borghi di Ambra e Pietraviva (Ar), incastonati negli Appennini, c’è eccome! Siamo nella patria incontrastata delle scope fatte con fasci di saggina. Un avamposto della tradizione come ultimo caposaldo di una sapienza artigiana, ormai quasi estinta. Luoghi semplici dai sapori antichi, dove le gesta quotidiane profumano ancora di una storia  come si scorge osservando il mestiere degli ultimi artigiani “scopettari o scopaioli”.


Se poi da queste parti chiedete in giro dove sia  “Bruna, la Mirella o Mario?” tutti vi rispondono: “A far granate!”. Questo potrebbe non rassicurarci, sentendo il termine, ma  fanno presto a spiegarti che in pratica è il termine vernacolare con cui qui chiamano i fasci di “saggina o erica scoparia “. “Ma che avete capito, – rassicura la gente di queste valli -,  le nostre granate non fanno male a nessuno. Al massimo, servono per un colpo al fondo schiena…”.


“Se le vere guerre fossero tutte così a di colpi scopa, -scherza Bruna Bianconi , 68 anni, costruttrice di scope-, c’è da scommetterci che non ci sarebbero morti e noi avremmo assicurato per molti altri anni ancora, questo  nostro mestiere che sta  per sparire. Anzi, è ormai scomparso, visto che noialtre siamo le ultime…”. Anche se qui, nelle valli boscose tra Siena ed Arezzo i borghi antichi e i mestieri artigiani sembrano proprio non volersi arrendere al tempo, la globalizzazione fa arrivare i suoi contraccolpi. Fatali, per un’attività che ormai conta appena una decina di artigiani. Ad accrescere il fascino del luogo che visitiamo, sono  grandi cataste di saggina  che somigliano a case abitate da personaggi delle fiabe.

“Granate” ben accatastate e pronte a partire per i mercati italiani. Nemmeno il mitico Herry Potter avrebbe trovato fortuna da queste parti. Questa è gente disincantata  che mostra i suoi anni e le fatiche di un mestiere che nessun altro vuole fare.  Nessuno dei giovani intende oggi occuparsi di queste cose. Loro vanno altrove, nelle città,  lasciando il piccolo paese d’Ambra nelle mani agli ultimi baluardi di una tradizione che nei secoli passati ha fatto la gloria di questo scampolo di terra .Un mestiere quello di fabbricare scope a mano, che oggi sopravvive in  piccoli laboratori,  ancora in grado di produrre fino a 150 scope  al giorno.

“Le nostre “granate” sono speciali, – afferma con orgoglio Mirella Galimberti, 55 anni,  un’artigiana che ha ricavato il suo laboratorio sotto  un antico portico di  casa -, perché la nostra  fortuna sta nell’avere la materia prima naturale, l’erica scoparia (8 specie diverse sono quelle presenti in Italia) che cresce spontaneamente in questi boschi. Ancor oggi questa particolarità permette di far volare il nostro prodotto fino all’estero con un incremento commerciale che però non lascia molte illusioni sul futuro”. I gesti sono gli stessi di sempre e le scope toscane hanno un  metodo di  lavorazione che parte dal bosco e finisce poi negli sgabuzzino di casa  nostra. Si inizia con l’andare nei boschi dove si falcia l’erica arborea  per poi si essiccarla al sole dividendola in maschi e femmine. “Avete capito bene, –  sottolinea la signora Bruna-, le scope possono essere “maschi o femmine” per vie delle due varietà di erica scoparia che qui raccogliamo nel bosco”. Gli uomini tornano in paese a sera con il loro cargo di fasci d’erica, mentre le donne  rimangono in casa a fabbricare “granate”. Le più brave riescono a confezionarne una in meno di un minuto, con abili e precisi gesti. Peccato solo che questo lavoro permette a malapena di sopravvivere, e la pubblicità stia “spazzando” via un mestiere che non è più competitivo.

