DALLE FOGNE DI BUCAREST: DUE STORIE A CONFRONTO

di Antonio Gregolin                           -Riproduzione vietata di testi e foto-

GLI INFERI DI BUCAREST

L’esperienza di due giovani rumeni che condividono la medesima vita nelle fogne di Bucarest. Due storie in “bianco e nero”  di rassegnazione e riscatto dal “fiume” sotto la città. (reportage 1998)

Rafael e George, sono due facce della stessa medaglia. Giovani di strada, che per strada hanno vissuto e seguitano a vivere la maggior parte della loro giovinezza. Storie in bianco e nero. Storie le loro, in bilico tra un sopra e sotto della realtà moderna della Bucarest post-comunista, tra i segni contrastanti del  riscatto e la rassegnazione giovanile di chi è allo sbando. Hanno già un loro invisibile marchio d’infamia: sono  “topi di fogna” come vengono chiamati coloro che trovano riparo nei tunnel.  Si rifugiano lì, nelle condutture sotto le strade della capitale romena dai tempi della caduta della dittatura. I più sono arrivati dalle campagne con l’illusione di trovare in città una vita migliore. L’illusione, li ha invece trasformati in “vittime” dello scontro tra vecchio comunismo e giovane capitalismo. Rafael e George hanno la medesima storia in comune: quello che racconta uno, l’altro dice di averlo già vissuto. Entrambi hanno toccato il fondo in una società che mal li sopporta e non li aiuta. Rafael, 33 anni nato in un villaggio appena fuori della capitale, è però l’esempio di chi pur uscendo dal “fiume” come qui viene chiamata la fogna, coltiva il suo riscatto personale. La fogna lui l’ha abbandonata nel 1992 e da allora nutre una speranza che sembra essere una dannata liberazione: “Là sotto -spiega il ragazzo- non voglio tornarci mai più!”.

George ha dieci anni meno dell’amico Rafael,  e da 13 è un “coprii stràzii”, uno di quelli che vivono sottoterra. Vi è entrato quando non aveva ancora otto anni, e oggi ha una figlia di appena un anno avuta da una giovane ragazza. Il nostro incontro avviene all’imbrunire, l’ora che fatalmente precede le tenebre, quando cioè qui c’è chi esce e chi entra nel “fiume”. E’ l’ora  delle ombre. Rafael conserva gli occhi vispi, mentre George è già sotto l’evidente effetto dei vapori della  vernice grigia, comprata per appena due euro, i cui vapori inalati gli devastano la mente. Uno guarda l’altro, ma le distanze mentali tra i due giovani traspare proprio dai loro stessi occhi.  Per George la “speranza” è nascosta sotto il suo maglione, in un sacchetto di plastica trasparente che si gonfia e sgonfia come un palloncino. Ma  non è un gioco. Ogni volta che lo estrae è per inspirare i vapori della vernice diluita con trielina: “Roba da elefanti…” mi spiega Rafael. Un gesto istintivo che per George ha il sapore del rito della dannazione . Tanti ancora sono questi giovani “dannati”: i più giovani non arrivano neppure ai sette anni e c’è chi inala colla già con il latte materno. I più si muovono in bande, altri solitari li trovi agli incroci delle strade, anche se “oggi questa non è più un’incontrollata piaga sociale com’era fino a pochi anni fa”. “Molti di questi ragazzi sono stati raccolti e portati nelle strutture per il recupero e reinserimento sociale”, afferma Alina Bontu, che qui da alcuni anni segue come assistente sociale questi ragazzi per conto dell’Amministrazione di Bucarest e dell’Associazione Parada del clown algerino-francese Miloud Oukili.

uno dei ragazzi di strada di Bucarest

“Stimiamo che la popolazione che risiede ancora nelle fogne, soprattutto nel periodo invernale, – precisa Alina-, non superi i 600 ragazzi. Ma il loro numero è in costante diminuzione”. George intanto fa strada, deve portarmi in un giardino pubblico: “Andiamo dove l’altra notte abbiamo tolto i sigilli e aperto un tombino” mi spiega. “Tutti gli accessi al “fiume” –aggiunge Rafael- sono ormai stati chiusi dalla polizia locale”. “Ormai fa caldo (giugno Ndr) e scendiamo raramente – aggiunge  George -,  andiamo solo d’inverno per trovare il calore delle condotte fognarie o per sniffare in santa pace, lontani  dalla polizia”.

