MINE CHE DIVENTANO “GIOIELLI”. COME NASCE LA SPERANZA

di Antonio Gregolin     -©riproduzione vietata di testo e foto-

DALLE “MINE” DELLA MORTE AI GIOIELLI DELLA SPERANZA

La coraggiosa storia dei coniugi vicentini Brian, che hanno lasciato il loro mestiere di orafi, per aprire  una scuola artigiana per i ragazzi di strada cambogiani.

E’ raro  sentirsi dire da un imprenditore che vive a contatto con l’oro, che può bastargli anche e solo una preghiera. Così come non è comune vedere un uomo di 49 anni, design orafo di Vicenza, cambiare vita per dedicarsi ai ragazzi di strada di Phom Penh in Cambogia.  Ad Igino Brian non gli è bastato adottare quattordici anni fa, Vattanak un bimbo cambogiano dagli occhi profondi e vispi. La terra che gli aveva donato un figlio adottivo, sembrava chiedergli di più. Così quella Cambogia tanto lontana e diversa dalla borghese Vicenza,è diventata ben presto la sua seconda patria: “Qualcosa mi è rimasto dentro quel giorno che dopo essere stato all’orfanotrofio per prendere mio figlio, avviandomi verso l’aeroporto di Phnom Penh per tornarmene in patria, dal finestrino del taxi vidi  il vero volto della povertà…”. “Da allora, quei volti, quelle storie e quel Paese lontano, sono cresciuti dentro di me, tanto che con mia moglie Lucia – racconta Igino-, sentivamo anche a distanza di anni quel silente richiamo d’aiuto. Sembrava che non ci bastasse aver adottato un figlio di quella terra. Non bastava neppure mandare degli aiuti. Eppure, nessuno fino ad ora ci aveva chiesto niente. Forse perché in Cambogia il niente è tutto!”. “Sapevamo però che la vera ricchezza era la nostra esperienza e che gli aiuti sarebbero serviti a poco, se non aiutavamo a crescere quel popolo gente…”.

DALLA VOLONTA’ ALLA REALTA’

La sua non fu una folgorazione: “La fede cristiana ci ha ispirato  –risponde Igino-, ma fu  l’umanità che avevamo sfiorato lì, densa, concreta quanto vera, ad averci aperto il cuore e la mente”. Così quello che dovevamo compiere, maturava silenziosamente in questa coppia che non si fregia ancor oggi di alcuna straordinarietà: “Le risposte che ci davamo, non avevano neppure bisogno di essere discusse”, rispondono i Brian. “Quando decidemmo di partire per la Cambogia – racconta la moglie Lucia Bruni, 47 anni di Vicenza-, ce lo siamo detti con la facilità di chi ha maturato delle irremovibili convinzioni”.

“CI DIEDERO DEI PAZZI!”

Immaginavamo che la risposta a quella chiamata di coppia –  dice  Igino-, potesse sembrare a tutti come una forma di pazzia.  Sapendo che avremmo dovuto di lì a poco chiudere la nostra attività a Vicenza. Qualcuno avrà pensato che lo facessimo perché si profilava una crisi economica? Altri  perché volevamo cambiar vita o portare capitali all’estero? Dubbi scontati in fondo! Ma non era niente di tutto ciò. L’impresa era da subito capire come potevamo iniziare  a costruire ciò che avevamo in mente con i nostri pochi fondi. Pensammo subito al sostegno di qualche missionario italiano in Cambogia”.  Quel loro “colpo di testa” non era altro che l’inizio di un’esperienza che oggi ai due coniugi vicentini strappa un distinto sorriso di soddisfazione e complicità. Agli inizi, furono i missionari del PIME di Milano a porgergli la mano, accogliendoli nella caotica capitale cambogiana, Phnom Penh. I segni della guerra del 1968 tra i Khmer rossi di Pol Pot e il Vietnam, è un retaggio ancora vivo nella società cambogiana del nuovo Millennio: “La guerra era finita già molti anni fa  –raccontano i coniugi Brian-, ma ciò che restava nella vita quotidiana del popolo cambogiano, si mostrava ora come una guerra per la quotidiana sopravvivenza ”. Tredici milioni di abitanti in tutto, che nei tabulati ONU hanno la centotrentesima posizione su 175 paesi. Un livello di povertà del 60%, con il 36% della popolazione locale sulla soglia della povertà. “Il 6% sono ricchi e potenti – spiega Igino- ,  in grado di corrompere l’intera società cambogiana, al limite della democrazia”.