La colpa in fondo, è l’avvento delle moderne scope di plastica. “I tempi son davvero cambiati, – sottolinea  Cinzia Sani, una commerciante il cui bisnonno commerciava scope già un secolo fa – dal boom degli anni ’60, quando cioè in paese erano decine gli artigiani come noi. Resta un lavoro povero che richiede sacrificio, e il guadagno è rimasto identico a quello di un decennio fa. Una scopa fatta interamente a mano, costa al produttore non più di sessanta centesimi. Fate un pò voi!  Ancora troppo se si considera  l’insidia che questi artigiani debbono fronteggiare con l’avvento della concorrenza cinese.” Dalla Cina, infatti, giungono le scope di bambù che hanno soppiantato quelle tradizionali dei nostri negozi. In tutta Italia, ormai le scope sono “Made in China”. Anche loro, gli spazzini ovvero i clienti più tradizionali della Valdambra, sembrano aver tradito le “granate” italiane per le scope cinesi, meno durature ma più economiche.

“E’ un problema che  crea svantaggi culturali e ambientali” dicono gli artigiani.  “Cominciando dalla pulizia dei boschi, che sono sistematicamente abbandonati con il rischio d’incendio. L’unica vera scopa ecologica che va contro ogni pubblicità, rimane quella della Befana,  visto che si utilizzano le verghe, le foglie come concime, gli scarti e la stessa scopa può diventare legna da ardere una volta consumata.” “Non resta che consolarci con  un piccolo momento di gloria di due anni fa, -conclude Cinzia Sani- , quando Benigni ci  chiese la fornitura di  centocinquanta scope per la scenografia del film “La vita è bella” cui poi hanno dato l’Oscar.”Purtroppo però, la  mitica “Nimbus 2000” di Herry Potter, non ha saputo fare di meglio per incrementare le vendite. Qui le scope volano davvero, ma sui carghi aerei con destinazione Svizzera e Germania, dove quelle italiane sono assai ricercate. Come a dire che: la scopa del vicino è sempre la migliore! Nella Valdambra intanto, il tempo passa e c’è chi in maniera sibillina spiega come presto, molto presto, questo mestiere scomparirà prestissimo dalla Valle. “Diventerà un ricordo perché non ci sarà più nessuno disposto a trasmettere l’arte artigiana delle “granate”. Allora, anche la fantasia delle fiabe dovrà cercarsi un mezzo con cui sostituire quella semplice quanto utile scopa di erica. L’unica differenza allora,  la facciamo noi consumatori da supermercato, quando nel momento di scegliere una scopa per casa ci poniamo la questione: la vogliamo italiana o preferiamo quella cinese. Da questa scelta dipende il futuro di un manipolo di artigiani e della loro tradizione che alimenta ancora la fantasia di mezzo mondo.

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LA “SPASAORA”  VENETA

Paese che vai, scope che trovi! Pare di sì, visto che i modelli sono gli stessi  benché cambino i materiali. Alle più illustri “granate” toscane, nel Veneto esiste un’altrettanto antica tradizione: quella delle “spasaore”.  “Far scoe da ara o cusina, – racconta Osvaldo Toffanin, 70 anni di Montegaldella (Vi) – era un’abitudine  che occupava il tempo invernale, quello dei filò accanto ai focolari o nelle stalle, di  quasi tutti i contadini.

Oltre che una tradizione, allora per noi era una  consuetudine che si tramandava di padre in figlio.Fu mio padre all’età di quindici anni – continua l’agricoltore-  ad insegnarmi come raccogliere le “naje de grena” i fasci di saggina, e raddrizzarle con una stecca di legno per poi legarle assieme, seguendo poche regole pratiche e un pizzico d’esperienza…”Abili mani che sapevano intrecciare “strope” di salice o saggina , sembrano oggi avere perso l’antica dimestichezza: “Ancò semo tuti pì siori – commenta ironicamente Meneghini-, così che farse le scoe ze masa fadiga e ze un lavoro da poareti!” Toni  Pierantoni, 72 anni da poco, sebbene ammetta che in casa sua ormai le scope non siano  più come quelle che lui costruiva, la soddisfazione di poter scopare il cortile con una “spasaora” non gli è passata.

“Quando ze el momento, -dice il contadino veneto -,  qualche vecia scoa ea salta sempre fora, anca parchè non me so desmentegà de come le se fa!” Come ogni inverno, questi temprati contadini sono soliti a sfrondare  le siepi cercando verghe  di salice o sandena : “Ormai anca voendo far scoe, non te cati più  i grandi  siesoni de sti ani, e tutto ze deventà come un deserto!” Nel frattempo, il vero problema è che  nessuno dei loro nipoti sembra più mostrare interesse per l’arte dei nonni: “Figuremose  se i ga voja de far fadiga – replica Meneghini-, i gà ea teevision che ghe insegna tutto!”