Il tombino ha una scaletta in ferro che scende perdendosi nel buio come nell’apparente vuoto. Per dieci metri hai appena lo spazio per muovere le gambe e man mano che si scende giù, senti il calore salirti dalle gambe per poi avvolgerti in maniera asfissiante. George mi precede, “giusto per tranquillizzare eventuali altri inquilini” che potrebbero essere infastiditi dall’intrusione. “Qui sotto è meglio non scherzare…” sottolinea Rafael. Il calore delle grosse condutture ha l’effetto di bruciare l’ossigeno e la pragmatica impressione è quella di essere giunti in un girone infernale. Pochi istanti e si dentro un altro mondo, in un’altra dimensione: “In certe giornate, qui sotto la temperatura sfiora i quaranta gradi, tanto caldo al punto tale che alcuni ragazzi sono stati trovati morti asfissiati”. Impossibile non credergli! L’angolo personale di George è un materasso appoggiato alla parete di cemento a pochi metri dalla conduttura dell’acqua calda.Tutt’intorno la penombra lascia intravvedere ben poco, sufficiente però per capire che sto camminando su un letto di rifiuti. “Benvenuto in una delle mie case!” mi dice George prima di sdraiarsi e finire ciò che aveva iniziato in superficie. Gli ultimi tiri di vernice lo faranno sballare di lì a breve. Pochi minuti e George viaggia già su un’altra dimensione: “So bene cosa si prova in questi momenti – afferma Rafael-, la colla ti fa dimenticare tutto. Cancella tutto e ti prende l’anima. Non senti neppure più l’intenso calore o il freddo che c’è fuori. Svanisce la seta e la fame: svanisci tu, entrando in un’altra dimensione lasciando che la colla devasti il cervello”.

George col sacchetto di colla

Lo stesso corpo sdraiato di George sembra già scollegato dalla mente. E’ privo di forze. Farfuglia poche e incomprensibili parole: “Tranquillo è tutto  normale in queste condizioni -mi rassicura Rafael-, per me era la stessa cosa per due tre volte al giorno”. “Non è l’unico a vivere così qui sotto, conosco intere famiglie di Rom come me  che vivono da più di dieci anni in queste condizioni. Non è poi raro che vi nascano anche dei bambini. Diciamo che è tutto “normale” o quasi, se non  hai  né cibo, né lavoro! Nella fogna ti buttano. Non sei tu che  scegli di andare…”.

la tubatura di acqua calda

Passa ancora una manciata di minuti e il fetore si fa insopportabile per effetto del caldo che sfiora i 40 gradi: “Impari a conviverci -aggiunge Rafael- il problema è quando dopo esserti fatto di troppo di colla, smetti di sentire  ciò che ti  sta attorno! E’ allora che il calore ti tradisce e poi, anche  se qui muori, nessuno se ne accorgerebbe. Nessuno ti verrebbe a cercare… è già successo molte volte! Lo sai stando sotto la fine che ti può aspettare, ma proprio perché sei conscio di questo non puoi farci niente!  Quelli che sono vivi sopra, pure loro sanno che sotto di  loro c’è il regno dei morti che qui camminano…”. La temperatura rallenta anche i nostri discorsi e George sembra in difficoltà. Così decidiamo di aiutarlo d uscire, trascinandolo verso la botola da cui siamo entratati: “Sotto siamo un pò tutti fratelli, anche se poi rischiamo di ucciderci anche e solo per un pacchetto di sigarette…” aggiunge Rafael. Decidiamo allora di uscire: “Cerca solo di essere  veloce – mi dice lui-  la polizia se ci becca ci arresta tutti. Non vogliono che si mostri questa realtà all’Europa”. George esce con noi trascinandosi però come un vecchio.

