STORIE DI BOSNIA AL FEMMINILE

di Antonio Gregolin                                          riproduzione vietata di testo e foto

IL FUTURO “ROSA” DELLA BOSNIA

Tre  storie . Tre donne  passate dal dramma della guerra al futuro che vorrebbero.

SARAJEVO(BjH) Un giorno la gente che andava alla posta di Sarajevo, lesse questa scritta sul muro: “Questa è la Serbia”. Allora la guerra era già scoppiata da un anno. Il giorno dopo, su quello stesso muro qualcun altro aveva cancellato la scritta e né aveva aggiunta un’altra: “Questa è la Bosnia”. Il giorno dopo ancora, qualcuno cancellò quella scritta e con cruda lucidità scrisse: “Questa è la posta, stupidi!”.

Sarajevo oggi 2010                                                                                      enigma tutto europeo.

Lo scriveva Piero Tannini nel suo libro “Significati del confine” quando tentava di spiegare i motivi del conflitto etnico in Bosnia dal 1992 al 1995. Lo si intuisce ancora oggi, quindi anni dopo la guerra e una ricostruzione che ha quasi cicatrizzato le ferite del territorio, che la Bosnia resta un enigma europeo.

Se non respiri l’aria della Bosnia non puoi comprendere cosa sia la Bosnia. Chi s’inoltra fin nel cuore dei Balcani, non troverà una risposta ai dubbi, men che meno una nazione unica come la descrivono i trattati internazionali.

Troverà piuttosto donne e reduci, orfani e giovani, vecchi che piangono ancora i loro morti. Parlerà coi i serbi che però difficilmente trattano coi mussulmani. Coi nazionalisti, così come i rassegnati, ecc.. E’ questo il puzzle civile che la guerra ha tramandato.Aveva  ragione il vescovo di Sarajevo, Pero Sudar, quando un giorno in uno dei nostri colloqui amichevoli, riassunse con una delle sue proverbiali frasi il passato, presente e futuro di questa travagliata terra:In Bosnia –disse lui-, stiamo facendo ancora delle prove di civiltà!”. La Bosnia di oggi ha inumato forzatamente, come riscatto dall’immenso dolore, i genocidi, i lutti, e buona parte dei ricordi

legati al conflitto (1992-1995), non riesce però ancora a nascondere ciò che gli occhi della sua gente fa trasparire, nonostante lo sforzo di mascheramento, quando si sentono sfiorati dalla parola “guerra”. Attimi di sguardi, che potrebbero riempire interi di libri. Qui il dolore oggi è muto, a volte sordo, nascosto nel pudore di un popolo che dopo quindici anni ancora non sa darsi una risposta sul perché sia potuto accadere tutto ciò.Una risposta per tutte, lapidaria e  rassegnata fu quella di una vecchia donna mussulmana di Mejeja che accompagnai nella sua casa, semidistrutta.

Rientrava nella sua casa dopo che per cinque anni è stata lontana perché cacciata dai serbi. Vi ritornava sola e in compagnia di una cieca speranza: quella di rivedere un giorno o l’altro, i suoi figli tornare a casa dati per dispersi (missing) nel 1994. Smarrita in quella vana speranza allora mi disse: “Una cosa ho capito, quella che il sangue e le lacrime, hanno lo stesso colore in ogni parte del mondo. Qui, i morti non resuscitano…”

TUZLA Corpi di Sebreniza in attesa dell’identificazione (2005)

In Bosnia, la storia ha cambiato radicalmente le cose ma più ancora i suoi cittadini. I morti vivono nel ricordo dei vivi, e questi in molti casi sopravvivono a loro stessi. Ma ha anche lasciato segni visibili di un’altra Bosnia che cresce in parallelo, nutrendosi dello stesso coraggio che ha fatto sopravvivere una generazione di donne, forgiate dal fuoco della follia, come pure dalla speranza di poter rivedere una Bosnia rinata.Tre esperienze in “rosa” che nella diversità testimoniano il presente e futuro di questa terra che se vista “t’innamori”.