LA CAMBOGIA CHE  SPERA

La Cambogia resta così un mondo nel mondo, in cui i coniugi Brian si sono buttati con la forza della fede e della loro esperienza artigianale.  Questo fu quello che permise  ai Brian  di materializzare il loro sogno: quello di aprire una scuola professionale per ragazzi e ragazze di strada. Alla fine ci sono  riusciti, così che  da cinque anni  a Phnom Penh è aperta  la “salà” (“scuola” in Khmer)”. Oggi l’edificio non ha ancora un nome proprio: “Ma poco importa –ribatte il suo fondatore vicentino-, per un nome c’è sempre tempo. Ciò che  conta,ì è sapere che in  questi  anni sono stati un centinaio  i giovani cambogiani venuti dalla strada, che qui si sono formati ed hanno imparato un  mestiere vero. Un mestiere che gli permetterà di vivere una volta diventati adulti.  Anzi, qualcuno è già diventato insegnante dei suoi stessi coetanei”. Intorno a questa “scuola” pullula  un mondo con cui Igino si confronta quotidianamente: “Qui la prostituzione è diffusa ad ogni livello. Si può trovare “merce umana” dai due anni ai venticinque anni. La stessa pedofilia, i cui clienti non dimentichiamo sono occidentali e asiatici, coltiva in questa povertà la sua risorsa rigenerativa. Chi arriva nella Capitale può trovarsi tra le mani veri e propri cataloghi con tanto di foto, che mostrano chi è  sfruttabile sessualmente,  e chi invece ha una croce perché è già morto o è affetto da malattie”. Album degli orrori dove  l’integrità di un bambino vale 2-3 mila euro, messo all’asta dai suoi stessi genitori per  disperazione. “Non scordiamoci –racconta Igino- che questa è una terra dove se una giovane ragazza che sbaglia prendere un “mototop” con cui la gente si sposta in città, la malavita locale può rapirla avviandola in poco tempo alla prostituzione nei bordelli di Bangkok e facendo perdere di lei ogni traccia. Fatti così , qui sono una aberrante normale quotidianità!”.

ECCO COME DALLE MINE RICAVIAMO GIOIELLI

Una follia che viene  dal basso della condizione umana: “Ecco perché il nostro “Progetto Cambogia” mira a contribuire allo sviluppo personale ed economico di questo straordinario popolo Khmer; cercando di allontanare per alcuni lo spettro della schiavitù, prostituzione, delinquenza, tossicodipendenza, AIDS”. “A Phnom Penh – spiegano-, abbiamo un piccolo appartamento poco distante dai locali della scuola dove ogni giorno i ragazzi arrivano il mattino presto per imparare l’arte e lo stile italiano di creare gioielli”. La loro “salà” è un corso di lavoro di un anno, in cui giovani dai 15 ai 25 anni apprendono un mestiere: “Dopo questo periodo d’apprendistato – dice Igino-, gli alunni vengono “diplomati” e avviati verso una loro autonoma attività”. Quello che magari non sa di fare questi giovani cambogiani, è imparare a sperare nel futuro, lasciandosi alle spalle storie che fanno spesso arrossare gli occhi dei loro “maestri” vicentini.Ma la storia dei coniugi Brian, va ben oltre.

Effetti di una esplosione di una mina su un giovane cambogiano

Loro trasformano “strumenti di morte ”, in simboli di riflessione. Come? “Attraverso quei gioielli in argento prodotti dalle mani operose dei nostri ragazzi che portano i segni tangibili della loro storia. Quella delle mine antiuomo che oggigiorno continuano a mietere vittime in tutto il Paese”. “E’ un’altra piaga della Cambogia –ricorda la signora Lucia -, con un territorio disseminato da dieci milioni di mine tarate a 20 kg, peso di bambino, lasciate dal conflitto tra Kmer e truppe governative che ha provocando più di tre milioni di morti, sono sempre pronte ad esplodere. Le vittime sono di solito bambini e contadini, e la loro tragedia  è un rischio pressoché quotidiano”. “In questo stillicidio centriamo anche noi – denuncia Igino-, visto che molte di queste mine sono di fabbricazione italiana. Una vergogna di cui sentiamo il peso, ma non le dirette responsabilità. Anzi, oggi il nostro progetto sostenuto dall’Associazione vicentina FILEO, ha un preciso messaggio che vorremmo rimbalzasse in Italia. Quando esplodono le mine, la povertà costringe la gente locale a raccogliere quelle schegge di “spoan” ottone rimaste nel terreno.

L’ottone recuperato, è poi rivenduto per essere riciclato come facevamo anche noi nel dopoguerra.  Così noi lo acquistiamo per riciclarlo e farne paradossalmente degli oggetti di bellezza”. Gioielli dalle linee plastiche che sposano lo stile occidentale e orientale, dove tra seta e argento i giovani orafi, incastonano anche il metallo dorato delle mine antiuomo. “Il risultato –spiega Igino-, ha un duplice messaggio; quando poi importiamo l’argenteria in Italia, i guadagni ci servono per sostenere la scuola. Lanciamo così un ammonimento che serve a scuotere anche le coscienze più tranquille. Mostriamo come un oggetto di morte, possa trasformarsi in un segno di speranza e bellezza, e noi riportiamo in Italia quel materiale trasformato che qui era prodotto per uccidere”.