Rafael e George dopo l’uscita dalla fogna

Cerca di sedersi sotto la pensilina di una fermata del tram, chiedendomi del latte da bere: “E’ il metodo più semplice ed economico per smaltire le sostanze tossiche inalate”. Gli allungo un panino oltre al latte richiesto, ma alla fame, lui preferisce dopo poco la sniffata dal suo solito sacchetto. Ora semmai, il problema suo è come racimolare qualche soldo per comprarsi domani la solita vernice.  Gli chiedo allora se non pensa a sua figlia? Al fatto che lui è papà e che per questo dovrebbe smettere”.  La sua risposta arriva ancora una volta prima dai suoi occhi: “No, mai!” aggiungerà poco dopo.  Rafael lo ascolta e abbozza un sorriso come se questa sua risposta fosse scontata: “E’ difficile uscire da questo inferno se contro il tuo cervello bruciato, non trovi qualcuno più forte di te disposto ad aiutare uno che per il resto del mondo non vale nulla!”.  Non tutti sono come Rafael o hanno avuto la sua stessa fortuna. Ritornare là sotto, anche per lui comunque è stato per lui una nuova discesa agli inferi: “ Io sono stato tra i primi a finire qua sotto. Quando nel 1988 arrivai in città -racconta Rafael- costituimmo la prima banda di venti ragazzi, tutti senza fissa dimora. Vivevamo vicino alla stazione centrale, ma poi con il crescente numero di ragazzi ci siamo spostati verso la periferia. Allora eravamo una grande famiglia e  sniffare vernice ci serviva per attenuare i crampi della fame. Così ho tirato per oltre dodici  anni fino al 1992, quando l’incontro con Miloud Oukili,  mi ha cambiato la vita. Lui aveva cominciato a scendere sotto da alcuni mesi e sapevo che molti ragazzi lo stavano seguendo…”

ragazzi di strada della scuola di circo Milù

“Avevo sentito parlare di una scuola di clown e  artisti di strada, come del circo di Stato di Bucarest. Quando mi chiese se volevo andare con lui -dice Rafael- ricordo che non gli diedi neppure ascolto. Questa era la mia vita e lui un intruso che rischiava di fare una brutta fine. Allora mi sentivo potente! Il giorno seguente, Miloud tornò e mi convinse parlandomi di clown e divertimento, come farebbe un ammaestratore con il suo cagnolino!”. Rafal non poteva però immaginare  che quella sarebbe stata la sua ultima uscita dalla fogna:  non vi sarebbe più ritornato se non per ripescare altri giovani come lui, spiegandogli e mostrandogli che una via di uscita da questo mondo c’è. In pochi mesi il ragazzo apprese l’arte circense, ma soprattutto aveva rafforzato la convinzione che la sua vita poteva davvero cambiare. “Oggi dopo molti anni, la paura mi rimane” sottolinea Rafael. “Anche se ormai mi considero un ragazzo quasi normale – dice-, il terrore di dover ritornare là sotto mi spaventa ancora. E’ un incubo che torna spesso anche nei miei sogni! Certo, la strada t’insegna cose buone e cattive, ma quei ricordi sono e saranno la mia stanza oscura, che mi porterò per tutta la vita”. Sono le ombre del suo passato che riaffiorano ancora nel presente. E’ la paura di ricadere a terrorizzarlo, perché quel  suo passato è un peso con cui fatica a convivere, e molto dipenderà dalla situazione economica del suo Paese.

la nuova vita di Rafael

Oggi Rafael ha un piccolo impiego notturno (due euro a notte) presso una fioreria ambulante in pieno centro, vicino alla stazione: ”Vivo da solo – dice il ragazzo -, ma temo che il peggio per me non sia ancora passato, purtroppo. Il peggio se vogliamo, è tutto quello che sta attorno a me. Quando mi guardo allo specchio, mi spavento ancora di me stesso. Ma so che devo continuare e continuerò…”.

una famiglia Rom di Bucarest

“Questa è la mia gente, la mia terra -afferma Rafael-, non me ne andrei per nessuna ragione”. Dopo aver lavorato per alcuni anni nel circo di Miloud, Rafael ha fondato una sua Associazione “La Casa dei Rom” per valorizzare attraverso l’arte e la tradizione la cultura del suo popolo. Arte come terapia e riscatto culturale dunque, come gli ha insegnato quel  suo maestro “dal naso rosso” che l’ha sottratto dall’inferno, con la forza di un sorriso.

ALBUM DELLA MEMORIA


TONI CAPUOZZO: SULLA LINEA DELLA STORIA

Di Antonio Gregolin                                            Diritti riservati di testo e foto

TONI CAPUOZZO: INVIATO SULLA LINEA DELLA STORIA.