Nessuno di loro saprà più a cosa servisse il “tamaro”, impiegato allora per raddrizzare i rami delle “scoe da ara”.  Si  perderanno quei piccoli segreti, come “el saper tajare il legno quando caea la luna …” dice Osvaldo Toffanin. Allora si dirà: “C’erano una volta i costruttori di scope…”, così i nostri  giovani maghetti del video, non sapranno mai che le sementi raccolte dopo aver pettinato con la “streja” i fasci di saggina, erano dati in pasto alle tacchine in cova perché ricchi di sostanze nutrienti.


“Non ze soeo questo, – risponde Toni Pierantoni- , ze drio n’andare a ramengo tutta la cultura dei campi e dea campagna!”. Non ze rimasto ormai pì gnente de queo che fasevimo stì ani…”. Salviamo le scope dunque, per salvare uno scampolo di cultura: per questo qualcuno sta  già pensato ad un originale  marchio : dopo il D.O.C arriva oggi il “D.O.F.” (Denominazione Origine Fantastica). Per dire che le “spasaore venete come le granate toscane”, sono il simbolo di una civiltà  prossima alla scomparsa.

 

 

 

 

 

 

 

 

ALFABETO DI UNA TRAGEDIA: ABRUZZO 2009

Di Antonio Gregolin riproduzione vietata di testo e foto

DIZIONARIO DI UNA TRAGEDIA

L’Aquila 2009: i capitoli di un dramma

Ci sono due cose complesse  da raccontare: la guerra e il  terremoto. La prima, perché  è causata dagli uomini.  La seconda, incontrollabile,  dalla natura. Il terremoto del 6 aprile 2009 in Abruzzo ne  è una triste conferma: “Noi  abruzzesi –raccontano gli  sfollati nei campi -, siamo  terremotati da sempre. Ma mai come lo siamo stati oggi…”. Ha colpito duro, tanto duramente il sisma che ha devastato una città e decine di paesi. Ma ha scosso anche le coscienze nazionali in una gara di solidarietà, quasi perfetta, che è servita ai terremotati, ai soccorritori e a quanti hanno sostenuto gli aiuti da casa.

Sono i due lati della medaglia: la vita e la morte. La disperazione e la speranza. Sopravvivere e vivere. Le lacrime e il sorriso. I funerali e i battesimi. I vecchi e i bambini. Potremmo continuare all’infinito, ma per capire bisogna vedere. E chi ha visto ci ha raccontato con parole e immagini…

MANDORLI E MACERIE

E’ la prima scena che si mostra a chi è arriva nelle zone terremotate: alberi di mandorlo in fiore e macerie. I petali bianchi che dolcemente cadono sulle pietre di case e chiese. Un tentativo di bellezza sulla violenza della natura. Il profumo dei campi di primavera alle pendici del Gran Sasso con la polvere delle macerie. Un binomio che in tempi di vita e morte è speranza e straziante allegoria.

“LUI” IL TERREMOTO

In Abruzzo, nelle aree colpite dal forte sisma del 6 aprile  2009 (300 i morti), è ormai chiamato famigliarmente il “Lui”. Come fosse una cosa viva e lo è, il pulsare della terra è devastante e logorante. I danni. Le macerie.La paura, ma soprattutto il ripetersi delle forti scosse durate per settimane. E’ questa l’anomalia anche per i sismologi di questo terremoto (per qualcuno preannunciato) che è arrivato nel cuore notte. Come in un assedio da allora è stato un lento logorio di nervi.“Di giorno ci tiene svegli –dicono alcuni terremotati con innata ironia-, mentre di notte vorrebbe svegliarci…Mannaggia a Lui!”.

QUEL  RUMORE

Il terremoto ha un suo distinto suono. Una voce che anticipa il suo arrivo.Pochi secondi di un suono cupo e sinistro che viene dal basso dopo di che i piedi iniziano a tremare.

Puoi essere avvezzo ad ogni tipo di rumore, ma quello “spaventoso” del terremoto è distinto e indelebile. Lo raccontano i sopravvissuti. Lo confermano anche i soccorritori. All’Aquila tutti sono diventati forzatamente dei sismologi: già dal rumore molti stabiliscono l’entità della scossa.