Suona la campanella come in qualsiasi altra scuola e Igino deve così tornare tra i banchi dei laboratori: “Qui non c’è il rischio di sfruttamento –precisa lui-, è talmente poco quello che riusciamo a fare noi per questi ragazzi che, il numero di quanti premono ogni giorno alla nostra porta aumenta di mese in mese. Siamo troppo piccoli di fronte al grande mare dei bisogni in cui ci siamo immersi. Non vogliamo che sia nemmeno una casa d’assistenza; i nostri ragazzi una volta imparato il mestiere, devono costruirsi da soli il loro futuro. Il nostro impegno, finisce laddove le scelte individuali non richiedono una sussidiarietà”. “Ora devo andare –conclude Igino- i ragazzi mi aspettano, ma prima accettate questo nostro piccolo dono. Due piccole colombe d’argento e ottone. La prima è quella che aiuta a sperare. L’altra dorata è ricavata dalle mine, e sta  semplicemente imparando a volare “never again”, come stanno facendo questi nostri giovani allievi.

PER AIUTARE I CONIUGI BRIAN E’ POSSIBILE CONSULTARE IL SITO www.fileonlus.org

SUOR CHIARA: L’ULTIMA EREMITA-PASTORA DEL CERBAIOLO

di Antonio Gregolin – Tutti i diritti riservati  di testo e foto copyright2000-

SUOR CHIARA: L’ULTIMA EREMITA-PASTORA DEL CERBAIOLO

Ha vissuto e pregato nel suo eremo per oltre trent’anni, circondata dalle sue capre, pensando a quell’eternità dove oggi riposa.

TRA CIELO E TERRA

Chi l’ha conosciuta, difficilmente può dimenticare quella piccola ma grande religiosa che è stata suor Chiara Barboni, considerata  l’ultima eremita-pastora d’Italia. Suor Chiara, si è spenta all’età di 86 anni con il vento della primavera (alle 15,52 del 29 aprile 2010) lontana però dal suo venerato Monte Cerbaiolo, dove vi ha fatto ritorno stavolta per l’eternità, il giorno del suo funerale il 3 maggio 2010, dove è stata inumata nel cimitero monastico ai piedi dell’antico monastero. Una vita spesa al servizio del silenzio di quei boschi, delle aspre rocce che dominano la valle, del vuoto-pieno dei corridoi monastici. Ma anche madre del suo focolare, dove portava i capretti più bisognosi. Voce quella sua che molte volte si confondeva nel frastuono dei belati delle sue amate “bambine” (come amava definire le capre in onore di colui che le ha create). Donna di profonda spiritualità: anche quando lavorando nelle stalle, la si sentiva sussurrare questa preghiera: “Padre Nostro…dacci oggi il nostro fieno quotidiano”. A poco servivano a lei le “ore della canonica preghiera”.

Preferiva pregare davanti al suo focolare, ascoltando il sibilo del vento d’inverno irrompere dagli spifferi delle finestre. Suo era il crepitio del fuoco coi ciocchi che gli facevano da poggia piè. Gli animali sembravano fargli da coro: cani, gatti, agnelli, ma anche quel topolino che camminando tra i tubi arrivava fino a ricevere il formaggio dalle mani dell’anziana monaca. Anche una civetta si era accomodata in cucina, in quella normalità “selvatica” di cui suor Chiara sembrava essere depositaria, frutto –forse- di quella vicinanza spirituale con l’eremo della Verna dove frate Francesco ricevette le stimmate. Era per questo che con un guizzo d’orgoglio, suor Chiara amava ripetere a coloro che arrivavano fin lassù: “Chi vede la Verna e non il Cerbaiolo, vede la madre ma non il figliuolo”. Tanto semplice era la sua spiritualità (apparteneva all’Ordine della Piccola Fraternità Francescana di Santa Elisabetta d’Ungheria con sede in Firenze), da diventare contagiosa.

Chi infatti ha avuto la fortuna di avvicinarla e frequentarla, può testimoniare il carisma che la piccola monaca emanava. In lei coabitavano saggezza e semplicità, tanto che l’impressione comune era quella di sentirsi disarmati davanti alle sue battute acute e piene di umorismo, come da quel suo rapporto un Dio che abitava tra quelle mura. Un dialogo essenziale il suo, da donna di montagna e cenobita, per niente distaccato, benché  a volte severo.Incarnava la dolcezza dei gesti (le carezze fatte agli animali), ma anche l’austerità delle rocce che la riparavano (parole greve come massi). Così, ascoltare il paesaggio che circonda il Cerbaiolo era come ascoltare la voce della sua vecchia custode. Si percepiva che lei era “nel mondo, ma non del mondo”. Davvero un pezzo di cielo caduto in terra? Chiedetelo a chi l’ha vissuto…

“L’ORA DEL PASTORE…”

Vivere da pastori, – spiega la religiosa -, significa sapere cosa si prova quando la desolazione e lo strazio ti mostra ciò che il lupo ha compiuto, dilaniando gli animali. Allora ci si sente impotenti ed affranti, come se qualcuno ti rubasse la pace!” Quella pace che lei chiama  “l’Ora del pastore”. Un momento  che gli allevatori conoscono bene, quando infatti gli animali al pascolo sono al sicuro e l’atmosfera si fa beata e pacifica anche per il pastore. Tutto ciò ha un sapore biblico: una sospensione dello spirito che ti porta a quel sollievo che diventa un abbandono verso Dio.