Toni Capuozzo, 60 anni, volto noto della televisione, è uno di quei giornalisti che puoi trovarti fianco a fianco, in autobus come al bar. Per lui c’è poca redazione, ma tanta esperienza di strada.

Il mestiere dell’inviato ce l’ha nel sangue e forse anche il suo aspetto un po’ trasandato, lo aiuta a non farsi notare nelle situazioni difficili del mondo. E’ uno di quelli che t’impressionano per la sua “normalità”, piuttosto che per il vanto di essere uno degli “inviati di guerra” più apprezzati d’Italia. Trent’anni di carriera dentro gli eventi che Toni Capuozzo ama seguire per strada. Quelle strade in cui si vede spesso durante le sue telecronache tastando a tu per tu coi fatti, le persone, i drammi, m anche le speranze. Capuozzo a modo suo è una “macchina del tempo” che ti assorbe non appena snocciola i suoi ricordi: “In fondo –dice lui- sei un inviato per tutta la vita. Lo sei a casa come sul fronte di guerra. In vacanza come in redazione. Chi nasce come me con questo istinto, non fa distinzione tra ciò che è lavoro o vita privata. In fondo, noi raccontiamo la vita sotto ogni suo aspetto…”. Per questo è uno che non concede indulgente verso la spettacolarizzazione della notizia: “Racconto alla vecchia maniera –spiega Capuozzo-, come facevano e fanno ancora (in pochi Ndr) i cronisti della vecchia scuola. Ormai però sono vecchio e questo mio fare può sembrare un po’ obsoleto considerando ciò che comunemente passa in video oggi”. Spesso però questo genere di personalità  raccontano bene ciò che li circonda, mentre sono restii a raccontarsi, e quando lo fanno come in questo caso, hanno un certo imbarazzo: “E’ deformazione professionale” risponde lui introducendo la nostra chiacchierata in un bar di Asiago. “Ho iniziato trenta anni fa come cronista, spedito direttamente in Sudamerica senza alcun tipo d’esperienza. Mandato praticamente in strada. E via a lavorare… Videro che me la cavavo, così mi mandarono in Medio e Estremo Oriente e per finire  in ultima sono approdato  ai fatti di casa nostra”.

“Una carriera la mia, fatta al contrario di quanto normalmente avviene nel mondo del giornalismo”.“A uno come me serve fortuna, tanta fortuna per i luoghi in cui vado –aggiunge Capuozzo-, e  per questo mi considero un uomo fortunato nello stare ancora qui a dialogare con lei.”. Sorride, e per un momento i suoi occhi si distraggono guardando il pacifico paesaggio montano: “Diciamo che un reporter che fa cronaca in presa diretta in prima linea, è inevitabile essere capaci d’indossare una “corazza” che ti isola dai stessi fatti. E’ quello che fanno i chirurghi in ospedale coi loro pazienti, anche se poi in realtà, sappiamo che ciò che vediamo e filtriamo, alla lunga ti cambiano dentro”. In questo, la figura del reporter dagli albori a oggi non è cambiata: “Sai di essere nel momento in cui la storia fa la storia e questa inevitabilmente segna la tua  storia personale e professionale! Ecco perché non c’è luogo o situazione più diversa dalla guerra, dove le cose vengono restituite alla propria dimensione concreta, essenziale, semplice, in cui il tutto può diventare attimo e ogni attimo ti può apparire come una conquista: hic et nunc!”. La filosofia applicata del reporter di lunga carriera che così si racconta.

Cosa significa e come giustifica  un reporter, la guerra?

“Oggi usiamo molto male questo sostantivo. La parola “guerra” ci porta a dividere le cose in bianco o nero. In realtà, c’è tutta una classificazione degli eventi che è diventata ancora più intricata con gli ultimi conflitti, dove la realtà ha molte interpretazioni come la “Verità” stessa. ”

Lo stesso allora vale per  la parola pace?

