di Antonio Gregolin riproduzione vietata di testo e foto
IL FUTURO “ROSA” DELLA BOSNIA
Tre storie . Tre donne passate dal dramma della guerra al futuro che vorrebbero.
SARAJEVO(BjH) “Un giorno la gente che andava alla posta di Sarajevo, lesse questa scritta sul muro: “Questa è la Serbia”. Allora la guerra era già scoppiata da un anno. Il giorno dopo, su quello stesso muro qualcun altro aveva cancellato la scritta e né aveva aggiunta un’altra: “Questa è la Bosnia”. Il giorno dopo ancora, qualcuno cancellò quella scritta e con cruda lucidità scrisse: “Questa è la posta, stupidi!”.
Lo scriveva Piero Tannini nel suo libro “Significati del confine” quando tentava di spiegare i motivi del conflitto etnico in Bosnia dal 1992 al 1995. Lo si intuisce ancora oggi, quindi anni dopo la guerra e una ricostruzione che ha quasi cicatrizzato le ferite del territorio, che la Bosnia resta un enigma europeo.
Se non respiri l’aria della Bosnia non puoi comprendere cosa sia la Bosnia. Chi s’inoltra fin nel cuore dei Balcani, non troverà una risposta ai dubbi, men che meno una nazione unica come la descrivono i trattati internazionali.
Troverà piuttosto donne e reduci, orfani e giovani, vecchi che piangono ancora i loro morti. Parlerà coi i serbi che però difficilmente trattano coi mussulmani. Coi nazionalisti, così come i rassegnati, ecc.. E’ questo il puzzle civile che la guerra ha tramandato.Aveva ragione il vescovo di Sarajevo, Pero Sudar, quando un giorno in uno dei nostri colloqui amichevoli, riassunse con una delle sue proverbiali frasi il passato, presente e futuro di questa travagliata terra:“In Bosnia –disse lui-, stiamo facendo ancora delle prove di civiltà!”. La Bosnia di oggi ha inumato forzatamente, come riscatto dall’immenso dolore, i genocidi, i lutti, e buona parte dei ricordi
legati al conflitto (1992-1995), non riesce però ancora a nascondere ciò che gli occhi della sua gente fa trasparire, nonostante lo sforzo di mascheramento, quando si sentono sfiorati dalla parola “guerra”. Attimi di sguardi, che potrebbero riempire interi di libri. Qui il dolore oggi è muto, a volte sordo, nascosto nel pudore di un popolo che dopo quindici anni ancora non sa darsi una risposta sul perché sia potuto accadere tutto ciò.Una risposta per tutte, lapidaria e rassegnata fu quella di una vecchia donna mussulmana di Mejeja che accompagnai nella sua casa, semidistrutta.
Rientrava nella sua casa dopo che per cinque anni è stata lontana perché cacciata dai serbi. Vi ritornava sola e in compagnia di una cieca speranza: quella di rivedere un giorno o l’altro, i suoi figli tornare a casa dati per dispersi (missing) nel 1994. Smarrita in quella vana speranza allora mi disse: “Una cosa ho capito, quella che il sangue e le lacrime, hanno lo stesso colore in ogni parte del mondo. Qui, i morti non resuscitano…”
In Bosnia, la storia ha cambiato radicalmente le cose ma più ancora i suoi cittadini. I morti vivono nel ricordo dei vivi, e questi in molti casi sopravvivono a loro stessi. Ma ha anche lasciato segni visibili di un’altra Bosnia che cresce in parallelo, nutrendosi dello stesso coraggio che ha fatto sopravvivere una generazione di donne, forgiate dal fuoco della follia, come pure dalla speranza di poter rivedere una Bosnia rinata.Tre esperienze in “rosa” che nella diversità testimoniano il presente e futuro di questa terra che se vista “t’innamori”.