In quegli istanti trascorsi al pascolo, – racconta la pastora-  si può capire come il Buon Pastore abbia immesso anche in quelle semplici creature il suo afflato d’amore. “Basta osservare gli animali felici e mansueti, che rientrano all’ovile a sera per stringersi attorno ai cuccioli con una tenerezza famigliare. In fondo, l’ora del pastore è lo spirito della Pasqua cristiana. ” Sono gli insegnamenti della natura, le regole a volte belle o truci di coloro che senza fare distinzione sono immersi nella contemplazione della vita reale: “Non chiamatemi mistica – dice Chiara-, semmai definitemi una contemplativa. Quando porto al pascolo le capre, anche se in quel momento non sono fisicamente dentro una chiesa, ciò che sto facendo diventa un “ora et labora”, come ricordano gli antichi padri della Chiesa. Prego mentre sto allattando un capretto, oppure mentre preparo il fieno per le capre, perché è lì che la Parola si rende reale. Nel quotidiano esistere delle piccole cose, come dice Isaia: “Dio porta gli agnellini sul suo petto”, oppure la parabola evangelica del buon pastore che sacrifica la vita per le sue greggi.”

” Tutta la Bibbia è costellata di figure e situazioni come queste, e se continuo ad essere una religiosa-pastora – afferma Chiara-, è perché scopro ogni giorno in questa vita qualcosa di straordinariamente nuovo.  Le giornate del pastore non sono mai identiche l’una all’altra. “Un pensiero quello di Chiara che si fa preghiera “spontanea” anche mentre accudisce le capre; capita così di poter sentire intonare il Padre Nostro con la variante: “..dacci oggi il nostro fieno quotidiano!” “Qui trovo tutto ciò che serve per la mia fede, non intendo quel “tutto di più” di chi giunge fin quassù dalla città, immaginando la vita pastorale come un qualcosa da manuale.

Questa vita è intrisa di sacrificio e dedizione; le capre ti cercano e richiedono assistenza quotidiana. Tutti i giorni dell’anno. Sanno che hanno bisogno del pastore e lo ripagano con un rapporto speciale.  Il pastore conosce le sue pecore, dice la Bibbia, ecco perché molto spesso mi  accorgo di usare il plurale quando mi rivolgo alle mie caprette dicendo: siamo qui! Me le sento vicine,diciamo pure alla pari considerando il rispetto che dobbiamo al creato. C’è poi la solitudine di questa valle, che è il mio “humus spirituale”; una condizione di privilegio che mi porta ad accettare ciò che Dio vuol somministrarmi.” “La regola è aspettare e ricevere. I pastori in fondo non hanno mai fretta. Il tempo degli uomini è una ricerca continua per tutti, senza distinzione. Più uno si fissa in Dio e meno ha la percezione che il tempo trascorra”, soprattutto in questi luoghi dove sembra inesorabilmente imprigionato tra le rocce.

L’ETERNO IN ATTESA DELL’ETERNITA’

Ripeteva spesso di “essere di passaggio” su questa terra, a fare intendere che quel suo piccolo monastero che negli anni ’60 ricostruì pietra su pietra come fece Francesco a S.Damiano, era una specie di “stazione intermedia dello spirito”, ma con una più alta destinazione.Parlava del Cerbaiolo come di una parentesi che precede ciò che l’aspetta  “quando il  mio Signore mi chiamerà!”. “E’ uno spaccato di paradiso in terra?” ebbi modo di chiedergli un giorno. “Faccia un po’ lei…” mi rispose  sorridendomi col suo modo di fare  incisivo. Pareva che le robuste mura secolari e la carne sempre più debole  di suor Chiara si fondessero. Eppure, lei sentiva l’eco della sua morte giungere dalla valle. Già un anno prima la suo passaggio,  nei suoi discorsi metteva sempre  questa intuizione: “Sento che ormai il mio cammino sta per giungere alla meta…”. Poi chiudeva il tutto con una risata. I vecchi sanno quando devono morire. Lo sentono e alcune volte lo dicono. Lo diceva e lo ripeteva anche a me, ma è rimasta “da buon soldato” fino all’ultimo a difesa della sua postazione. Dal Cerbaiolo si è allontanata solo poche volte in trenta anni e per brevissimi periodi. Quando non era in casa, la trovavi dalle capre o nel bosco.

