SANTIAGO CALATRAVA: L’uomo dalle linee morbide

Di Antonio Gregolin                                     –Diritti riservati  di testo e foto-

CALATRAVA: L ‘ARCHISTAR”  FUORI DALLE REGOLE

Pacato, morbido nei gesti, il catalano Santiago Calatrava sgrana gli occhi davanti al suo ponte di Venezia e cerca di tapparsi gli orecchi per non essere assordato dalle tante, troppe, polemiche che hanno indotto a cancellarne l’inaugurazione.  Lui che sta scrivendo pagine insigni dell’architettura mondiale si presenta con un fare affabile, per niente snob, particolarmente attento a ribadire i meriti agli italiani che definisce “i migliori maestri costruttori e operai del mondo”. “Tutta colpa del vostro Rinascimento –aggiunge l’architetto in perfetto italiano-, che in città come Venezia è rimasto nell’aria come ancora nelle mani della sua gente. E i risultati si ammirano, riconosciuti a voi italiani in tutto il mondo…”.

RIFAREBBE CIO’ CHE HA FATTO A VENEZIA, DOPO LE CRITICHE PER IL COSTO ELEVATO DEL SUO PONTE? Immediatamente, perché è il sogno di ogni architetto, antico e moderno! Qui avete delle maestranze che in nessun’altra parte del mondo trovo, che sanno lavorare vetro, acciaio, pietra.

LEI NON E’ SOLO UN ARCHITETTO, MA ANCHE PITTORE E SCULTORE COME IN FONDO ERANO GLI ANTICHI … Rispetto il titolo che porto, quello di architetto che in greco significa proprio “a capo di chi lavora”. Sì è vero sono un pittore e uno scultore un po’ geloso delle mie opere che conservo nello studio di New York.

QUANDO HA SENTITO DI VOLER DIVENTARE UN ARCHITETTO? Da giovane, avevo 16 anni…

QUAL E’ STATO IL MOMENTO IN CUI HA SENTITO DI ESSERE FINALMENTE RIUSCITO AD ENTRARE  NEL REGNO DELL’ARCHITETTURA MONDIALE? Mai! Mai…

SI SENTE PIU’ UN ARCHITETTO MODERNO O UN MAESTRO DI BOTTEGA RINASCIMENTALE? Mi sento legato al mio tempo…

LA PRIMA COSA CHE GLI VIENE IN MENTE QUANDO LE DICO : BERNINI? La magnificenza della Basilica di S.Pietro

MICHELANGELO? La Pietà’

RENZO PIANO? Il Poumpidou di Parigi

COSA LE PIACE DI PIU’ DEL SUO MESTIERE? Mi piace  poter lavorare  in opere che hanno una scala umana.

COSA  LE PIACE MENO? Faccio fatica a dirglielo. Forse perché amo troppo il mio mestiere

STA CAMMINANDO IN UN BOSCO: COSA ATTIRA DI PIU’ LA SUA ATTENZIONE? Il verde, la freschezza il senso di vitale spazialità…

…IN UNA CITTA’? La dimensione umana

E’ PIU’ FELICE QUANDO SCOLPISCE, DIPINGE O PROGETTA? Sicuramente quando dipingo

QUANDO NON E’  IMPEGNATO IN  TUTTO QUESTO, COS’ALTRO FA? Dipingo per progettare

LA CITTA’ CHE AMA DI PIU’? Valencia la mia città natale. Poi Venezia

QUANDO LA CHIAMANO MAESTRO, COSA PROVA? Penso che sto diventando davvero vecchio

HA UNA SUA BOTTEGA? Sì, io lavoro in modo intimo…

QUAL E’ LA SUA PIU’ GRANDE PAURA? Non essere all’altezza delle circostanze

E LA SUA PIU’ GRANDE SODDISFAZIONE? Vedere  le mie opere ben adoperate.

CREDE DI AVER GIA’ PROGETTATO LA SUA OPERA MIGLIORE? La maturità in architettura, arriva con la mostra stessa maturità che poi è frutto dell’esperienza artigianale di ogni essere umano. Così credo che il ponte di Venezia sia mia un’opera  matura. Questo mi da profonda soddisfazione. Forse ad oggi questa è la mia opera migliore!

LE VIENE COMMISSIONATO  UN PONTE: DA DOVE  INIZIA? Dal luogo e dalla forma del territorio in cui dovrà essere collocato

QUAL E’ LA FORMA GEOMETRICA CHE PIU’ LE PIACE? Le curve.

QUELLA MENO? Gli spigoli, ma anche le stesse curve quando sono usate male.

E’  DUNQUE PIU’ PORTATO PER LA MORBIDEZZA DELLE FORME  CHE  LA RIGIDEZZA. QUESTO RISPECCHIA IL SUO CARATTERE? No, però  mi piace il contrasto tra il rigore  strutturale e la leggerezza.