UN SINDACO DONNA PER SARAJEVO
(testimonianza 2005)
Semiha Borovac, 51anni è la prima donna mussulmana sindaco della capitale bosniaca, dopo 120 anni e ben 53 sindaci che l’hanno preceduta. “E’ un privilegio per me presiedere questa carica come prima donna. Un onore che riverso a tutta la mia gente”. “Sarò sindaco di Sarajevo per un anno, – spiega la signora Borovac, facendo intuire il clima che permane in questa realtà-, ma avrò il tempo di avviare quei cambiamenti che la gente si aspetta. Serve da subito una pianificazione urbana e la pulizia della città per ridare vitalità a quel turismo che ancora manca. Per questo mi rivolgo agli italiani e vicentini, dicendogli che in Bosnia saranno sempre i benvenuti come turisti o imprenditori. I rischi sono quasi inesistenti per chi vuole venire come turista, per ammirare la Sarajevo, perla dei Balcani”. E la stabilizzazione? “La convivenza a Sarajevo –risponde il sindaco-, è sempre stata una cosa “normale”, dettata da una tradizione plurisecolare che ha visto etnie convivere senza particolari problemi. E’ questo tipo di tradizione che dobbiamo e vogliamo sostenere pensando al nostro futuro. Dieci anni dopo la guerra, le tracce del conflitto sono soprattutto nei numeri, nelle cifre, nelle previsioni. I profughi che erano espatriati, stanno pian piano rientrando. Con gli accordi di Dayton (1995), a Sarajevo possiamo finalmente dire che tutte le case sono state riconsegnate ai loro legittimi proprietari. Anche i campi profughi sono ormai un ricordo. Il principio della proprietà privata è tornato nel seno della legalità tra tutte le etnie. Se poi devo rispondere a chi sostiene che Sarajevo, come la Bosnia, si stia islamicizzando –è perentoria la signora Borovac-, dico che qui i mussulmani sono tornati ad essere lo stesso numero che erano prima della guerra.
Le nuove moschee che si vedono costruire (tra le più grandi del Paese Ndr) stanno rinascendo dalle ceneri di quelle distrutte. Lo stesso dicasi per le chiese ortodosse e cattoliche”.“Sul piano internazionale poi, –continua il sindaco- abbiamo aperto relazioni con la Serbia e il Montenegro, pensando agli interessi comuni e i vantaggi per i rispettivi popoli. La volontà di entrare in Europa, è per noi una necessità primaria, e ciò potrebbe concretizzarsi solo se riusciremo a collaborare tra Stati. Ora che Milosévich è morto, la via della Giustizia è stata prolungata, ma non si è fermata. Mi auguro che questo inaspettato evento, finisca col favorire quel tiepido rapporto di collaborazione internazionale, sul fronte della verità che qui tutti attendiamo”.
“ZILKA DEL PANE” UNA MUSSULMANA PER I POVERI
Donna dell’anno nel 2002 per l’aiuto offerto ai poveri di Sarajevo.
All’ombra dai minareti della grande moschea nel quartiere antico di Sarajevo, ogni mattina si ripete da decenni (anche durante l’assedio) la medesima pietosa scena. Una lunga fila di persone in attesa di ricevere il pasto quotidiano.Vecchi e donne con pentole in mano, attendono che “Zilka Tetca” – come tutti qui la chiama affettuosamente-, esca coi suoi volontari a distribuire le razioni di cibo. Come sempre accade, si presenta con un grande pentolone tra le mani imponente come la sua mole.
Il suo sorriso resta incorniciato nel velo tradizionale che portano le donne mussulmane. Come durante la guerra, (una lapide a pochi metri da qui, ricorda una delle stragi), il suo lavoro è rimasto sempre uguale: aiutare i bisognosi. “Quel giorno del 1993 – ricorda Zilka-, la gente era in fila come al solito; un boato improvviso, fece una strage. Nove morti, tra cui alcuni ragazzi e madri di famiglia. Morire mentre si aspettava il pane e’stato per quattro lunghi anni la “normalità” di questa nostra guerra!”.
“La fame qui continua a farsi sentire, – risponde un anziano pensionato-, oggi non c’è più la guerra ma combattiamo contro la nostra stessa povertà…”. “Povertà”, parola che qui come nel resto della Bosnia, rimane un’ombra. Qualcosa che si traveste e si nasconde, serpeggia e dilaga. Zilka Tetca lo spiega e quando non parla, chiede di voltarsi verso la fila ininterrotta di persone che bussano a questa mensa fondata dalla Mezza Luna Rossa mussulmana. Dentro, tra gli archi di un vecchio palazzo del periodo ottomano, la cucina è un viavai di volontari che preparano razioni di cibo. Zilka, la incontrai otto anni fa, e da allora l’ho rivista più volte in questi anni, sempre con la stessa tenacia.
Non è dunque un caso se qui ti senti dire che Zilka Tecta, è “una donna buona come il pane”. Un pane che per molti qui significa sopravvivenza e speranza. Ogni giorno da questa mensa escono oltre 700 pasti caldi, destinati alla gente locale come a coloro che abitano nei villaggi limitrofi”. “Ma il suo è un lavoro?” chiedo a lei. “Non lo considero come tale, è un impegno verso coloro che hanno bisogno. Allah ha voluto che facessi questo, rispondendo a una mia precisa richiesta, dopo che vidi morire di cancro mia figlia di 25 anni.”