“Certamente! Guerra e pace non sono più nettamente distinguibili come un tempo. Oggi si presentano confuse, difficili da comprendere nel profondo, soprattutto per coloro che considerano la questione con termini assolutistici. Non il bianco o nero, ma sono i grigi a prevalere nella storia moderna. Mi spiego, credo poco alle parole con le iniziali maiuscole. Credo che le preghiere e i pii proponimenti come le manifestazioni pacifiste (quelle rare e profondamente pacifiche, beninteso), servano ben poco alla causa della vera pace. Nessuna irriverenza verso chi è impegnato in questi campi; ma l’esperienza m’insegna che il vero crisma della pace si ottiene con degli accordi e dei processi sociali e politici, tanto faticosi che hanno una loro logica dilatata nel tempo-spazio. Nessuno vieta dunque ad un bambino di disegnare la pace su un disegno; ma la realtà mostra come invece la stessa pacificazione, passi attraverso situazioni e figure di personaggi che magari fino ieri hanno imbracciato un fucile. L’esempio dei palestinesi e israeliani lo dimostra da decenni! Sharon, il falco, ha osato fare quello che neppure un premio nobel per la pace come Rabin ha fatto prima. La stessa Costituzione irachena non può che essere una lunga e faticosa gestazione, così come lo è stata per noi nell’immediato dopoguerra. Insomma, la storia e tanto meno la pace, non è mai lineare come la si vorrebbe, e questo lo capisci solo con l’esperienza di campo!”

Ma la guerra resta guerra!

Le guerre di oggi hanno ben poco di ufficiale. E’ vero che esiste una  componente d’odio ancestrale che non cancelleremo mai del tutto, ma l’odio più pericoloso che attraversa la nostra società è quello tra simili.

Si spieghi…

E’ quell’odio che si respira nelle nostre piazze o più ancora nei pianerottoli dei condomini o tra vicini di casa. Quello della porta accanto. Ecco questo è il pericolo trasversale della nostra realtà a spaventarmi di più, perché è strisciante e non si fa annunciare.”

C’è però anche l’odio per il diverso?

Che ci sia uno scontro tra civiltà è davanti gli occhi di tutti, e questo s’innesta in una specie di relativismo culturale globale, dove per sua natura la religione o le religioni dovrebbero essere serbatoi di tolleranza e civiltà.

Cito il cristianesimo che insegna la fratellanza, ma non posso non citare quell’Islam che non reprime l’odio. L’Islam infatti  fatica ad uscire da questo baratro, anche se di fatto tutti i terroristi sono islamici, ma non tutti gli islamici sono terroristi. Questo per dirla in una maniera molto schietta, chiamando le cose con il loro nome come invece non sempre accade nel mondo del giornalismo.”

Qual è il giornalismo che allora vorrebbe?

Il mio sogno è fare una trasmissione con lunghi reportage anche di un’ora, con molte immagini e poche parole. Sessanta minuti e più di televisione pura. Non so  se però me la faranno mai fare. Ne dubito!

Quali sono le sue paure?

Sono tante e  le porto sempre con me. Sono dentro la mia valigia, solo che non le faccio vedere e le nascondo sotto i miei baffi. Capita di pensare a chi potresti lasciare, alla moglie ai figli… Il vero reporter è colui che resta uomo nell’animo e giornalista nella mente.  Non è sempre facile, ma ci provo! Anzi, ci proviamo…”.


TONI ZARPELLON: PITTORE DI PIETRE E CAVE

di Antonio Gregolin                                                              -Testo e foto riservati-

TONI ZARPELLON: PITOR DE PIERE E CAVE” (aggiornato 15 agosto 2011)

Dategli una cava e lui  vi dipingerà  il mondo. Predilige i sassi alle tela, il bosco allo studio. Se poi lo volete vedere all’opera, è bene andare verso le sei del mattino nella sua cava-studio a Rubbio (Vi). Toni Zarpellon   è un l’artista che sembra nato  da una fiaba moderna.