E non c’era di che sorprendersi nel vedere una donna ultraottantenne portare balle di fieno con la carriola o distribuire la “chicca”, i cereali agli animali. Tutto  per lei rientrava nella normalità di una rara vocazione “pastorale”. Il suo tempo biologico era così iscritto nel divenire delle stagioni: aveva il tempo delle nascite (degli agnelli), quello del pascolo e siesta estiva, ma anche quello del rischio dei lupi e delle gelide notti invernali. Tutto questo era il “tempo diverso” che piombava su chi valicava la soglia del Cerbaiolo. Lo si capiva già abbandonando la macchina ai piè dell’irta salita che separa l’eremo dalla modernità. Che ridere vedere suor Chiara spostarsi con la sua “Renaul Diane” , usare la macchina come se stesse al timone di un galeone . Chi vi scrive quel tracciato per metà sentiero e strada sterrata l’ha fatto più volte in sua compagnia. Scendere da quella macchina, voleva dire doversi riprende ogni volta dall’esperienza.

L’ULTIMO   NOSTRO “FATALE”    INCONTRO

Ad aspettarla ai piedi della salita, c’era l’ambulanza per quello che sarebbe stato il suo ultimo viaggio. Lei  ne sembrava convinta. Erano da molti mesi che non ci vedevamo e quel giorno di febbraio decidemmo di partire da Vicenza per andarla a salutare. Arrivammo all’eremo dopo aver cambiato, misteriosamente strada facendo i nostri piani. Qui c’incrociammo con sorpresa con l’infermiere preoccupato sul come trasportare la suora all’ambulanza attraverso la discesa: “La vostra presenza è provvidenziale” ci disse lui. Non volevamo di certo essere lì per questo. Quando ci vide, Chiara disse: “Mi spiace solo non potervi preparare una pastasciutta. Siete venuti da così lontano per questa vecchia!”. Poi aggiunse: “Non sarete venuti per accompagnarmi all’ospedale? Nevvero…”. Iniziammo la discesa con lei posta su una speciale sedia. Più volte si è scusata per lo sforzo cui ci stava sottoponendo, aggiungendo poi qualche sua battuta. Poi disse: “Voi oggi siete entrati di diritto nella storia del Cerbaiolo per questo vostro sforzo. Chiamati per fare questo? Pensate un po’…”.

Tutto si è concentrato in meno di un centinaio di metri in discesa fatta a piccoli passi che però a noi è sembrata come un’eternità. La stessa cui suor Chiara stava andando incontro. Quel giorno dopo che l’ambulanza partì per la via del ritorno, travolti dai nostri sentimenti per quel gesto inaspettato e pietoso, ci trovammo a vedere la neve che scendeva coi raggi di un sole pallido e un cielo azzurrino. Una stranezza che rendeva ancora più significativa la nostra presenza in quel luogo.

IL  FOTOGRAFO E L’EREMITA

Sono tra i pochi  fortunati che hanno avuto la  possibilità di fotografare suor Chiara nelle sue  mansioni quotidiane. Ci ho impiegato quasi un anno  prima di ricevere da lei  il suo consenso. Non amava  di certo farsi immortalare, ma quei miei scatti serviti  poi per alcune copertine e articoli che raccontavano la bella storia di “Suor Chiara delle capre”, danno testimonianza della bellezza di questa figura, dai cui occhi si evinceva la profondità del suo animo.

 

Facile per questo poterla ritrarre. Fotografia ed eternità vanno spesso di pari passo, ma non è sempre una cosa facile dovendo trattare con un’eremita. Spero di  aver colto questo genere di bellezza…

 

IL PRIMO E ULTIMO SALUTO

Così si congedata un’eremita: con un primo saluto per essere entrata nell’eternità. Ed un ultimo addio per aver lasciato questa terra. Non si vede facilmente (almeno in Italia) un funerale dove la salma arriva su un carretto trainato da un moderno asino (trattore).

Immagine d’altri tempi. Una scena non nuova da queste parti, vista la posizione isolata dell’eremo del Cerbaiolo.Così anche il funerale di suor Chiara, svoltosi nel pomeriggio lunedì 3 maggio 2010, ha calcato lo stesso spirito e ritualità. Era primavera, ma quel dì anche il sole pareva intimidito. La bara è arrivata da Firenze lungo la superstrada, ma l’ultima salita al Cerbaiolo ha dovuto rispettare l’asperità del luogo. Le macchine lasciate ai piè dell’eremo, con l’ultimo strappo da fare a piedi. La piccola folla di amici e parenti spuntavano qua e là tra gli alberi. L’ultimo passo prima della salita, per suor Chiara è il passaggio dal carro funebre al carro del fieno.

Quante volte lei è venuta a prendere fin quaggiù il fieno per le sue capre. Oggi invece, è lei ad essere trasportata. Chissà se in vita lei si sarebbe immaginato tutto questo? La risposta come testimone è sì! Suor Chiara aveva voluto che fosse così il gesto di pietà per lei. Questo sarebbe stato l’ultimo viaggio dell’anziana eremita: un ritorno alla sua casa, ma stavolta per sempre. L’incedere è rotto solo dal rumore del moderno trattore. Le pietre del sentiero ostacolano l’avanzata, come se volessero rallentare quel momento. L’atmosfera intorno è più autunnale che primaverile, mentre il vento porta di tanto in tanto l’eco di qualche parola sussurrata  di chi sta pregando. Non è un calvario questo, per Chiara non lo è mai stato.