IL SUO STATO D’ANIMO ATTUALE (2009)? Felice o quasi…

E’ CONOSCIUTO ANCHE PER ESSERE UNA PERSONA SCHIVA AL GOSSIP E ALLA MONDANITA’ E’ VERO QUESTO? Assolutamente vero!

CREDE IN DIO? Profondamente!

METTE DUNQUE DELLA SPIRITUALITA’ NELLE SUE OPERE? Sì, come in tutte le opere dell’uomo.

MOLTI ARCHITETTI HANNO DATO IL MEGLIO DI SE, PROGETTANDO CHIESE MONUMENTALI . LEI INVECE PREFERISCE LA PROGETTAZIONE  URBANA? HA MAI PENSATO DI REALIZZARE UN CHIESA? Di fatto che l’incontro con la sacralità si può vedere anche in un ponte. Un ponte serve a relegare e la parola “religione” viene proprio da religere.

TORNEREBBE A RIFARE IL PONTE SUL CANAL GRANDE? Con piacere

IL PEGGIOR DIFETTO DEGLI ITALIANI? Io ho una grande miopia in queste cose…

…E  IL LORO MAGGIOR PREGIO? Sono consapevole di vivere in uno dei paesi (l’Italia) se  non il paese più bello del mondo

C’E’ FUTURO PER L’ARCHITETTURA ITALIANA? C’è un presente! L’ha avuto sempre e questo che conta per il futuro.

…E PER I GIOVANI ARCHITETTI ITALIANI? Il loro tempo verrà, ne sono sicuro…

Il PONTE DI VENEZIA E’ UN’ALTRA OPERA CHE LEI CONSEGNA ALLA STORIA, COME SI SENTE UN UOMO CHE SA DI ENTRARE NELLA STORIA DI UNA CITTA’? Come un architetto-costruttore che ha lasciato un suo segno sull’esempio di quanti l’hanno preceduto, rendendo unica una città come questa!

COME INVECE VORREBBE ESSERE RICORDATO? Come uno che ha amato profondamente il mestiere che fa e soprattutto ha amato Venezia.

COSA NON HA ANCORA FATTO, CHE VORREBBE FARE? Sono più le cose che non ho ancora fatto, che quelle che ho già realizzato. Spero così di avere ancora del tempo a disposizione per poterne fare altre .

LA DONNA CHE VISSE DUE VOLTE

Di Antonio Gregolin                                           -testo e foto riservati-

“IN ITALIA ERO MORTA.L’AFRICA MI  HA SALVATA!”

La commovente storia  di un’imprenditrice del Nordest veneto arrivata ad un passo dal suicidio dopo  il fallimento della sua ditta,  che scopre la sua “resurrezione”  in Africa, dove  è tornata ad essere  “nuovamente una persona e una imprenditrice” con un futuro tutto da scrivere.

L’Africa mi ha accolta. L’Africa mi ha salvata!”. Lo dice senza dubbi e oggi con un sorriso sereno Katia Mazzuccato, 43 anni padovana di Monselice, ripercorrendo la sua storia recente da ex imprenditrice di successo, ma indotta al fallimento, che poi  ha scoperto nel Continente africano la sua nuova “culla”. “Una rinascita prima ancora come donna e poi come imprenditrice” aggiunge la Mazzuccato. Il cielo per lei ora è azzurro, e molta di questa sua ritrovata serenità lo deve allo spirito dell’Africa, tra Benin, Togo e Gana dove è conosciuta come la “Yovò” la bianca. E’ passata così dal Nordest d’Italia al Nordest africano: da una condizione di “appestata” per colpa della burocrazia italiana, alla “ritrovata identità” in quella porzione di stati dove l’economia nascente rispecchia quella atmosfera da “miracolo economico” che si respirava nella sua terra natia fino agli anni ’90. Ma il bagaglio d’esperienze dell’imprenditrice padovana, porta ancora il peso della vicenda professionale che l’ha travolta anche come donna spingendola  fino al suicidio.  Non a caso oggi lei si definisce “una donna col pelo”. Una “sopravvissuta” visto che nel 2001 la sua ditta è fallita, dopo essere stata prima accusata con l’osservanza di sospensione dell’attività, e poi assolta. “Questo mi ha portata al tentativo di suicidio”.