“Allora volevo che il mio dolore si trasformasse in aiuto concreto verso gli altri. Così nel 1992 (la guerra sarebbe scoppiata di lì a qualche mese), sono entrata in questa cucina”. “Durante la guerra – racconta la donna-, le televisioni europee mandarono appelli per garantirci i rifornimenti di cibo, e ancor oggi la collaborazione con molte associazioni cattoliche, sono la dimostrazione che l’impegno comune diventa un valore aggiunto verso l’aiuto ai poveri.” Così per 365 giorni l’anno, la “zia di Sarajevo” continua ad aprire la porta a serbi, mussulmani, cattolici: “Qui non facciamo alcuna distinzione di nazionalità o religione! Se vengono è perché hanno bisogno, e questo basta per offrirgli 400gr di pane e un piatto di minestra. Molti di loro sono pensionati che non superano i 60 euro al mese, mentre altri sono disoccupati con figli a carico o senza tetto”.
Il suo impegno è stato ufficialmente riconosciuto dalla città di Sarajevo nel 1999, con il titolo di “Donna più umana dell’anno”. L’anno successivo, il premio fu conferito ad una suora cattolica. Come vuole la tradizione, il passaggio del testimone tra le due protagoniste avvenne sulla soglia di una storica scalinata: “Quel giorno –ricorda Zilka-, ci siamo guardate a lungo negli occhi senza dirci nulla, perché sentivamo di condividere lo stesso spirito di solidarietà. Non mi preoccupo troppo del domani: so che da lassù qualcuno ci sostiene. Temo solo che nel futuro della Bosnia –conclude la donna-, si crei un’insanabile spaccatura tra chi è sempre più povero, e chi invece diventa sempre più ricco.”
SUOR ADMIRATA, IL SORRISO DEL CORAGGIO
Cattolica, suora e madre degli orfani di Sarajevo
Un altro sorriso di donna. Cecchini e granate non hanno mai spento questo genere di bellezza. Nemmeno la “pulizia etnica” è riuscita a scalfire la dignità femminile che ha la delicatezza di una suora cattolica, che si occupa dell’orfanotrofio “Casa Egitto”, posto su una delle colline che circondano la capitale. Suor Admirata, 53 anni, bosniaca di Bugoino, è dell’Ordine delle Suore Ancelle del Bambin Gesù. In guerra ha perso il padre, e la sua casa è andata distrutta, mentre la grande struttura -oggi ristrutturata-, in cui le vivono suore fu data alle fiamme. Quei lunghi corridoi coloniali sono così tornati a riempirsi di voci bambine. Sessanta sono i piccoli orfani che le suore accudiscono e fanno crescere come mamme. Il suo è tutto un sorriso, tanto che drammi e speranze lei riesce a descriverli con la stessa serenità: “Molti di questi nostri bimbi sono orfani, – racconta suor Admirata-, e altri sono stati abbandonati dai genitori che si sono ammalati a causa della guerra. I segni che lascia un conflitto fratricida come il nostro, tracciano un solco profondo nel tempo e nella memoria. Alcuni di queste creature che ospitiamo, sono il “frutto” degli stupri etnici. Altri invece, sono nati o hanno contratto misteriose malformazioni”. La guerra, tra le stanze della “Casa Egitto” è un marchio stampato ancora sui corpi di molti bambini. “Quei tragici eventi – sottolinea la religiosa-, hanno lasciato strascichi sociali ovunque. Basti pensare alle difficoltà dei cristiani che, in molti casi, preferiscono oggi emigrare all’estero perché la convivenza coi musulmani si è fatta difficile”. La religiosa, cinque anni fa venne aggredita e picchiata da sconosciuti vicino al suo convento: “Non è vero come qualcuno sostiene – sottolinea suor Admirata-, che le nostre chiese vengono ricostruite tanto quanto le moschee. Se il mondo islamico fondamentalista che finanzia i bambini perché frequentino le scuole coraniche avrà il sopravvento, non sono tanto sicura che la convivenza tra differenti religioni possa mantenersi in equilibrio. Se poi dovessi rispondere se esiste uno scontro di civiltà, direi di sì, perché i valori sono differenti”. “E’ vero che non tutti i musulmani sono così, – conclude la religiosa-, ma quelli che io conoscevo da piccola, non sono più come quelli che vedo oggi trovo per le strade di questa città”.
L’ALBUM DELLA MEMORIA