UN SINDACO DONNA PER SARAJEVO

(testimonianza  2005)

Semiha Borovac, 51anni è la prima donna mussulmana sindaco della capitale bosniaca, dopo 120 anni e ben 53 sindaci che l’hanno preceduta. “E’ un privilegio per me presiedere questa carica come prima donna. Un onore che riverso a tutta la mia gente”. “Sarò sindaco di Sarajevo per un anno, – spiega la signora Borovac, facendo intuire il clima che permane in questa realtà-, ma avrò il tempo di avviare quei cambiamenti che la gente si aspetta. Serve da subito una pianificazione urbana e la pulizia della città per ridare vitalità a quel turismo che ancora manca. Per questo mi rivolgo agli italiani e vicentini, dicendogli che in Bosnia saranno sempre i benvenuti come turisti o imprenditori. I rischi sono quasi inesistenti  per chi vuole venire come turista, per ammirare  la Sarajevo, perla dei Balcani”. E la stabilizzazione? “La convivenza a Sarajevo –risponde il sindaco-, è sempre stata una cosa “normale”, dettata da una tradizione plurisecolare che ha visto etnie convivere senza particolari problemi. E’ questo tipo di tradizione che dobbiamo e vogliamo sostenere pensando al nostro futuro. Dieci anni dopo la guerra, le tracce del conflitto sono soprattutto nei numeri, nelle cifre, nelle previsioni. I profughi che erano espatriati, stanno pian piano rientrando. Con gli accordi di Dayton (1995), a Sarajevo possiamo finalmente dire che tutte le case sono state riconsegnate ai loro legittimi proprietari. Anche i campi profughi sono ormai un ricordo. Il principio della proprietà privata è tornato nel seno della legalità tra tutte le etnie. Se poi devo rispondere a chi sostiene che Sarajevo, come la Bosnia, si stia islamicizzando –è perentoria la signora Borovac-, dico che qui i mussulmani sono tornati ad essere lo stesso numero che erano prima della guerra.

minareto distrutto nord di Sarajevo 1994

Le nuove moschee che si vedono costruire (tra le più grandi del Paese Ndr) stanno rinascendo dalle ceneri di quelle distrutte. Lo stesso dicasi per le chiese ortodosse e cattoliche”.“Sul piano internazionale poi, –continua il sindaco- abbiamo aperto relazioni con la Serbia e il Montenegro, pensando agli interessi comuni e i vantaggi per i rispettivi popoli. La volontà di entrare in Europa, è per noi una necessità primaria, e ciò potrebbe concretizzarsi solo se riusciremo a collaborare tra Stati. Ora che Milosévich è morto, la via della Giustizia è stata prolungata, ma non si è fermata. Mi auguro che questo inaspettato evento, finisca col favorire quel tiepido rapporto di collaborazione internazionale, sul fronte della verità che qui tutti attendiamo”.

“ZILKA DEL PANE” UNA MUSSULMANA PER I POVERI

Donna dell’anno nel 2002 per l’aiuto offerto ai poveri di Sarajevo.

All’ombra dai minareti della grande moschea nel quartiere antico di Sarajevo, ogni mattina si ripete da decenni (anche durante l’assedio)  la medesima pietosa scena. Una lunga fila di persone in attesa di ricevere il pasto quotidiano.Vecchi e donne con pentole in mano, attendono che “Zilka Tetca” – come tutti qui la chiama affettuosamente-, esca coi suoi volontari a distribuire le razioni di cibo. Come sempre accade, si presenta con un grande pentolone tra le mani imponente come la sua mole.

Il suo sorriso resta incorniciato nel velo tradizionale che portano le donne mussulmane. Come durante la guerra, (una lapide a pochi metri da qui, ricorda una delle stragi), il suo lavoro è rimasto sempre uguale: aiutare i bisognosi. “Quel giorno del 1993 – ricorda Zilka-, la gente era in fila come al solito; un boato improvviso, fece una strage. Nove morti, tra cui alcuni ragazzi e madri di famiglia. Morire mentre si aspettava il pane e’stato per quattro lunghi anni la “normalità” di questa nostra guerra!”.

“La fame qui continua a farsi sentire, – risponde un anziano pensionato-, oggi non c’è più la guerra ma combattiamo contro la nostra stessa povertà…”. “Povertà”, parola che qui come nel resto della Bosnia, rimane un’ombra. Qualcosa che si traveste e si nasconde, serpeggia e dilaga.  Zilka Tetca lo spiega e quando non parla, chiede di voltarsi verso la fila ininterrotta di persone che bussano a questa mensa fondata dalla Mezza Luna Rossa mussulmana. Dentro, tra gli archi di un vecchio palazzo del periodo ottomano, la cucina è un viavai di volontari che preparano razioni di cibo. Zilka, la incontrai otto anni fa, e da allora l’ho rivista più volte in questi anni, sempre con la stessa tenacia.