Sbagliano di poco perché è “l’abitudine” alla paura ad aver affinato i loro sensi.“A forza di scosse –spiega con ironia l’anziana terremotata Gilda, di 94 anni in carrozzina- semo tirati come le corde di un violino. Qui se move tutto, così che abbiamo pure imparato a ballà!”.

TENDE E POLEMICHE

Nelle polemiche c’è poco di diverso dai casi analoghi del terremoto del Molise e Umbria. Dell’Irpinia e Friuli. Gli avvoltoi della politica e della polemica ronzano sempre, a torto o a ragione, sulle tragedie. La macchina dei soccorsi però è partita quasi subito. Alle difficoltà dei primi giorni si è arrivati a coprire le esigenze dei migliaia di sfollati. Vedi qui una città di muri sgretolati visibili e una invisibile che è quella dei palazzi lesionati dentro (migliaia) che dovranno essere abbattuti.

C’è la città dei vivi nelle tendopoli, e quella svuotata che sa di apocalisse. Impressionante è il silenzio di molti piccoli paesi arroccati sulle pendici delle valli Aterna e Subequana, che il sisma ha accartocciato laddove oggi è il vento a far da padrone, smuovendo nubi di polvere che completa l’opera di quanto è rimasto barcollante.

CITTA’ E PAESI

Una città intera, l’Aquila, evacuata. I suoi cittadini costretti ad accamparsi. Il centro storico, una montagna di macerie. Peggio ancora la periferia, dove la maggioranza dei palazzi di ultima generazione sono in piedi, ma internamente lesionati. Oltre la metà dovranno essere abbattuti: case nuove ( di burro) lesionate dal terremoto prima e distrutte dagli uomini poi. Di notte la città aquilana è spenta. Le strade presidiate dai militari come in tempo di guerra col coprifuoco. Qui però il nemico non si vede: si sente. Sulle pendici delle montagne, paesi e frazioni a noi sconosciuti abbiamo imparato a conoscerli in fretta: Fossa, San Eusanio, Onna, Castelnuovo, San Demetrio, Paganica, Bariscano, Piscenze, ecc. Puntini nelle carte geografiche, oggi sono spettrali scenografie che vanno al di là di ogni immaginazione: peggio della guerra stessa. C’è qui il silenzio dei paesi abbandonati e il brulichio delle tendopoli. Degli spazi vuoti e quelli sovrappopolati dei campi. Gli odori della vita e della distruzione. Tutto ciò ti riporta al senso primitivo dell’impotenza e la precarietà nostra contro le forze naturali. Poi la solidarietà della sopravvivenza. L’esperienza, per tutti, vittime o soccorritori, è un grande dizionario di umanità. Ciò che cambia fuori, trasforma ciò che hai dentro: rabbia o speranza che sia come una lezione dopo che il maestro si è mostrato troppo severo

I VOLTI CHE TREMANO

Noi vediamo il paesaggio, le bellezze e la sua gente. Quando poi tutto questo viene sfregiato, si perde la bellezza, si modifica il paesaggio, ma non mutano i volti. La gente d’Abruzzo stoicamente ha resistito. Le lacrime hanno lasciato presto trasparire dai loro volti la voglia di restare e continuare. Quante volte mi sono sentito chiedere: hai visto la disperazione di quel popolo? No, ho visto la dignità del dolore, ma anche i sorrisi di chi vive nel dramma, ma non si rassegna. Come sempre (anche nelle guerre) due sono le sentinelle: i bambini e gli anziani. Questi ultimi, coloro cioè che custodivano i piccoli borghi abruzzesi, sono il vero monumento vivente alla resistenza. Hanno resistito alle guerre e ora con le loro ultime forze intendono combattere l’ultima battaglia. I monumentali vecchi abruzzesi, forgiati nel carattere, pur trovandosi fuori di casa, lontano dai paesi, senza le solite abitudini e costretti a stare sotto una tenda non hanno perso la loro innata volontà. In molti poi ironizzano sulla sorte. Contro questi, il terremoto può fare ben poco…

IN SERVIZIO SENZA DIVISA

Va ben oltre il senso del dovere quello degli agenti di polizia o forestali che prestano servizio pur essendo loro stessi dei terremotati. Sfollati come gli altri che vivono sotto le tende, pronti  a compiere il loro compito nella delicata fase dei soccorsi.Decine i forestali del Corpo forestale dell’Aquila, sebbene senza divisa e con vestiti di ripiego, si sono visti aggirare nella loro sala operativa di S.Elia, con il cuore diviso a metà tra la famiglia e la gente. “Non abbiamo più niente, neppure i vestiti –raccontava uno di loro-, ma dobbiamo fare tutto…”.