La fantasia trasforma le cose, ma più ancora le persone.  E quando un pennello finisce nelle mani giuste, fa quello che al contrario compie un martello pneumatico dentro una cava. Ecco che  se la fantasia irrompe, anche una cava dismessa, sfregio di un passato umano recente, può rigenerarsi in quello che diviene un “miracolo d’arte” moderna. Di più, un vero e proprio processo ontologico che per Toni Zarpellon, poliedrico artista bassanesedi 58 anni, è una rinascita che ha partorito l’originalissima provocazione della sua “Cava Dipinta”. “Ciò che qui per decenni è stato vituperato, scavato e trasformato dall’uomo –spiega l’artista riferendosi all’intimo rapporto che ha con la natura circostante-, per osmosi la  cava ora  dipinta è una rigenerazione delle forme; e  più ancora un tentativo umano di rispondere ad un problema ambientale e civile di grande attualità e necessità!” La misteriosa  cava dipinta di Rubbio a qualche decina di chilometri dal centro di Bassano, è l’immagine del regno creativo di questo geniale artista “rupestre”, a tal punto che se si spera di trovare quassù Toni Zarpellon intento a dipingere sassi (dovreste venire alle sei del mattino), la sua robusta sagoma pare essere parteintegrante di quella tavolozza di colori che è oggi la sponda del monte Caina (località Rubbio), dominato da una contrastante corona di antenne che ne sfigurano il dolce profilo. Qui troviamo lo “Zarpellon preistorico”, ossia l’uomo che come gli antichi lascia segni del suo passaggio direttamente sulla nuda roccia: “Un pò rude lo sodo -incalza lui-, ma in compenso non uso più la clava! Qui sono i miei colori a sortire l’effetto misterioso simile alle pitture rupestri francesi”.

Un colpo d’occhio che ti catapulta dal brutto creato, alla bellezza ricreata: “La cava –dice Zarpellon-, ingoia tutto anche il peggio di noi. Scesi lungo il costone verde della montagna a strapiombo sulla pianura antistante, il verde degli alberi incornicia il mosaico di colori sgargianti della “Cava Dipinta”, che ritraggono le forme più disparate. Simboli e archetipi, tutti ritratti su pareti e massi dalle forme antropomorfe.Rocce che l’artista oggi non esita a definire come dei “compagni di viaggio. Sono i  miei guardiani”.

UN LUOGO UNICO IN ITALIA

Non è un luogo visionario, ma un grande palcoscenico naturale, dove l’uomo-artista è tornato a dipingere i suoi petroglifi come migliaia di anni fa. Una forma di scrittura per immagini la sua, che alla modernità dei segni, fonde l’arcaicità di una comunicazione che per l’artista si trasforma in terapia rigenerativa. Un artista moderno che risponde ad un richiamo ancestrale: “Uno sfogo colorato che manifesta il mio disagio verso quel brutto che avanza” aggiunge Zarpellon.

Uno “scontro di civiltà” dove, da un lato si trova la civiltà di cui Zarpellon si sente parte, rappresentata da un paesaggio integrato e integro. Dall’altra la “cava dipinta con il suo messaggio. Nel mezzo il visitatore che sale fin quassù per vedere un’opera tanto monumentale,  da essere unica in Italia e tra le poche nel mondo .

IL “SALTO MORTALE” DELL’ARTISTA

“L’esperienza della cava –rimembra l’artista veneto- è stata per me un “salto mortale”. Non un salto nel vuoto, ma dentro le viscere della terra. Un passaggio oltre che fisico, mentale. Dal mio studio ristretto allo spazio aperto. Chiamiamola pure una“resurrezione”  considerando che mi ha permesso di ritornare alle origini del tutto, anche dell’arte stessa!” La sua però non è speculazione intellettuale: sulle rocce dipinte di  Rubbio, vi è la storia della nostra civiltà. Dal televisore riprodotto su una liscia parete pietrificata, alla frenesia del divenire che mostra una mano intenta a catturare un undici, che segna l’anno che verrà.

Così un teschio ricavato da un masso posto all’entrata della cava è qui un “memento mortis” per dire che siamo nella realtà. Nulla qui è a caso, neppure le tracce lasciate sulla nuda roccia dagli scavatori di allora. Ai rumori di quel lavoro di escavazione, oggi si è sostituito il silenzio. Silenzio animato dalle fragorose  creature fantastiche che popolano questo antro di montagna:“Un luogo difficile da trovare, non per un fatto geografico, ma mentale…”replica l’artista. “E’ come se ognuno tornasse nel grembo di quella madre da cui tutto è scaturito”.