Non è dunque un caso se qui ti senti dire che Zilka Tecta, è “una donna buona come il pane”. Un pane che per molti qui significa sopravvivenza e speranza. Ogni giorno da questa mensa escono oltre 700 pasti caldi, destinati alla gente locale come a coloro che abitano nei villaggi limitrofi”. “Ma il suo è un lavoro?” chiedo a lei. “Non lo considero come tale, è un impegno verso coloro che hanno bisogno. Allah ha voluto che facessi questo, rispondendo a una mia precisa richiesta, dopo che  vidi morire di cancro mia figlia di 25 anni.”

“Allora volevo che il mio dolore si trasformasse in aiuto concreto verso gli altri. Così nel 1992 (la guerra sarebbe scoppiata di lì a qualche mese), sono entrata in questa cucina”. “Durante la guerra – racconta  la donna-, le televisioni europee mandarono appelli per garantirci i rifornimenti di cibo, e ancor oggi la collaborazione con molte associazioni cattoliche, sono la dimostrazione che l’impegno comune diventa un valore aggiunto verso l’aiuto ai poveri.” Così per 365 giorni l’anno, la “zia di Sarajevo” continua ad aprire la porta a serbi, mussulmani, cattolici: “Qui non facciamo alcuna distinzione di nazionalità o religione! Se vengono è perché hanno bisogno, e questo basta per offrirgli 400gr di pane e un piatto di minestra. Molti di loro sono pensionati che non superano i 60 euro al mese, mentre altri sono disoccupati con figli a carico o senza tetto”.

Il suo impegno è stato ufficialmente riconosciuto dalla città di Sarajevo nel 1999, con il titolo di “Donna più umana dell’anno”. L’anno successivo, il premio fu conferito ad una suora cattolica. Come vuole la tradizione, il passaggio del testimone tra le due protagoniste avvenne sulla soglia di una storica scalinata: “Quel giorno –ricorda Zilka-, ci siamo guardate a lungo negli occhi senza dirci nulla, perché sentivamo di condividere lo stesso spirito di solidarietà. Non mi preoccupo troppo del domani: so che da lassù qualcuno ci sostiene. Temo solo che nel futuro della Bosnia –conclude la donna-, si crei un’insanabile spaccatura tra chi è sempre più povero, e chi invece diventa sempre più ricco.”

SUOR ADMIRATA, IL SORRISO DEL CORAGGIO

Cattolica, suora e madre degli orfani di Sarajevo

Un altro sorriso di donna. Cecchini e granate non hanno mai spento questo genere di bellezza. Nemmeno la “pulizia etnica” è riuscita a scalfire la dignità femminile che ha la delicatezza di una suora cattolica, che si occupa dell’orfanotrofio “Casa Egitto”, posto su una delle colline che circondano la capitale. Suor Admirata, 53 anni, bosniaca di Bugoino, è dell’Ordine delle Suore Ancelle del Bambin Gesù. In guerra ha perso il padre, e la sua casa è andata distrutta, mentre la grande struttura -oggi ristrutturata-, in cui le vivono suore  fu data alle fiamme. Quei lunghi corridoi coloniali sono così tornati a riempirsi di voci bambine. Sessanta sono i piccoli orfani che le suore accudiscono e fanno crescere come mamme. Il suo è tutto un sorriso, tanto che drammi e speranze lei riesce a  descriverli con la stessa serenità: “Molti di questi nostri bimbi sono orfani, – racconta suor Admirata-, e altri sono stati abbandonati dai genitori che si sono ammalati a causa della guerra. I segni che lascia un conflitto fratricida come il nostro, tracciano un solco profondo nel tempo e nella memoria. Alcuni di queste creature che ospitiamo, sono il “frutto” degli stupri etnici. Altri invece, sono nati o hanno contratto misteriose malformazioni”. La guerra, tra le stanze della “Casa Egitto” è un marchio stampato ancora sui corpi di molti bambini. “Quei tragici eventi – sottolinea la religiosa-, hanno lasciato strascichi sociali ovunque. Basti pensare alle difficoltà dei cristiani che, in molti casi, preferiscono oggi emigrare all’estero perché la convivenza coi musulmani si è fatta difficile”. La religiosa, cinque anni fa venne aggredita e picchiata da sconosciuti vicino al suo convento: “Non è vero come qualcuno sostiene – sottolinea suor Admirata-, che le nostre chiese vengono ricostruite tanto quanto le moschee. Se il mondo islamico fondamentalista che finanzia i bambini perché frequentino le scuole coraniche avrà il sopravvento, non sono tanto sicura che la convivenza tra differenti religioni possa mantenersi in equilibrio. Se poi dovessi rispondere se esiste uno scontro di civiltà, direi di sì, perché i valori sono differenti”. “E’ vero che non tutti i musulmani sono così, – conclude la religiosa-, ma quelli che io conoscevo da piccola, non sono più  come quelli che vedo oggi trovo per le strade di questa città”.