“Sono una scampata alla ferocia del disonore, passando dalle stelle alle stalle, dopo un improvviso battage mediatico orchestrato ad arte, cui hanno fatto seguito una serie di provvedimenti amministrativi, con il quale si sosteneva che con i nostri materiali di recupero (pneumatici) producevamo diossina”. La questione perse credibilità solo dopo tre anni dall’avvio delle indagini, ma intanto la società di venti operai fu costretta a chiudere i battenti,  dopo il sequestro dei beni dei soci, impossibilitati anche economicamente a pagarsi  qualsiasi ricorso. L’inferno burocratico della Mazzuccato, la cui esperienza è simile in questo momento a quella di molti imprenditori conterranei, è una cicatrice che è indelebile:  “Se in  Italia un tribunale ti dichiara fallito –racconta l’imprenditrice che divenne leader nel settore del riciclaggio dei pneumatici , nonché presidente di categoria-, ricevi sulla tua persona e onorabilità un marchio indelebile che ti spinge fin sul baratro”.

“LA NOSTRA GIUSTIZIA PUO’ UCCIDERTI”

Da un’accusa ritenuta poi infondata, inizia la “discesa agli inferi” di Katia, tanto che per la donna manager abituata agli affari internazionali con il ruolo di presidente di categoria, quel suo mondo gli si è sbriciolato improvvisamente tra le mani. “Se non vivi questa esperienza, non puoi comprenderla fino in fondo.Non puoi capire cosa significhi passare improvvisamente da libera cittadina a presunta delinquente, sapendo di essere innocente, perdendo tutto quello che hai costruito con fatica in una vita. Pazienza, se improvvisamente il mondo non ti vede più come eri prima. Ciò che non accetti, è il disonore che provi guardando tuo figlio, marito e madre che restano in silenzio. Un silenzio che ti uccide dentro. E’ per questo che un imprenditore arriva vicino al suicidio. Spesso –seguita l’imprenditrice- è un omicidio di Stato e lo dico pensando alle decine d’imprenditori veneti che si sono uccisi negli ultimi mesi dopo essere falliti. Li capisco perché c’ero arrivata vicina. Ringrazio solo mio ex-marito Enrico che, dopo la sentenza del tribunale del 2001 decise preventivamente di eliminare dal nascondiglio dei sonniferi che mi ero comprata. Quella notte di primavera del 2002 ricordo che cercai per tutta la casa le pasticche perché avevo deciso di farla finita. Frugai ovunque, ma non li trovai. L’indomani mattina –racconta Katia con un filo di commozione- fu come svegliarmi da un incubo, chiedendomi cosa stessi facendo”. La sua ditta era ormai fallita. Due anni di fermo, una montagna di debiti accumulati e la certezza di avere 18 euro in tasca che era tutto quanto il Tribunale gli aveva lasciato. “Quando accadono questi fatti –racconta lei- le banche sono le prime ad affondarti. Tutti scappano, diventi un appestato sociale. Ti viene cancellata ogni genere d’identità. Perfino la posta non mi arriva più, perché Katia ancora oggi non esiste…”.  Tre anni dopo le accuse che polverizzarono la brillante carriera della manager padovana, la chiusura delle indagini ha dimostrarono che si è trattato di “atti amministrativi infondati”: “Peccato che fosse ormai troppo tardi. Lo tzunami giudiziario all’italiana aveva esaurito la sua forza distruttiva”.

UNA  “VU’ CUMPRA” AL CONTRARIO

Poi per Katia, arriva l’Africa. “E’ stato osservando i miei operai africani che spedivano elettrodomestici usati in Africa, che compresi quale fosse il mio nuovo obiettivo. Capii che sarei dovuta diventare io stessa una vù cumprà al contrario, partendo cioè per l’Africa. Nel 2002 la magnanimità di un giudice che mi concesse la possibilità d’espatrio verso il West Africa, mi ha fatta giungere in Togo, Gana e Benin. L’area africana che è l’equivalente del nostro Nordest veneto”. Lì Katia apre alcuni punti vendita dove frigoriferi, televisori ed elettrodomestici di ogni genere, tutti dimessi e provenienti dall’Italia, con  l’ingegno degli africani li rendevano un bene di consumo non più da buttare, ma  riutilizzare.

LA BIANCA “YOVO’

La “Yovò” la bianca come la chiamano oggi in Togo dove risiede stabilmente, ha scoperto una nuova vita: “Qui non mi sento più solo una Partita Iva, e neppure solo un Codice Fiscale”. Qualche amico italiano ha così raccolto fin da subito la sfida di Katia, sostenendola nella nuova impresa. La sua rinascita parte così dalle periferia delle grandi capitali africane, dove vive oggi in una modesta casa: “Questo dimostra che non ho trovato l’oro e nemmeno lo sto cercando. Non sono dunque diventata ricca –aggiunge-, ma l’aver ritrovato la mia dignità e il senso della speranza è già una grande ricchezza”.

Nuovi progetti e nuove sfide arrivano poi con la grande crisi globale.“Dal 2006 al 2009 mi sono occupata attivamente dello studio del territorio in Togo e Benin, elaborando un piano d’intervento che tenga conto dell’aspetto economico, sociale e politico, con la valorizzazione integrata di ampie superfici agricole in un Paese in via di sviluppo”.