VERSO PER L’ESSENZIALE…

“Abbandonai nel 1990 l’idea della tela bianca come spazio, nonché di studio e galleria. Una separazione  sofferta la sua, indotta da una personale inquietudine, come mi racconta l’artista, che  si intravedeva fin dalle sue prime crocifissioni con le macchine: “Da quelle linee larvali del ’65 che sono state l’ispirazione di tante mie opere postume.” Un periodo buio insomma, che si è concluso con questo sua “folgorante intuizione” che la cava gli ha dato. Oggi il maestro sorride, e  ricorda quei “motti dell’animo” come un percorso obbligatorio che gli ha permesso di prendere coscienza per meglio comprendere ciò che siamo ostiamo per diventare noi oggi: “Quando giunsi quassù – racconta-, la sonorità e bellezza del paesaggio che mi offriva questo senso di totale avvolgimento dato dalla cava, mi fatto capire che avevo finalmente trovato ciò che andavo cercando. Ciò che ha determinato la volontà di realizzare le grandi teste antropomorfe e il bestiario che emerge dalle pietre, era alimentato dalla fantasia che avevo fin da bambino, quando  mi divertivo a leggere nelle macchie dei muri di casa immagini che mi riconducevano alla realtà.” Per questo, ciò che si vede nell’opera di Zarpellon è solo la parte finale di un lungo processo dal sapore o sacrale. La cava di Rubbio oggi è uno spazio riflessivo. Migliaia sono i visitatori (40mila), giunti fin quassù per ammirare la ciclopica opera. E’ facile incontrare gente seduta, immobile, sui profili di qualche mostro: “Qui in un certo modo ci si dimentica del mondo da cui si proviene –spiega l’artista-, per immergersi dentro quelle paure che qui assumono le forme più disparate, quanto concilianti. Sì, perché quei mostri dipinti con occhi sgranati, altro non sono che la materializzazione di ciò che ci portiamo dentro. Paure quotidiane contro cui combattiamo e rifiutiamo di riconoscere”.

Ecco perché la provocazione di Zarpellon diventa psicologia creativa:”Il buttar fuori le nostre paure, cioè materializzarle simbolicamente, serve a vincere  le fobie stesse.” Racconti di fantasia e poesia, come quel pane (un masso ocra lasciato su una tavola pietrificata con tanto di tovaglia bianca dipinta), che altro non è se non un tozzo di pane lasciato per nutrire simbolicamente gli abitanti della cava che di notte si animano per vagabondare indisturbati tra i boschi dell’Altopiano.“C’è poi il coccodrillo mangia erba; il gigante stanco; il pesce che canta…” nomi e storie che chiunque può inventarsi  guardando queste rocce. “La mia cava non è un quadro statico, basta spostare un sasso o cambiare un colore  aggiungendo un occhio, per far sì che l’opera sia perennemente incompiuta.”

DALLA STRADA ALLE PARETI DI ROCCIA

L’ultimo percorso cognitivo di Zarpellon ci riporta sulla strada. Nel frenetico caos cittadino. Forse è anche per questo che l’artista costringe il visitatore ad abbandonare l’auto prima di raggiungere il luogo della sua ultima creazione: la “Cava abitata”, datata 1991. Ancora una cava,  stavolta però con massi sgretolati e il grigiore di un ambiente popolato da metalliche figure disposte in una spettrale scenografia. Protagonisti della scena, ancora una noi, guardati dalle tante marmitte arrugginite con tanto di occhi, nasi e bocche. L’impatto è degno di un fondale da tragedia greca.“Si, qualcuno mi aveva proposto di utilizzare questa cava come teatro naturale…” ma per l’artista il fine va ben oltre. “A venti anni dalla sua creazione, la cava abitata continua a parlare…se si vuole ascoltare!”. Prima però bisogna voltarsi ancora una volta verso il confine dell’orizzonte. E’ lì, in quella civiltà che Zarpellon trova il suo “tragico simbolismo stradale”: “Quei morti per strada ormai sono una guerra permanente. Ho ancora in mente la scena di una madre che piangeva davanti a questa mia cava ricordando il figlio morto in un incidente stradale. Quel pianto mi ha impressionato…”.

Difficile allora non provare un brivido dinnanzi a quelle marmitte personificate, recuperate dalla discarica: “Sono andato dagli sfascia carrozze in cerca di materia per il mio lavoro. Lì  ho trovato macchine di ogni sorta, il più delle volte ridotte ad ammassi di lamiere con ancora evidenti i segni dello schianto. La mia paura inconscia era di trovarmi pezzi di cadavere lasciato tra quei rottami. Pensavo a quanto l’uomo deve dare al raggiungimento di questa nostra innaturale modernità. Quanto sangue chieda la strada?”. Per l’artista che ha sguardo fisso verso l’orizzonte, una soluzione c’è.  E’ quella di fare in modo che la gente torni a riappropriarsi della coscienza verso il mondo che li circonda”. E mentre dice questo, Zarpellon volta lo sguardo altrove. Lì sotto c’è una terza e una quarta cava abbandonata. Altra sorpresa ed altra esperienza, che l’artista vicentino sta ora ultimando. Il suo e nostro percorso continua, e forse non si esaurirà mai, perché questa è la lingua parlata dalla fantasia!