Immagine simbolo del passato e futuro della Bosnia

L’ALBUM DELLA MEMORIA

“IL PECCATO” DEL CARDINALE TONINI

di Antonio Gregolin                                          -riproduzione testi e foto vietata-

IL PECCATO CHE CI MIGLIORA…

Peccati e peccatori raccontati dal cardinale Ersilio Tonini.

E’ uno dei provibiri della Chiesa Cattolica, dall’alto dei suoi novantasei anni. Cardinale e vescovo emerito della sua Ravenna, è figura di riferimento socio-politico. Per anni Esilio Tonini è stato l’uomo che ha bucato il video al fianco di Enzo Biagi. Il suo spirito però è rimasto sempre quello di un comune prete che ha sostituto la sua piccola parrocchia, a una più grande, chiamata Italia. Da anni ha scelto di vivere in un modestissimo appartamento (due stanze) lungo una corsia dell’Istituto per disabili di Ravenna. Forse, è per questo che gli viene riconosciuta l’autorità di uno che “parla col cuore e la mente”. Il tema che affrontiamo con lui è eterno quanto spinoso: il peccato.

“Di peccati e peccatori non voglio farne  una materia specialistica” anticipa il cardinale.  “C’è così tanto bene nel mondo – aggiunge- , che ovunque io vada, vedo segni di speranza, ragion per cui mi viene più facile osservare il lato positivo del peccato, piuttosto di quello notoriamente negativo…”.

Come il  lato positivo?

Perchè  no! Quante storie mi vengono in mente che riguardano personaggi, come gente comune, che dai loro errori si sono redenti con la vita e Dio. Quel Dio che non dimentichiamocelo, per i cristiani non è un giudice inflessibile e severo, bensì un padre (Abbà). Un padre che perdona i figli e fa festa quando gli stessi si redimono. Sono questi coloro che fanno la gioia di Dio. Ecco perché nella visione del credente il peccato può diventare “salutare”. Perché può permettere di spalancare quelle porte della responsabilità e coscienza individuale che  non deve arrendersi al senso di colpa…”.

Peccare però porta quasi sempre ad avere un senso di colpa…

Non è detto che sia così. Quanta gente si pente solo dopo essere stata magari arrestata?  Il mio discorso è un altro: un conto è sapere che peccando si tocca il cuore di Dio. Altra cosa è vivere col senso della colpevolezza.

La redenzione porta anche un beneficio psicologico oltre che morale. Sapesse quanta gente oggi vive in questo stato di sofferenza causato dal senso di colpa! Questo atteggiamento parrebbe annullato dalla società attuale, invece, è la causa principale di molte frustrazioni personali che poi ti portano inevitabilmente dallo psicanalista. Permettetemi di fare un passo indietro e risalire semmai, al concetto stesso di ciò che può portare al peccato. Dicevo che sono moltissime le persone che ritrovano se stesse dove aver vissuto esperienze negative, questo perché nel loro profondo, magari tra le tante ombre che avvolgono le coscienze, c’è un germe di  moralità ereditato dalla nostra fanciullezza….

Così assolviamo tutti nel nome dell’eterna innocenza?

Chiamiamola pure educazione, ovvero, quella prima formazione che ci viene impartita con gli insegnamenti dai nostri genitori. Difficilmente dunque, un peccatore rimane tale e senza pentimento, se la sua educazione è stata di un certo tipo. Insomma, anche sul peccare c’è un’indiretta influenza di quanto abbiamo ricevuto quand’eravamo piccoli. Ecco qua il valore fondamentale del ricevere o dare una sana educazione alle generazioni che verranno. Ricordo quanto mi disse un giorno Giovanni Paolo II, tornato dalla sua Polonia: “Sono tornato nel mio Paese – mi disse allora il Papa- per rivedere i luoghi e le persone della mia infanzia che mi hanno dato tutto ciò che sono!”.

