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DAL COVID AL PODIO
La storia dell’infermiere diventato campione di ciclismo
Dal Covid al podio: difficile, ma non impossibile. E’quello che ha dimostrato il thienese Federico Caretta, 35 anni residente a Vicenza, di professione infermiere nel reparto di cardiochirurgia intensiva dell’Ospedale S.Bortolo di Vicenza, che nell’agosto scorso è diventato campione europeo di “Ultracycling”(disciplina di ciclismo), dopo che nel 2019 è stato campione italiano. Professione che aiuta uno sport di resistenza, tanto da portato sul podio europeo, dopo la chiusura totale che gli ha imposto di allenarsi tra le pareti di casa, in una forma innaturale per uno che riesce a stare in sella anche ventiquattro ore di seguito, e copre 25mila km l’anno di allenamento su strada.
«Non potevo mollare…» dice lui, ripensando al titolo europeo conquistato a Santa Maria della Vittoria nella Marca Trevigiana, dove si è disputata “l’Ultracycling – 24 ore del Montello” per il titolo europeo. «Non potevo mollare per decine di motivi che nel tempo so sono trasformati in motivazioni durante il periodo di pressione sanitaria del Coronavirus» aggiunge il campione ancora carico di soddisfazione, che l’ha visto primeggiare su un coriaceo atleta tedesco, già campione. Oggi è Federico il campione in grado di stare in sella ventiquattro ore, su un circuito di 33 km con 400 metri circa di dislivello, grazie alla prestanza fisica e tenuta psicologica: «L’unico aspetto positivo che ho ereditato dalle lunghe giornate trascorse in corsia da marzo a giugno all’Ospedale di Vicenza». «Non è stato facile –racconta il campione-, ma credo che i duri allenamenti fatti sui rulli dentro casa nelle poche ore libere a disposizione, dopo il delicato lavoro coi pazienti positivi al virus, mi sia servito per scaricare la mente».
Quella mente che gli serve a gestire lo sforzo richiesto dall’Ultracycling: «In corsia corri per salvare vite umane –aggiunge lui-, per strada corri sulle due ruote per l’energia che ti viene da dentro. Corro perché mi è sempre piaciuto muovermi fin dalle elementari, quando sognavo di diventare un ciclista professionista. Cosa che non si è mai concretizzata. Ma questo non è servito a farmi desistere dall’amare lo sport e la bicicletta». Perseveranza che, sebbene non più giovanissimo, l’ha portato a scalare la classifica europea di specialità: «Davvero una bella soddisfazione, che mi permetterà d’invecchiare senza troppi rimpianti. Il podio quando ci arrivi tutti lo vedono, ma non tutti immaginano lo sforzo e la preparazione che stanno dietro a ogni vittoria. Non stai in sella 24 ore, se non hai un allenamento duro alle spalle. Non combatti contro la fatica, il sonno, i dolori articolari, il caldo, il freddo, la fame, se non sei padrone della tua mente».«Tutto questo può semmai saperlo mia figlia, i famigliari, gli amici più stretti e la squadra. Il resto si abbandona all’applauso finale!». Per far conoscere questo, Federico ha fatto un toccante post lanciato su Facebook e Instagram (nick Ananas85vi Ndr.), dove lui è particolarmente attivo, in cui spiega i perché della sua vittoria. Una decalogo motivazionale e sentimentale, che toglie ogni velleità alla sua carica umana e sportiva: «Non potevo mollare –scrive- perché all’inizio del 2020 dopo un mese senza toccare la bici, causa febbre e otite, ho percorso 1.200 km in otto giorni a Lanzarote (Canarie), da solo e controvento, ho capito che avevo ancora una possibilità di pedalare alla grande».
«Non potevo mollare, anche se il Covid mi ha chiuso in casa, facendo saltare tutti i miei piani di preparazione».«Non potevo mollare –aggiunge-, pensando a quanto ci siamo spesi per i pazienti affetti da Covid in rianimazione. Nei tanti momenti critici in corsia, nelle poche pause lasciavo andare la mente come se stessi in bicicletta. Poi a casa gli allenamenti sui rulli di 4-5 ore, che comunque restavano poca cosa in confronto a ciò che facevamo in corsia. In quel periodo poi, per precauzione non vedevo mia figlia Matilde di quattro anni, e questo aumentava la rabbia e il desiderio di padre, che sfogavo tutto nello sport come terapia nell’emergenza. Non potevo mollare, perché una volta “libero” non ho perso la testa, ricominciando con le mie solite distanze, con un crescendo di 100, 200, 300, 400 Km al giorno, (cosa che continua a fare oggi nei ritagli di tempo, nonostante la seconda ondata virale Ndr.), rinforzando la resistenza, abituando gli occhi a correre nella notte, per avvicinarmi alla realtà di gara. Non potevo mollare anche per quell’unica persona su cui potevo contare nelle 24 ore di gara: l’assistenza di mio papà Fiorenzo, che a 65 anni e dopo una settimana di coliche renali, è stato fondamentale per la mia impresa.
Se il padre non avesse aiutato da terra il figlio, io non sarei arrivato sul podio!». «Non potevo mollare poi, perché dopo le prime dodici ore di gara con oltre trentacinque gradi, mi trovavo ancora in vantaggio su tutti e non avevo nessuna intenzione di calare il ritmo. Poi la foratura improvvisa e inaspettata: erano le 4 del mattino e questo rischiava di vanificare lo sforzo. Qui ho fatto tesoro di tutta l’esperienza accumulata in trent’anni di sella: non ho quindi esagerato con la velocità, cercando di analizzare ogni minimo cambio d’asfalto, buca, rametto, sasso o foglia lungo il circuito per evitare nuove forature. Mi è andata bene, portandomi a compiere 674 km in 23 ore e 45 minuti alla velocità media di 29 km/h, con un dislivello di 7.500 metri». E pensare che questa sua avventura è iniziata quasi per caso, solo qualche anno fa: per una tragica fatalità e un gesto di solidarietà. «Era il 2017 in occasione del sisma dell’Abruzzo, quando con i ciclisti della mia squadra la “MemRacing Team” di Vedelago (Tv), decidemmo di portare il nostro contributo fino ad Arquata del Tronto, pedalando per tre giorni. Per me fu un test, e spinse il gruppo a iscriversi alla prima 24 ore competitiva l’anno seguente».
Poi è arrivata l’avventura europea, la vittoria e il premio: «Il premio qui è solo un titolo, senza nessun ricavo in denaro. Il nostro è uno sport “povero”, spesso ignorato dagli sponsor, ma che richiede grande sforzo umano. Per questo cerco di gestire questa mia passione e grandi sacrifici, incastrando pezzi di vita: lavorativa, famigliare, sportiva e finanziaria». «La mia vera bravura, credo stia tutta nel mettere insieme tutti questi pezzi». E dal futuro, cosa ti aspetti ancora? «Spostando l’asticella, diciamo pure pedalando ancora verso l’alto, sto maturando un nuovo traguardo: partecipare alla “Race Across America (RAAM)”, la più massacrante delle gare che attraversa in bici gli Stati Uniti. Cinquemila km “coast to coast” da Oceanside, California ad Annapolis, Maryland, con un tempo massimo di dodici giorni. Maratona che solo pochi al mondo riescono a portare a termine». «Per questo mi servono un paio d’anni di preparazione e virus permettendo, sento che le mie gambe mi stanno spingendo verso quel traguardo. Prima però c’è sempre il solito problema di noi dilettanti: trova gli sponsor. Fatto questo –conclude fiducioso l’infermiere a due ruote-, potrei arrivare sul tetto del mondo».
di Antonio Gregolin