E’ solo l’esperienza di un cammino che chiede fiato, per poi giungere alla meta e poter da qui ristorare il corpo e lo sguardo. Le gesta erano intrise di  un misto tra modernità e antichità.Le mani degli amici sulla bara, come se cercassero di dare un’ultima spinta all’eremita   per arrivare nella sua  casa. Anche i suoi gatti l’attendevano . Le capre facevano sentire i loro belati, nascoste dietro lo sperone di roccia. Il ritorno dell’ultima eremita del Cerbaiolo era completato. Lei, sasso tra questi sassi, era entrata in quel silenzio animato.

IL SUO RITORNO ALLA TERRA…

Tutto torna alla terra. Da quassù, il piccolo cimitero monastico del Cerbaiolo è quasi fagocitato dal bosco. A dividerlo c’è solo un piccolo muricciolo con una piccola cappella, dove tra i fiori spontanei spuntano le

croci di quanti hanno vissuto in questo eremo. L’ho sentita ripeterlo più volte da suor Chiara, indicandomi il piccolo camposanto, che quella sarebbe stata la sua casa eterna. Ci credevo allora, ci credo ancor più oggi. La “piccola porta” scavata sulla terra ha accolto le spoglie mortali di suor Chiara. Qualche inevitabile lacrima nostra, gli avrà forse strappato un ultimo sorriso: “Non merito tutto questo…” avrebbe rimbrottato lei.E’ l’ultimo gesto pietoso fu quello dell’umida  terra che ricadeva come sigillo sul suo corpo. La avvolgeva come se volesse esserne gelosa. Perché no! Suor Chiara del Cerbaiolo è vissuta in questa terra. L’ha santificata e onorata, ed anche quando l’accompagnai  nel suo ultimo viaggio verso l’ospedale, ebbe la forza di ripetermi: “Ritornerò…”.  Così è stato, ma stavolta per non partire mai più …

nella foto L’ULTIMA SUA DIMORA ETERNA…

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Musica di riflessione Yanni – Canon Of Pachelbel


109 ANNI… E DUE INTERVISTE

Di Antonio Gregolin                                   -Tutti i diritti riservati  di testo e foto-

LA “VISPA” CARMELA: L’ULTRACENTENARIA VENETA

L’intervista a una delle donne più longeve del Veneto e d’Italia (Carmela Chivassi è deceduta il 12 dicembre 2010, nove mesi dopo questa sua prima e ultima intervista).

foto storica di famiglia di Carmela (a sx vestita di bianco)

Questa è la mia biblioteca con i suoi 109 anni di storia, il prossimo dicembre…”, così  il nipote, Gianfranco Lovato, presenta la zia  Carmela Chiassi, classe 1901, residente a Ponte di Castegnero (Vi), considerata la donna più longeva del vicentino, nonché  tra le poche ultracentenarie d’Italia. Se non è la più anziana d’Italia è la seconda, ma in casa Lovato questo sembra un dettaglio di poco conto. Se ci si aspetta d’intervistare una vecchietta decrepita e poco presente, la signora Carmela smentire ogni aspettativa. Lo fa  iniziando a raccontare  prontamente  un secolo e più di vita: “E che vita!”.  Volontà di ferro, buona salute e voglia di vivere non gli mancano affatto, tanto da seguitare a coltivare la sua passione di sempre: la lirica. Se è vero poi che gli anziani stanno diventando dei “supernonni”, Carmela ha qui l’ardire di spiegare d’essere stata accompagnata per la prima volta all’Arena di Verona a vedere l’Aida, quando aveva appena 104 anni. E l’anno dopo pretese di andare a vedere  la Boheme, senza  immaginarsi di essere  così la più anziana spettatrice del più  celebre  teatro del mondo. A vederla oggi nel suo letto mentre osserva il giardino fiorito del nipote Gianfranco che da dieci anni la accudisce amorevolmente, sembra proprio che la ultracentenaria aspetti sempre la nuova stagione, con una limpidezza di pensiero che disarma chi va a trovarla.

E’ spiritosa anche quando dice : “Parlè ciaro, parchè ghe sento ancora ben!”. Non è più l’arzilla di qualche anno fa, i pochi passi oggi li compie solo per spostarsi dalla poltrona al letto, e sebbene sia trisavola con ben cinque generazioni sulle spalle, l’occhio vigile conferma l’eccezionalità del suo stato di salute. Lo conferma il medico che va a trovarla “solo” -si fa per dire-, una volta al mese.  E il prete? “Quello fa sempre ora a  passare –incalza Carmela-, ma è meglio che aspetti…”. La salute? “Prendo solo due pastiglie al giorno -spiega- e a parte due fratture all’anca quando ero giovane (a 83 anni), l’ospedale lo conosco solo di striscio…”. Non è dunque un problema intervistarla, e quand’anche la memoria gli impedisce di essere precisa con le date, c’è il nipote ad imbeccarla. Basta poco perchè l’anziana continui il suo racconto.