IL SUO DRAMMA DIVENTA UN LIBRO

Chi ti condanna spesso non legge neppure gli incartamenti dell’inchiesta. Se hai fortuna ti salvi, altrimenti un giudice può buttarti via”. La travagliata vicenda imprenditoriale e umana di Katia è un dedalo burocratico in cui ci si perde facilmente. Ma è lei a ripescare il bandolo: “Non può essere diversamente, visto che sei tu a salvare te stessa! Sei sola e ti lasciano in solitudine.Ti senti come un cane randagio che deve fidarti ciecamente del suo fiuto. Sai che la tua vita è nelle mani di altri. Prima ti colpiscono e ti annientano. Poi semmai, ti assolvono.  Se sono resistita a tutto questo, è perchè ho oltrepassato la vergogna stessa. Ho capito che è più vergognoso piegarsi quando non si ha commesso alcuna colpa, piuttosto che reagire per trovare il proprio bene e quello dei propri famigliari”. Lo ripete forte di quel suo coraggio che lei, grintosa com’è, ha raccontato con passione e molte lacrime nel libro autobiografico “Mal d’Africa” (Ediz. Giraldi). “E’ qui che ho raccontato quella parte della mia vita che nemmeno i miei famigliari conoscevano. Leggendo quelle pagine hanno saputo che avevo deciso di farla finita. Oggi mio figlio di venticinque anni è tornato a guardarmi e sorridermi con il giusto orgoglio di un figlio verso la madre”. Ma il mondo di Katia è radicalmente mutato: “Sono cambiata, in meglio. Oggi i soldi non sono più il fine, ma un mezzo…”. “Dopo lo shock delle inchieste e poi del fallimento ho iniziato a guardarmi nuovamente attorno. Sono ripartita da quel mio “tesoretto” di 18 euro che ero riuscita a salvare dalla mia posizione fallimentare ”.

“IL MIO FUTURO E’ TUTTO AFRICANO”

La parola chiave è energia a Jatropha Curcas pianta per la produzione di olio bio-combustibile. Sarà una piantagione eco-sostenibile che rientra nel piano delle biomasse previste dal protocollo di Kyoto sul clima. Per questo in questi giorni è tornata nuovamente in Italia dove, tra un’intervista e l’altra, sta prendendo nuovi contatti con gli imprenditori veneti per convincerli che la sua trasferta africana è “una realtà che guarda ad un futuro  che sarà anche nostro”.


Carica di contagioso entusiasmo ci saluta così la “Yovò” cioè la “donna bianca” italiana: “Semmai ho sbagliato, l’ho fatto meno di chi in Italia mi ha giudicata colpevole e poi assolta. E’ a loro che dico di essere andata via con la valigia di cartone, ma voglio tornare con l’aereo privato…e solo in vacanza!”. Provocazione? Forse no, Katia la “Yovò bianca” è audace. Già pensa all’India e Cina: “Per questi ci sto già lavorando…”.

GLI UOMINI CHE VIVONO SUGLI ALBERI

ATTENZIONE Il seguente testo e foto anche parziali sono riservati e tutelati da copyright 2013. Qualsiasi riproduzione o utilizzo deve essere autorizzato dall’autore ed editore.

Sono un nucleo di famiglie che hanno scelto di mettere su casa tra gli alberi. Questa è la storia dei primi “arboricoli” d’Italia che si sapeva esistessero, ma nessuno era ancora riuscito a raccontare e fotografare. In esclusiva, il racconto dei quindici speciali inquilini “verdi”, compresa una giovanissima bimba nata direttamente su un castagno…

Cè chi può vantare d’essere nato sotto un cavolo. E chi invece può dire d’essere nato su un albero. Differenza che fa subito volare la fantasia, se non fosse che per una bambina tutto questo è già realtà. Sembra l’incipit di una delle storie del “Barone rampante” di Italo Calvino, invece è l’esperienza quotidiana di un gruppo di uomini, donne e una bambina (Galatea di cinque anni), definiti come “arboricoli”, che hanno scelto di vivere  confortevolmente in un villaggio sospeso tra gli alberi. Un desiderio di molti, ma un privilegio di pochi; anzi, pochissimi, al punto da essere un caso internazionale. Di “arboricoli”  infatti, in Europa se ne trova traccia di casi singoli, mentre qui parliamo di sette case e quindici persone che vivono tra le montagne del NorOvest d’Italia.

Viene subito da chiedersi se ci trovi sul confine tra la realtà e la leggenda!? Ma per convincersi che questa è realtà, basta alzare lo sguardo e scoprire che le case sono sostenute da piante di castagno e carpino, tra bioedilizia e filosofia naturale.