FRATI SPOGLIATI DI TUTTO

Non si vede perché non ho più l’abito, ma sono un frate..” mi disse un anziano cappuccino ferito ad un braccio del convento di S.Chiara dell’Aquila, lesionato dal terremoto e, costretto a vivere con altri sei suoi confratelli dentro uno scompartimento cuccette di un vagone ferroviario alla stazione centrale.

Con lui altri frati più giovani che risaltano per il lo spirito. Chitarra in mano, vanno e vengono dalle tendopoli. Segni evidenti di una spiritualità ridotta all’essenza della povertà più vera.

CHIESE-MAGAZZINO

Sono poche le chiese rese agibili in tutto il territorio terremotato. I luoghi di culto sono i più danneggiati (oltre 450 edifici). Chiese rase al suolo o da demolire. Cristi e madonne terremotate. In una di quelle risparmiate e ancora agibile alla periferia dell’Aquila, una chiesa moderna è diventata un grande magazzino di prime necessità. Il Cristo con le braccia spalancate sull’altare, è circondato da scatoloni e vestiti sparsi ovunque sui banchi di preghiera. Un “supermercato” dei bisognosi dove la gente arriva e prende ciò che gli serve. Fuori invece -era il giorno di Pasqua-, i preti confessavano stando lontani dai muri. All’aperto e sotto il sole anche i primi battesimi, come ai tempi del cristianesimo delle origini.

ANGELI-SOCCORRITORI

Tanti e dovunque. Un “esercito della salvezza” dai mille dialetti, con un unico obiettivo: portare soccorso. Efficienti, professionali, delicati e disponibili. Chi invece riceve il loro aiuto è pronto a riconoscerne i meriti.“Ci sentiamo amati…” dicono sotto le tende.

E’ una certezza che vale più di una medicina, con che gli anziani  sornioni dicono col sorriso: “Non abbiamo mai mangiato così tanto e bene come in questi giorni…”. Le tende blu cobalto sono dovunque, e ovunque è arrivato il soccorso. “Grazie anche a voi giornalisti per essere qua…”.

LA RICOSTRUZIONE(!?)

Dopo l’emergenza la ricostruzione. I tempi saranno lunghi, ma a nessuno dei terremotati è vietato pensare al futuro. “Il cibo e il vestiario non sono mai mancati –spiega il vicequestore della forestale Luciano Sammarone, coordinatore i servizi di soccorso-, l’importante ora è che si agisca in maniera razionale”.

“Per questo chiedo anche agli imprenditori vicentini uno sforzo per promuovere azioni che mirate a sostenere la ricostruzione. Mi rivolgo a chi costruisce case di legno, che sono decisamente migliori dei container, per loro potrebbe essere una buona congiuntura per piazzare i loro prodotti”.

“L’importante è che arrivino preventivi e progetti da presentare a quei cittadini desiderosi di affrontare al meglio il lungo tempo che servirà per la ricostruzione”. Parola questa che ad oggi resta un miraggio per tutta la popolazione aquilana, colpita due volte: dal terremoto e dalla mala-politica italiana.

L’IMMAGINE SIMBOLO: IL SOLE SFREGIATO DI ONNA

C’è sempre un’immagine simbolo che emerge da una tragedia. Un’ancora di salvezza per evitare l’oblio del dolore. Tutti ne hanno una, più o meno segreta o svelata.

La mia è quella di un sole che ride dipinto a mano su una mattonella che spuntava dalle macerie di una casa di Onna, il paese simbolo della devastazione. Qui persero la vita quaranta persone e in quella casa furono quattro le La piastrella era ammassata tra le montagne di macerie. Era sfregiato, ma quel sole sorrideva ancora. L’immagine mostrava tutta la crudeltà di ciò che è e ciò doveva essere stato fino a poco tempo prima. Chiesi se potevo prendere quel sole ad un vigile del fuoco: “Se lo prenda pure quel sole sfregiato, ma ne abbia cura…” mi rispose lui. vittime.