Preferisce che la chiami: signora o signorina? Fa lo stesso. Per l’anagrafe sono nubile, anche se nel ‘28 sono diventata ragazza madre con una figlia (Cornelia) che oggi ha 83 anni e vive a Pordenone.

Così è stata una ragazza madre… Non può immaginare cosa volesse dire a “stì ani”. Per una famiglia significava avere un morto in casa. Mi capisce, nevvero!?

Cerco! Mi racconti allora della sua famiglia… Sono una figlia di nessuno “NN”(da nescio: “non conosco” e nomen: “nome”). Nel registro è scritto che sono nata a Vicenza il 9 dicembre del 1901, e portata in orfanotrofio pochi giorni dopo. A due anni sono stata affidata ad una famiglia che abitava sui Monti Berici. A cinque venni poi  adottata da Maria Zamberlan e Ottaviano Lovato, una sfortunata coppia di Trissino che negli anni avevano perso quattro gemelli. Adottarono me, ma poco dopo a quaranta anni compiuti, Maria Zamberlan si ritrova incinta. Temetti allora di essere rispedita in orfanotrofio, ma il padre putativo si oppose e così restai in famiglia.

Storia sfortunata la sua… “Non è finita qua! Nato Antonio che diventerà il mio fratellastro, nel 1922 ci trasferimmo a Montegaldella, e un anno dopo definitivamente a Castegnero. Nel 1928 nasce mia figlia, che il padre però non riconobbe e io mi trovo essere una ragazza madre. Nel frattempo, ci fu la Prima Guerra Mondiale…

Mi racconti… Avevo 16 anni e ricordo che a Trissino nel pieno della guerra, alloggiavamo in casa soldati francesi e inglesi: gente cordiale. Ricordo un giovanotto francese, carino, che un giorno mi disse: “Voulez-vous coucher avec moi?” Lui fu loquace, mentre io ero intimorita. Mi disse anche che mi avrebbe portata con lui in Francia, mentre mia nonna mi dissuadeva dicendomi: “I zè mati cara, sta qua!”. Di quei momenti conservo ancora come soprammobile un bossolo di un proiettile di ottone inciso da un soldato inglese, con la data 1917 ed alcuni fiori, come ringraziamento per l’ospitalità”.

Carmela oggi con il nipote

Dopo la Prima, venne anche la Seconda Guerra… In quegli anni prestavo servizio presso i nobili Clementi che avevano palazzi a Vicenza e Castegnero. Mentre a casa nostra ospitavamo due soldati tedeschi, Franz e Fritz , sostituiti poi da due giovani delle SS. Militari che non ci hanno mai fatto del male. E venne il giorno del 1945, quando gli americani presero a bombardare Vicenza, mentre mi trovavo nella villa dei Clementi. Eravamo tutti nascosti  dentro il rifugio mentre le bombe che ci cadevano sulla testa. Pensavamo di morire.  La villa venne completamente distrutta, mentre noi uscimmo indenni, ma senza più un lavoro. Finita la guerra, trascorsi cinquanta anni come governante al servizio dell’ingegnere Castelletto di Padova. Nel frattempo, mia figlia Cornelia fattasi maggiorenne, s’innamorò dello zio Tarcisio Lovato e nel 1953 si sposarono.

Ma in tutti questi anni, morosi mai? (Sorride). In tutto cinque, e tra questi ricordo ancora quel soldatino francese della Prima Guerra che mi voleva portare a letto…

Ma... Non e’ successo niente!

Veniamo ai nostri giorni: lei sa di essere tra le poche ultracentenarie d’Italia? “Addirittura? Così “vecia son diventà?”.

Un traguardo cui  solo pochi arrivano… L’importante è restare lucidi, caro mio. Mangiare poco -ma questo lo facevi anche senza volerlo ai miei tempi-, bere un po’ di vino bianco ed essere felici…

Felici? Vede, io non mi sono mai lasciata andare. Certo, non ho fatto tutto ciò che volevo, ma tutto ciò che ho avuto in qualche maniera mi è bastato.

Se potesse tornare indietro, cosa farebbe? Studierei per diventare maestra, perché questo è sempre stato il mio sogno. Non rifarei invece, la governante. E non è detto che sposerei un “sior”.

Come trascorre oggi le sue giornate? Amo guardare la televisione fino a notte tarda. Mi piace “Ballarò” e poco  invece Pippo Baudo dopo che si è lasciato con la Ricciarelli. Non perdo nessuna delle opere liriche che danno in televisione. Poi c’è la “Prova del Cuoco”, mentre non sopporto quelle “sbeteghe coe tete fora che se move par mostrarle a tuti”.

Si ricorda qual è stato il giorno più brutto dei suoi 109 anni? Quando mi bombardarono a Vicenza nel ’45.