ROMANTICI TRA GLI ALBERI?

Agli inizi era un’idea romantica,  quella di andare a vivere tra le chiome degli alberi –mi racconta la bassanese Alessandra, 30 anni, e Dario, piemontese, genitori della piccola Galatea-, che nel tempo  si è trasformata prima in progettazione, poi realizzazione e oggi in una realtà perfettamente funzionale con le nostre esigenze di vita moderna”. Non uomini fuori dal tempo dunque o “fuggiaschi” dalla quotidianità, ma temerarie persone dedite ad un equilibrio interiore che le ha indotte a scegliersi uno stile di vita che custodiscono gelosamente. Così chi si aspetta di trovarsi di fronte a dei “nostalgici primitivi”, rimane deluso. Chi sbrigativamente volesse definirli come “figli dei fiori”, resta sconcertato quando sente che in realtà, questi “arboricoli” sono manager, farmacisti, ricercatori, infermieri e orafi. Gente che in alcuni casi ha il proprio laboratorio o ufficio, sospeso a sette metri d’altezza, con una veduta mozzafiato dalla cima degli alberi. Dentro le case tutti i confort di un appartamento di città: elettricità, telefoni, bagni e addirittura un idromassaggio. “Ditemi che sto sognando?” chiedo a uno di questi moderni Robin Hood. “Macchè,  questa è la nostra quotidiana realtà che ci siamo costruiti pian piano, con estrema determinazione. Diciamo che è il nostro sogno trasferito sugli alberi!” mi  rispondono.

Il paese vero, quello storico costituito di case di pietra è lontano appena quattro chilometri dal bosco, ma se chiedete in giro dove sono gli uomini che vivono sugli alberi, qualcuno scrolla le spalle e ti risponde: “Bòh! Sono sulla montagna…” senza però indicare  una direzione precisa. Il sospetto è che in pratica qui tutti sappiano, ma nessuno voglia dire ciò che sa, aumentando la suspance fantasy sul possibile incontro. Impossibile davvero resistere alla curiosità di sapere dove si trova questo luogo magico. La  guida si offre di mostrarmelo ad una condizione: assicurare che per rispettare l’armonia e la tranquillità di questi ”inquilini” scongiurando la fila di possibili curiosi, non avrei svelato il luogo. La mia fu una promessa, che oggi vale quanto un giuramento d’amicizia. Scopro  così  di essere il primo giornalista a raccontare la loro straordinaria esperienza.

ARBORICOLI, ALIENI O SFASATI?

Non siamo figli dei fiori, come vorrebbero dipingerci! Neppure alieni, come pure –speriamo-  degli sfasati o disadattati. Men che meno eremiti – spiega papà Dario, 51 anni che nella vita fa l’importatore di rum cubano in Italia-, se abbiamo intrapreso questa esperienza, innalzando per così dire il nostro modo di vivere, recuperando quella vivibilità che sentivamo di perdere nelle nostre città! Ecco perché  qui  ci sentiamo di vivere più intensamente!”

Per arrivare fino alle pendici del bosco, si viene condotti attraverso una stretta strada di montagna che sale su fino a diventare un sentiero obbligandoci, dove poi si abbandona l’auto. “Il nostro villaggio è tra quegli alberi là…”, ci indica Dario costringendomi a sgranare gli occhi per scovare qualche finestra spuntare tra le foglie. Ma niente, le mie viziate abitudini urbane non mi permettono ancora di vedere oltre le lussureggianti chiome arboree. E’ difficile per gente come me abituata al cemento, immaginarsi come dev’essere un villaggio sugli alberi. Il mio sforzo verrà presto ripagato e anticipato dal suono antico di una conchiglia che fa eco nella valle: “E’ il segnale che è mezzodì!”, mi spiega Dario mentre si sfila la cravatta e indossa un paio di scarponi, invitandomi  a seguirlo per  il piccolo sentiero che si spinge nel bosco.

COME IN UNA FIABA

Pochi metri più in alto, luci e ombre  mi restituiscono un istintivo ritmo primordiale: “E’ l’effetto del “Bosco Vecchio” di Dino Buzzati  –incalza Dario per niente stupito dalla mia reazione-, figuratevi se dopo  aver scoperto questo, abbiamo ancora voglia di tornarcene  nel caos delle città! Se potessimo, staremmo ancora più in alto dei sette metri d’altezza delle nostre case di oggi”. Ciò che in realtà mi si mostra dinnanzi è ciò che in parte ho sognato da bambino, con case sospese e collegate da passerelle aeree e fumaioli che riempiono l’aria di profumi resinose. In questo ambiente  sembra esserci più vita nell’aria che in terra:  “Ma non si creda che la nostra scelta – rimarca Dario-, sia un nostalgico ritorno al passato!”.