Non le pare che in realtà  l’idea dei peccato sia  ormai cambiato nella società moderna?

Certo che sta cambiando, ma io non sarei troppo generico in questa classificazione. C’è sempre la persona in quanto singolo individuo, e nella mia ormai lunga esperienza di confessore, trovo “perle” che non sono poi così rare, ovunque e dovunque, in questa società complessa e caotica. Sapesse quanta gente che incontro, chiede di potersi confessare. Qualcuno me lo chiede anche quando sono in aereo, in treno, per strada. Vedo e sento che c’è voglia di riconciliazione. Certo, questa è una questione personale dicevo, che non può rendersi complice di una asettica statistica.

A  proposito di confessione, si dice che Lei sia stato il confessore del compianto Papa?

Non è così, ho predicato più volte davanti a Giovanni Paolo II con cui avevo un sincero rapporto di stima e amicizia, ma non ho mai confessato sua Santità. La mia missione resta tra la gente comune.  Le voglio raccontare un fatto a proposito della confessione, che non è mai finito sui giornali. Qualche tempo fa incontrai uno dei componenti della banda dei “bambini di Satana”, colpevoli di orrendi delitti. Mi raccontava come nel suo gruppo hanno perso la vita soprattutto coloro che ammettevano di non aver ricevuto la confessione. Questo perché, nella logica diabolica e psicotica di questi adepti, il concetto della redenzione allontana dalla figura satanica che loro adorano.

Soldi, televisione, potere, sono strumenti di peccato?

Sì, molto spesso lo sono. Ma non dimentichiamoci che esistono peccati ben più gravi. E poi, come diceva S. Agostino, i soldi possono fare molto male, come anche favorire molte azioni che concorrono al bene. E’ quando il denaro ci rende schiavi che diventa un peccato grave.

Qual è dunque il peccato più grave?

L’indifferenza, certamente! Oggi i cuori sono duri. Si è perso così il senso della responsabilità individuale e sociale, e si è arrivati ad un individualismo imposto dalla cultura della quantità. Quante sono oggi le pseudo-verità che vengono propinate ripetendole all’infinito? La pubblicità ce lo dimostra, e quando manca questa, ci sono le “nomination” dei tanti grandi fratelli di turno. Davvero questo è un peccato di stupidità infinita. Ci si sta abituando al gusto dell’eliminazione…

Alla spasmodica odiens televisiva di chi sa godere delle sofferenze altrui. Un peccato, potrebbe anche essere perdere la capacità di godere del bello. Non scordiamoci che esiste sì la bruttezza indotta dal male, come la bellezza sprigionata dal bene; spetta a noi saper scegliere con coscienza, difendendoci da quella dilagante indifferenza offerta dal mondo. Cagione di molti nostri mali quotidiani.

L’ultimo “Compendio della Chiesa Cattolica”, è stato voluto da papa Benedetto XVI  e raccoglie le regole fondamentali su cui poggia la Chiesa Cattolica romana.

I cinque precetti della Chiesa Cattolica

1. Partecipare alla Messa la domenica
e le altre feste comandate e rimanere
liberi da lavori e da attività che
potrebbero impedire la santificazione
di tali giorni.
2. Confessare i propri peccati almeno
una volta all’anno.
3. Ricevere il sacramento dell’Eucaristia
almeno a Pasqua.
4. Astenersi dal mangiare carne e osservare
il digiuno nei giorni stabiliti
dalla Chiesa.
5. Sovvenire alle necessità materiali
della Chiesa stessa, secondo le
proprie possibilità.

I sette vizi capitali

1. Superbia
2. Avarizia
3. Lussuria
4. Ira
5. Gola
6. Invidia
7. Accidia.

Le sette opere
di misericordia spirituale

1. Consigliare i dubbiosi.
2. Insegnare agli ignoranti.
3. Ammonire i peccatori.
4. Consolare gli afflitti.
5. Perdonare le offese.
6. Sopportare pazientemente le persone
moleste.
7. Pregare Dio per i vivi e per i morti.

I due comandamenti di carità

1. Amerai il Signore tuo Dio,
con tutto il tuo cuore,
con tutta la tua anima
e con tutta la tua mente.
2. Amerai il prossimo tuo
come te stesso.