Cosa invece le è mancato di più? Conoscere e incontrare la mia vera mamma…

Tornerebbe a vedere un’opera all’Arena di Verona? Se mi accompagnassero, perché no?Mangiare poco ed essere contenti!

Come se lo immagina il futuro? Mi basterebbe che restasse così, a casa con mio nipote.


Tra qualche mese lambirà i 109 anni? Il prossimo dicembre, ma non ho intenzione di andarmene subito. Vede un giorno sognai di trovarmi in Paradiso con S.Pietro che mi diceva: “Senti Carmela, tiente sù parchè qua de vece e grize come ti ghe nemo za abastansa!”. Intendeva forse dirmi che non era ancora la mia ora!?

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111 UNA SECONDA STORIA

UNA “MARGHERITA” SOLARE

Prossima al suo nuovo passaggio ultrasecolare, la storia di una maestra vicentina da primato nazionale per età

Se davvero gli occhi sono lo specchio dell’anima, i due piccoli pertugi con cui Margherita Venzo mi scruta dalla carrozzina, chiedendo poi al personale: “Cosa ci fa un giornalista qui da lei?”,  sono oggi come delle serrature di quei cassetti della memoria, dove sono depositati centoundici anni di vita che lei celebrerà il prossimo 21 febbraio 2012. Da quel momento sarà riconosciuta dal “Club Over 100” che sancisce la classifica dei “matusalemme italiani”, come la sesta più longeva d’Italia, lontana appena – si fa per dire-  cinque anni dalla “regina della longevità “ a trentina Venere Pizzinato di 114 anni e 252 giorni. La vicentina Margherita Venzo, classe 1903,  sta però risalendo anno dopo anno la sua classifica nazionale senza alcun cedimento, passando dalla 77ma posizione dell’anno scorso, alla sesta che ha raggiunto. Margherita, arriva però in vetta della graduatoria veneta, per essere la nonna supercentenaria.

“Il giornalista è qui –gli risponde a Margherita un’operatrice della casa di riposo Immacolata Concezione di S.Giovanni in Monte (Vicenza), dove Margherita è ospite dal 1992- per lei e per i suoi 109 anni!”. “Ah, tanti così ne ho?” ribatte candidamente l’anziana. A S.Giovanni in Monte oggi è arrivata la neve e Margherita non perde l’occasione per chiedere: “Non l’avrà mica portata lei?”. E’ di buon umore oggi l’anziana che è il “gioiellino” di questa casa di riposo: “Ma non è sempre così disponibile –precisano gli operatori-, la signora Margherita ha un carattere signorile ma determinato!”. Lo si vede soprattutto quando al momento delle foto, lei chiede d’indossare il suo cappellino rosso, e a foto fatte, lei ringrazia ma in cambio vuole un bacio. “Margherita è così -dicono gli operatori- attenta a tutto e a tutti, con un passato intenso dedicato all’insegnamento, alla famiglia e al volontariato. Si vede che tutto questo gli ha fatto bene!”. Un bene che gli si legge in volto quando a Margherita gli si parla ad alta voce nell’orecchio, chiedendogli come è stata la sua vita in tutti questi anni?

“Una vita intensa –risponde l’anziana maestra-, piacevole e piena di soddisfazioni. Educare per me è stata la cosa più grande che potessi fare, e l’ho fatto sempre con estrema passione!”. In modo chiaro favella la sua data di nascita, i tempi aspri delle due guerre mondiali, il matrimonio a trenta anni e poi i due figli: Francesca morta giovane in un incidente e Silvano che oggi a 78 anni vive in Liguria, e verrà a trovare la madre proprio il giorno del suo prossimo compleanno. E’ serena Margherita e lo si evince dalla maniera con cui racconta a fotogrammi la sua vita, con  uno stupore innocente che gli fa ancora sgranare i suoi piccoli ma intensi occhi. “Mi chiedono spesso come ho fatto ad arrivare a questa età? Sa che non lo so – aggiunge l’anziana-, ma posso dirle che ho sempre cercato di vivere nella maniera più naturale possibile, senza eccedere in niente. Il resto credo, sia fortuna!”. Sicuramente, se si arriva a questo traguardo con questa forza di volontà: “Vorrà dire che il buon Dio mi vuole bene –aggiunge lei-, ma anche che io voglio vivere ancora molto”. Se poi gli si dice che è proprio una donna fantastica, lei rispondere: “ Sa che non ci ho mai pensato di essere tanto fantastica!”. “Di anni ne ho tanti – conclude l’anziana-, ma a questo punto, la festa grande dovremmo farla quando saranno 110 tondi tondi!

A quel punto, mi piacerebbe che invitassero il presidente della Repubblica, anche se preferirei il papa!”. “Non è detto che non  ci siano –gli hanno risposto gli operatori-, noi ci impegneremo ad esaudire il suo desiderio,  ma a lei chiediamo di impegnarsi per arrivare a quel compleanno!”.