“Non abbiamo rinnegato affatto i confort moderni e la tecnologia, che qui invece cerchiamo di utilizzare al meglio e senza sprechi, ottimizzando i  consumi. Non siamo scappati dalla società: abbiamo solo scelto di migliorare noi stessi, modificando il nostro stile di vita attraverso un contatto più diretto con gli elementi”. Un pensiero quello di Dario che riassume appieno la filosofia di questi tredici “cittadini arborei”. Case sugli alberi come le loro, piccole o grandi,  si trovano sparse qua e là in tutta Europa: “Ma  nessuno prima era arrivato a costruire un nucleo abitativo completo come il nostro. Ora però saliamo…” mi intima una graziosa signora . Questo significa però cambiare il mio punto di vista.

GENITORI, COSTRUTTORI, INVENTORI E SOGNATORI

“Benvenuto!”.  Sette metri da terra, in una casetta ad un piano unico, con graziose pareti decorate da fregi lignei, frutto dell’abilità artigianale dei suoi costruttori, vive papà Dario con mamma Alessandra e la piccola Galatea, la reginetta del bosco. Pochi gradini bastano per osservare il mondo da un’angolazione nuova: “Da qui noi osserviamo il bosco come pochi hanno il privilegio di vedere– mi dice accogliendomi Alessandra, che nella vita fa la consulente ambientale-, diciamo che da qua guardiamo  gli alberi in faccia…”. “Lì, vive Angelo che fa l’orafo. Là invece, Alice e Giorgio, due infermieri che lavorano in un vicino ospedale”.

“In quella casa invece, c’è Carla che fa la farmacista e psicologa e Maria Pia con Salvatore che sono biologi. Ma c’è anche chi come Elisabeth e Ghisela è arrivato fin quassù dalla Germania, per vivere su un albero italiano…”.  Ognuno qui  si è costruito e si costruisce il proprio “nido” non senza fatica, come Elisabeth  che trovo  intenta a issare delle travi che andranno a comporre quella che sarà (ed oggi è) la più grande e spaziosa  casa dell’intero villaggio,  con ben tre piani, con annesso piccolo osservatorio  che spunta dalle chiome del bosco.

 

NATA SOTTO UN CAVOLO? NO, SU UN ALBERO!

La piccola Galatea che  oggi ha 5 anni è la  prima bambina nata e  cresciuta sulla cima di  un castagno. Essere nata sugli alberi è  un fatto che non può  non concorrere  all’educazione e crescita di una piccola bambina. Mamma Alessandra che nella vita oltre essere genitore è un consulente ambientale, da Carpanè nel bassanese (Vi) si è trasferita dieci anni fa nel bosco piemontese, con la volontà di dare  ritmi diversi alla sua vita. “Sono felice che mia figlia sia nata e stia crescendo nella maniera più naturale possibile…” spiega la mamma. Galatea è nata su un castagno il 31 dicembre 2005, con un parto il più naturale possibile. Un primato che difficilmente , immagino, verrà riportato nel suo documento d’identità.

L’altra sua  fortuna –spiega la mamma- è stata quella di avere come assistenti due nostri vicini di “pianta” che nella vita fanno l’infermiere e l’ostetrica”. “Se ve ne fosse stato di bisogno –assicura Alessandra-, sarebbe intervenuto anche un medico. Ma  quel giorno non servì e il primo vagito di questo bosco di castagni, fu proprio quello della piccola Galatea…”. “Un domani quando nostra figlia capirà la sua singolare nascita- sottolinea papà Dario-, siamo certi che lo farà con la stessa naturalezza con la quale stiamo cercando di farla crescere in questi anni…”.Oggi la piccola ha il suo piccolo regno nella confortevole casetta di legno, ma non disdice d’essere accompagnata lungo le pensiline che collegano le case, con il suo rito quotidiano che è la passeggiata nel bosco. “Non è come vivere in una caverna –dice la mamma-, Galatea crescerà come tutti gli altri bambini. Andrà a scuola, imparerà ad usare il computer; ma avrà, speriamo, quel qualcosa in più che molti altri suoi coetanei non hanno ricevuto  dal loro ambiente”. Per capire, basta guardare ciò che Galatea intravvede dalla finestra della sua cameretta non appena si sveglia: “Al mattino lei si risveglia col canto degli uccelli, sentendo lo stormire delle foglie e in certi casi il cullare del vento…”. Se non è fortuna questa!? Per ora, l’unica cosa diversa che i coniugi Baracco hanno dovuto fare, è l’aver messo delle reti di protezione lungo i camminamenti pensili: “Niente di più di quanto farebbero dei normali genitori che vivono in un condominio di città. I rischi sono calcolati, mentre i piaceri sono infiniti…”, assicurano i due genitori davanti allo sguardo curioso della piccola reginetta di questo bosco che sembra già volerli ringraziare.