IL PAESE ROMENO DEI “BALOCCHI”

Di Antonio Gregolin                           –Testo e foto riservati copyricht 2011-

BUZESCU, DOVE IL RAME DIVENTA ORO.

La “Romwood” rumena, caso unico al mondo, coi suoi palazzi faraonici frutto del commercio del rame degli zingari, che tengono l’oro nei cassetti di casa.

Pensi subito al Paese dei Balocchi di Pinocchio, quando vedi Busescu, piccolo e sperduto villaggio in piena campagna, a 150 km a est di Bucarest. Il cartello d’ingresso, storto e malconcio, non fa presagire granché.  Tanto più che si tratti di un confine virtuale : oltre la realtà è stucchevole, e serve tanta fantasia per tutti per immaginare ciò che ti si prospetta davanti. “Questa è Romwood” ti scatta di pensare immediatamente. Nessuno te lo dice, ma guardandoti attorno, l’impressione è la meraviglia che sconfina nel chic più vero. Un’unica strada principale, asfaltata e con tante piccole vie laterali tutte sterrate. Ma il divertente qui, sono le case, le ville. Anzi i più: le regge.

Il paese è anche conosciuto per essere una zona franca non riconosciuta, dove di fatto a governare sono esclusivamente i “zigani Rom”. Che siamo in una “Terra di Mezzo” lo s’intuisce dalle facce scure, ornate di gioielli. Sono i signori del villaggio, seduti davanti le loro fastose ville, che controllano ogni genere di movimento.

E DIRE CHE ERA SOLO CAMPAGNA…

Qui fino agli anni ’90 c’era solo campagna e la povertà regnava sovrana. Da allora qualcosa – anzi molto- è cambiato.  Qui i Rom hanno fondato il loro piccolo impero, E’ stato  “il miracolo delle pentole di rame”, ovvero quell’artigianato da cui i Rom dicono di ricavare i proventi per poi edificarsi le loro ville faraoniche. “E’ da questo commercio –ci  conferma rompendo l’iniziale diffidenza Stefan Vasile, 47 anni con un sorriso a 24 carati-, che storicamente noi ricaviamo i soldi per costruirci le case”. “Se poi aggiungiamo l’eredità (sempre d’oro Ndr) di ogni famiglia…”, questo  giustifica o quasi, perché davanti alle case  si trovino anche le macchine milionarie dei proprietari.

MA QUESTA NON E’   LA    ROMANIA

Insomma, Buzescu non è certo quello che si può dire Romania. I veri rumeni, qui ci sono ma abitano  poco dietro le faraoniche case: sono povera gente, spesso anziana, che sopravvive grazie agli aiuti che arrivano dai figli emigrati all’estero. Da una parte la ricchezza ostentata degli zingari, dietro la povertà di chi campa con pensioni da 50 euro al mese, che si sposta solo a cavallo.

CASO UNICO IN EUROPA

Difficile credere che ci troviamo per usi e costumi in Europa. Qualcuno afferma che il  caso Buzescu sia addirittura  unico al mondo: “Da nessuna parte troverà dei Rom che vivono come qua…”, dice Vasile mostrando polsi ricoperti da bracciali e anelli luccicanti. Lui non è certo un’eccezione. Poco più in là salutiamo “Tarzan” il figlio del capo Zaharia che da dieci anni è il “sindaco” non ufficiale della comunità.

“Ovviamente la sua casa equivale al suo prestigio, ed è la più bella e grande del paese”, come ci tiene a precisare il figlio. E’ costata quasi cinque miliardi (lire)  e ha una superficie che supera i 450mq per piano. Un palazzo di cinque piani con colonne e terrazze tutto intorno. Non si può visitarlo perché “il padre-padrone” è fuori per affari. “Se poi però voleste visitarla –aggiunge il figlio-, servirebbero oltre mille euro trattabili per l’intervista”. Rinunciamo e salutiamo. Le informazioni immobiliari dicono che qua  i prezzi per acquistare una casa anche se di piccole dimensioni, parte da una base minima di 100mila euro in su.  Se non ci si accontenta, e si preferiscono le grandi dimensioni bisogna disporre da 1 a 3 milione di euro.