QUEL SOLE SPUNTATO DALLE MACERIE E RICONOSCIUTO DA UNA CITTADINA DI VICENZA

“Sì, quel sole dipinto sulla pietra era proprio a pochi passi dalla mia casa di Onna, dove sono nata e cresciuta…”. A dirlo è Vera de Felice, 74 anni, residente a Vicenza, nativa però del piccolo paese abruzzese straziato dal terremoto di due settimane fa. Singolare la sua vicenda umana, ma altrettanto quella del frammento di pietra su cui è affrescato un sole ridente, oggi sfregiato, raccolto e portato a Montegaldella per essere esposto in chiesa. Non è facile dimenticare l’immagine di un sole che ride, impolverato ai margini di un deserto di macerie. Difficile dimenticare poi le parole di un vigile del fuoco che il giorno di Pasqua mi disse: “Abbia cura di questo sole…”.

Simbolo di luce, sembrava  essere tramontato su una montagna di macerie, diventando inconsapevolmente segno di morte e speranza. Quel giorno di “resurrezione” lo raccolsi con il rispetto che si deve a un simbolo,  considerando che chi l’aveva dipinto era rimasto travolto dagli stessi muri affrescati. “Lì sotto –mi  dissero i soccorritori- è morta un’intera famiglia!”. Arrivato a Montegaldella, il sole è stato esposto in chiesa con la precisa volontà di diventare un messaggio di sensibilizzazione in particolar modo nella giornata di ieri che la Chiesa ha dedicato ai terremotati. Ad aver notato la foto comparsa sul nostro giornale con quel sole è stata  proprio  la signora Vera che l’ha subito associato alla variopinta casa nobiliare sbriciolatasi nel centro di Onna. Ma il suo è un dolore riservato e quanto mai vivo : “Sotto le macerie –racconta commossa la signora Vera De Felice-, ho perso i nipoti Alessandro di 4 anni e Lorenzo di 3 col rispettivo padre Antonio. Sono ritrovati trovati stretti uno all’altro. Così sono partiti per il cielo…”. “Conoscevo bene anche gli abitanti di quella casa dov’era affrescato il piccolo sole”, aggiunge lei. “Vi abitava l’anziana Emma Colaianni con la figlia e un giovane nipote: tutti morti. Come loro altre 37 persone travolte da quei crolli che hanno cancellato in pochi secondi ricordi e affetti. Il terremoto ha straziato una parte della mia vita, tanto che oggi fatico a trovare il coraggio di pensare di ritornare nel mio paese”. Quel sole risorto dalle macerie per Vera Felice è un frammento doloroso che si aggiunge al mosaico di emozioni di questi giorni.

A sostenere nei ricordi c’è il marito Pietro Calegaro che a Onna c’è stato solo qualche mese fa: “Lì abbiamo ancora la casa di mia moglie, -racconta il marito- che si trova  proprio a pochi passi dove un tempo si trovava la casa del sole, conosciuta in paese per la scritta che campeggiava sulla porta d’entrata: “Parva domus magna quies”. Dico così perché la nostra casa è rimasta miracolosamente intatta nonostante intorno sia crollato tutto. Sono stati i nostri figli a raccontarci ciò che è successo, quando il giorno dopo il sisma sono partiti da Vicenza per raggiungere il paese abruzzese”. “Mia moglie ha ancora gli occhi lucidi quando alla televisione vede ciò che resta del suo paese natale. E poi, a Onna sono quasi tutti parenti…” spiega il marito. “Nessuno, inclusi i superstiti, possono entrare in paese per il pericolo dei crolli. Così le notizie mi arrivano tramite i  nostri figli accampati anche loro alla periferia del piccolo borgo”.Parla e racconta con lo spirito di mamma, zia e cittadina moralmente ferita la signora Vera, osservando a quel sole risorto dalle macerie: “Purtroppo questo simbolo non risplenderà più per chi è morto. Chi invece è rimasto vivo vede la luce del mattino illuminare la tragedia e l’oscurità occultarne le ferite”.

L’ALBUM DELLA MEMORIA