COME SI COSTRUISCE UNA CASA SUGLI ALBERI?

Per costruirsi una casa come queste, per di più  agevole e sicura, –mi spiega Elisabeth-, servono cose essenziali come carrucole, corde, buone braccia e tanta volontà; il resto ci viene offerto dal bosco, con il legno e rocce, con la nostra aggiunta di un tocco di tecnologia utilizzando i materiali per coibentare dal freddo le pareti delle case”.

In realtà scopro poco dopo che progettare una casa così sugli alberi, è un vero e proprio lavoro d’ingegneria che si avvale dell’esperienza di costruttori di mezzo mondo uniti dalla medesima passione. “Non esistono professionisti tali da offrire competenze specifiche -mi spiega Dario-, per questo ci siamo avvalsi di più esperienze per poi cimentarsi nella nostra impresa”. Mi spiega come i  piloni di legno che creano una rete palafitticola affiancati agli alberi contribuiscono a dare stabilità e sicurezza alle case sospese: “Questo perché il peso delle case non può essere sostenuto da tronchi giovani che non superano la quarantina d’anni.

Qui da noi non esistono più alberi così maestosi, come quelli che possiamo vedere nei film, capaci di reggere pesi tanto consistenti. Per questo usiamo travi di otto metri, pesanti anche cinque quintali, poggiati su grossi massi per evitare la marcescenza del legno che vengono affiancati  ai castagni come tutori”. Il risultato è un perfetto equilibrio di forme: “Inutile dire che per noi il rispetto per l’ecosistema bosco, cioè il luogo dove viviamo, è di vitale importanza…”, replica Dario mentre mi offre del rum cubano che lui importa, che a  queste altezze ha un sapore ancora più incisivo . “Quando parto per un lavoro e resto lontano da qua, il mio desiderio è quello di farvi ritorno il prima possibile -spiega il manager- come se un’energia mi lasciasse andare e poi mi richiamasse a sé!”. “Le difficoltà però non mancano vivendo sugli alberi – mi racconta la giovane biologa Maria Pia-, è necessario un minimo di adattamento e spirito di sacrificio. Se piove o tira vento, si sta in casa. Così come se  c’è la neve o il ghiaccio. Ma in questi casi le difficoltà maggiori sono quelle di raggiungere il bosco con le macchine. E qui le peripezie non mancano… Anche salire le scale di legno o trasportare la spesa chiede un sacrificio in più che salire le scale di un condominio. Ma alla fine ci consoliamo, dicendoci che ne vale la pena! Eccome…”.

IL CANTO DEGLI ALBERI

“Per anni abbiamo cercato un posto che avesse  queste caratteristiche e dopo averlo trovato, oggi  sentiamo di averci messo le nostre radici”. “In fondo, – continua la biologa- basta organizzarsi e ogni sforzo viene mitigato. Le borse della spesa ad esempio, vengono issate con le carrucole, altrimenti c’è sempre qualcuno quassù pronto a darti una mano”. Anche il bosco da parte sua sembra aver accettato i suoi nuovi  inquilini: “Fino a due anni fa, la zona che ci circonda –mostra Maria Pia-, era impoverita dall’eccessivo sfruttamento forestale…”. “Ma rispettando l’ambiente, il numero delle specie vegetali, dagli alberi alle erbe spontanee, la natura ha ritrovato il suo equilibrio”. Le emozioni si susseguono e tutto appare una continua scoperta anche sul piano forestale: pure  mangiare a questa altezza, offre uno questo scenario da fare il verso ai migliori ristoranti panoramici del mondo. Per non parlare della notte, quando ci si sente cullare dal vento, col rumore delle castagne che cadono sul tetto a rompere l’incantesimo del silenzio.  Il ritmo si fa selvaggio e moderno al tempo stesso, in un equilibrio seduttivo che s’infrange non appena si è costretti a rimettere i piedi a terra, per partire. Percepisci un senso di nostalgia per ciò che stai abbandonando, conscio di uscire da un mondo fatto di cose semplici, dove il naturale più che un’idea, è una realtà che rende felici tredici persone e mezza (Galatea la piccola nata sui castagni), che dicono di sentire cantare gli alberi. E credetemi, non si fatica affatto credergli…

IL RITORNO …

Il racconto continua col mio ritorno tra il  popolo degli alberi, con nuove sorprese e costruzioni .