15.08. 2011 IL FERRAGOSTO DEL PITTORE

“Il paesaggio quotato in borsa” è  l’opera che il maestro tributa a questo  ferragosto di crisi.

In tempi bui, anche l’arte interpreta la crisi. Ferragosto nella casa-studio del pittore Toni Zarpellon, il creatore delle Cave di Rubbio che dominano Bassano, meta in questi giorni di turisti alternativi, è un giorno fra lettura, colore e vecchi amici. Sulle colline di Marsan di Marostica, il rustico di Zarpellon è la tana del pittore, da cui si può scorgere quel frenetico mondo che spesso ispira i suoi quadri. E’ da qui che il pittore guarda il mondo: quel suo vicentino che quest’anno “è in ferie con la crisi”. Per questo è un fiume in piena di idee e provocazioni colorate: “E’ là –indica il pittore-, che c’è la gente intorpidita, frastornata, rassegnata a quella che io considero una specie di anestesia generale, totale…”.

La crisi umana prima ancora che economica, Zarpellon l’aveva già incarnata negli anni ’80, quando nella sua cava dipinta e animata, aveva già tracciato la possibile fine di un’epoca. “Non dite però che porto iella – tiene a precisare-, solo chi è diventato cieco e sordo non ha visto il groviglio mentale di Pil, Bot, Cct, che ci ha  fatto precipitare nel turbine di questi giorni…”. A sentirlo parlare vedendolo circondato dai suo ritratti con gli occhi granati appesi alle pareti, si ha l’impressione che Zarpellon avesse davvero “visto oltre”: “Non sono un sibillino, resto un pittore che pensa e parla coi colori”. Eccolo che “stanco delle tante, parole spese in queste ore sotto il sole”, abbandona il tavolo della conversazione: “Vado nel mio confessionale…” aggiunge lui. Due stanze più in là c’è il suo studio, con una scala di legno dove si è costretti a fare piccoli passi “perché così erano le scale di una volta, quando si andava piano. Non come facciamo noi oggi…”.

Si fa silenzio attorno alla tela che è posiziona sul vecchio tavolo incrostato di pigmenti. La tela è ancora bianca, ma ha già un titolo: “Paesaggio quotato in borsa”. Scruta oltre la finestra per cercare le linee, verso quell’orizzonte verso i lidi marittimi, dove ci si immagina quei bagnanti che Zarpellon dice di “non invidiare affatto”. La crisi entra così nella morfologia di questo paesaggio d’agosto. L’istogramma borsistico che ci fa tremare in queste settimane, diventa qui il grafico del nostro territorio. Due ore di lavoro, con il caldo che trapassa attraverso le vecchie travi non fa desistere il maestro: “La pittura è passione, rapimento di sensi che difficilmente ti molla, anche a Ferragosto …” ammonisce Zarpellon. Il quadro è ormai pronto e il titolo “Paesaggio quotato in borsa”, è un’antologia pittorica al clima di canicola “borsistica” che il pittore interpreta con un lume di chiaroveggenza e pragmatica saggezza.

COME ARRIVARE ALLA CAVA DIPINTA

La “Cava dipinta” si trova in frazione di Rubbio (20 chilometri da Bassano) a circa 1000 metri di quota. Poco prima di entrare nell’abitato si prende la strada che conduce al Monte Caina. Al bivio della Vallerana, contraddistinto da un bosco di antenne, vi è una strada sterrata che conduce all’ex cava Molagli che il pittore Zarpellon ha dipinto con il permesso dei proprietari. L’ingresso è libero per tutte le stagioni e l’opera è stata realizzata senza alcun contributo o sponsor, con il solo sforzo economico dell’artista. Per trovare Toni Zarpellon all’opera, è consigliato trovarsi verso le sei del mattino.