COMPRO FERRO E RAME”

Tranquillamente seduto sotto un cartello in cui si legge “Compro ferro vecchio” che sembra una vignetta, c’è il signor Stoica che segue i nostri spostamenti. Anche lui non ha lesinato a spese in quanto a fastosità. La sua casa alle spalle ha tre piani ed è nella media dell’architettura locale: un misto di stile neocoloniale americano e rumeno della Transilvania. Gli architetti però sono tutti locali, che negli anni si sono specializzati affinandone lo stile. Mi preme però sapere se anche qui sentono la crisi: “Il lavoro per ora non manca – mi dicono- e i palazzi continuano ad espandersi”. Il signor Stoica, denti e bracciali d’oro come da tradizione ha un cappello nero e un aria da autentico “mecenate” che pretende assoluto rispetto. Inizia come da tradizione una trattativa per poter visitare la sua casa.  Si passa in breve dai mille euro iniziali ai 30 euro, intervista inclusa. Tutto qui è economia, incluse le parole e la ricchezza è mostrata solo se giustamente remunerata. Su questo è meglio non discutere, ma trattare. “Siate i benvenuti” ci dice Stoica aprendoci portone e porta dopo aver intascato i soldi pattuiti.  L’androne è un bel biglietto da visita: scalone centrale in marmo bianco, due statue greche in gesso ai lati e un poster tropicale centrale. Il frigo è tipicamente americano, e non mancano le luci colorate sul soffitto per le feste. Una discutibile fusione di stili che ben rappresentano i gusti della signora Juliana.

ORO, ORO,  ORO…  TUTTO  IN  UN CASSETTO!

Troviamo la moglie di parecchio più giovane di Stoica nella sua camera da letto, secondo una regia per niente casuale, mentre sta indossando i gioielli per mostrarsi presentabile: oro, oro, ancora oro.

Anche  Stoica non si trattiene e dal cassetto del comodino, ecco che tira fuori a piene mani catene, pendagli, bracciali e crocefissi da mettere al collo. Il ferro di cavallo che indossa per ultimo, pesa -appena- due chili d’oro massiccio.Il “Re Mida” mostra poi il suo asso nella manica: una cravatta in maglia d’oro che lui indossò il giorno del matrimonio. “Cosa che qui facciamo tutti…” aggiunge u pò stupito della mia meraviglia. “Quando scelsi mio marito –incalza l’energica moglie Juliana,- lui si presentò alla mia famiglia con tutto quest’oro.

Avevo 12 anni  e lo scelsi più per la sua ricchezza che per amore” dice facendosi una fragorosa risata. “Un tesoro di marito” mi viene spontaneo rispondergli. “Ma noi qui non siamo i più ricchi. I veri  ricchi qui sono i Grinea che abitano poco più in là!” si affretta a precisare la coppia un pò sconsolata. Difficile è capire cosa intendano per “veri ricchi” dopo che Stoica ci spiega che tutto qui viene pagato o ripagato in  “mahmudele”, gli scellini d’oro ereditati nell’800 durante il regno austro-ungarico.

Veri e propri “zecchini” d’oro da 24 carati, che lui estrae dal solito  comodino. “In casa -confessa Stoica- non abbiamo neppure una cassaforte e come noi tutti o quasi gli abitanti di questo villaggio!”. “Non temete i ladri?” sbotto io. “Macchè – risponde lui con ironia-, qui non abbiamo bisogno della polizia, bastiamo noi a proteggerci dai ladri”.

Stoica con gli scellini d’oro

“Quello che poi guadagniamo con il commercio del ferro e rame ci permette di mantenere questo stile di vita”. E che vita! ” In Romania chi vuole rottamare l’auto –conclude lui-, guadagna appena un euro. Noi poi rivendiamo quel ferro ai cinesi a prezzi di molto superiori, facendo quel guadagno che ci permettere di sentirci pienamente europei”. E’ il momento di salutarci, la visita è finita. Pago il conto per l’intervista che mi permette di ritornare nella  Romania normale.

Anche il loro saluto ha un ché di diplomazia Rom. Sventolano la bandiera europea dicendomi: “Siamo noi i più ricchi d’Europa!”. Difficile non credergli. Difficile  non farmi allora una domanda: “Posso diventare Rom anch’io?”. “Rom si nasce, non si diventa…” si affretta a dirmi Stoica chiudendo secco il discorso. “Buona fortuna” sono state le sue ultime parole. “Grazie ne abbiamo bisogno…” gli risposi a questo  al paperon de paperoni.

L’ALBUM DELLA MEMORIA