Il ritorno tra gli alberi è sempre  un’esperienza impagabile.  Ritrovare quegli amici, resta un piacere doppio: naturale  e  famigliare. Mancavo dal loro bosco da più di un anno, anche se la tecnologia mi  consente di contattarli a distanza. Ma la tecnologia appare qui lontana da certe autentiche  emozioni. Ritrovo così l’ormai consueto  rito , che resta anomalo per noi del mondo industrializzato: arrivare  con la macchina ai margini del bosco e qui fare il cambio di scarpe. L’autunno sembra essere passato in un batter baleno. Tutto è fitto, ma spoglio, compreso il cielo scevro di nubi. Salgo il sentiero con l’immancabile fiatone, la cui colpa dico sempre che è  delle borse che porto con me.

La fantasia che mi accompagna dopo aver vissuto qualche tempo quassù e aver respirato il “genius loci“del bosco. La curiosità  era poi stimolata dalla novità che mi sono state preannunciate. Sapevo che avrei visto la grande casa a tre piani da poco ultimata. Una specie di monumentale cattedrale realizzata con materiali naturali.

Mi era stato detto delle nuove passerelle come della “sala arborea ” per la musica delle piante. Entro nel bosco e ammiro frugando con lo sguardo. La  struttura a tre piani è lì che svetta tra gli albericome una torre e mi ripeto che se  ci fosse stato Robin Hood, questo abitava  di certo lì. Le passerelle hanno ormai formato una ragnatela nell’aria. Le voci amiche piene di saluti, echeggiano tra le case di legno. Eccoli i “folletti del bosco”.

Qualche volto nuovo e la piccola Galatea, nata e cresciuta tra gli alberi, si presenta cresciuta: ormai è un distinto cespuglio che mira a diventare albero. Il difficile però è distogliere lo sguardo dalle cose, prima che dai volti. E’ proprio al primo piano della nuova struttura abitativa che sarò ospitato. Una stanzetta di legno di quattro metri  con ampie vetrate che danno sul bosco, un computer  e un tepore sorprendente stando a sei metri d’altezza.

C’è pure un filo di musica a rendere ancora più confortevole l’ambiente. Sopra di me, c’è la stanza di altri due inquilini del bosco con tanto di bagno e doccia. Più in alto ancora, dove finisce una scaletta a chiocciola di legno, l’abitazione dell’amica tedesca. Basta poco per abituarti, e scendere a terra è un piccolo sforzo che se puoi, eviti. Il pomeriggio passa, ed è subito sera. La cena la si fa in un piccolo locale del paesello e il ritorno al bosco è un salto nel buio.

Solo qualche luce fioca illumina il villaggio arboreo. Il silenzio è rotto dalle foglie secche sotto i nostri piè, mentre lo sguardo si perde tra gli alberi che trattengono le stelle. “Un’ultima tisana scelta con cura per conciliare i sogni –mi assicura l’amica tedesca-, ci fa assaporare la chiacchierata notturna”. Si va a letto, ed ognuno prende la strada volante che porta alla sua casa.

La buonanotte è quasi un ammonimento: “Domattina potreste avere una sorpresa…” mi dissero con garbo. Certo che dormire sospesi tra gli alberi non è cosa di tutti i giorni. Anzi, l’emozione è quasi infantile, ma anche questo fa parte di questo  mondo al limite del surreale.

Il silenzio s’impossessa della stanza. Si spengono le luci e l’intero villaggio s’addormenta. Che giornata! Il risveglio fu uno di quelli che chiunque sogna: dalle stelle della notte ai fiocchi bianchi della neve della prima luce. Così, dischiudere gli occhi e trovarsi davanti ad un bosco imbiancato,rende quasi vera la favola.

E che favola…così non ti alzeresti più dal letto, nel tentativo di procrastinare nel tempo questo attimo. Il “buongiorno” arriva dalla finestra con le sembianze di una fata del bosco (foto sinistra). Dissipato l’incanto, intuisco che si tratta dell’amica tedesca. La colazione è sempre tra gli alberi, ma la realtà offre subito spunti per capire che vivere quassù, non è un sogno come si potrebbe credere. Forse, è il giusto pedaggio di chi vuol vivere in un bosco.  C’è  da ripulire i camminamenti dalla neve e nessuno sembra perdere tempo. L’organizzazione comunitaria è efficiente, e mentre c’è chi spala neve o taglia la legna, altri (in particolare una splendida cuoca di Torino) si dedica al pranzo. Arriva l’ora, e dal bosco spuntano come funghi gli invitati. Nella sala sospesa, circondati da vetri e alberi, siamo una quindicina, risate e buon appetito fanno il resto. Vino e lingue internazionali completano il quadro.

E’ l’ora di ripartire. Un’ultima passeggiata sui camminamenti per poi ridiscendere: prima dagli alberi, poi dal bosco, dalle colline e dal paese. E’ tutta una discesa verso il basso fin l’autostrada, e siamo già in un’altro mondo.

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         ALBUM ARBOREO