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LA BIBBIA DI PIETRA
Don Gianantonio Urbani, è l’unico vicentino e tra i pochi sub-archeologi italiani ad insegnare al “Biblicum” di Gerusalemme. Con lui abbiamo parlato delle ultime scoperte e restauri che stanno dando nuovo smalto ai luoghi biblici.
Viene difficile anche e solo pensarlo, che a Gerusalemme oggi vi sia tra gli ebrei ultraortodossi, chi inscena rituali identici a quelli che si svolgevano duemila anni fa, con la certezza di vedere presto l’edificazione dell’antico Tempio, distrutto dai romani. Si raccolgono fondi e progetti e c’è chi giura che sia tutto pronto per riportare la storia del popolo di Israele, dove si è fatta la storia. Una storia sempre più documentata grazie all’archeologia biblica, alla costante ricerca delle tracce di quel sacro divenuto segno. E i segni in Israele non mancano, a partire da Betlemme, terra del pane e nomadi popolazioni. Luogo sacro a cristiani e mussulmani, dove nella millenaria Basilica della Natività, si custodisce la grotta dove secondo la tradizione sarebbe nato Gesù. Un luogo caro alla memoria, i cui segni del trascorrere dei secoli sono stati continuamente ricoperti da altri segni. Lo stesso dicasi per il Santo Sepolcro, entrambi oggi oggetto di “storici” restauri, dopo decenni di discussioni e veti incrociati tra cristiani, giunti finalmente a un accordo che ha dato avvio agli agognati lavori. L’intervento conservativo nella Basilica della Natività, è curato da una azienda italiana che sta ridondando splendore ai mosaici della Basilica che custodisce la grotta della Natività. In realtà, tutto il territorio israeliano e palestinese continua a riservare sorprese archeologiche, frutto oggi più che mai di studi incrociati tra nazioni e le stesse religioni. Ne abbiamo parlato con uno dei pochi archeologi italiani, nonché unico vicentino, don Gianantonio Urbani, prete diocesano, che da nove anni è docente presso il prestigioso Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme, dove insegna archeologia biblica ed escursioni a Gerusalemme e dintorni.
Come ci si sente a essere l’unico prete-archeologo veneto, passato dalle colline di Marano a quelle della Giudea, come dalla parrocchia agli scavi biblici? «Dieci anni fa partecipai alle esequie del francescano Michele Piccirillo, figura miliare dell’archeologia biblica, e m’interrogai sulla necessità di conoscere meglio la Terra Santa e collaborando con i frati francescani storicamente presenti qui da otto secoli. Quel mio desidero qualche tempo dopo divenne realtà, partendo per Gerusalemme dove inizia l’avventura di studio presso lo Studium Biblicum Franciscanum. Una scelta avvallata da l’allora vescovo di Vicenza mons. Cesare Nosiglia, e successivamente dal successore Beniamino Pizziol. Abbracciai gli studi di padre Francesco Rossi De Gasperis e p.Jacques Fontaine per leggere la Bibbia sulla terra, nel contesto dove essa è venuta a formarsi».
La fede, in uno scavo scientifico può essere d’aiuto o d’intralcio? «La fede nasce dall’ascolto orante delle Scritture. A tante ore di studio e lavoro, vi sono in buona misura altrettanti momenti di preghiera e silenzio. La fede è personale ma è anche un dono da condividere. Se questo stile viene condiviso, allora diventa una marcia in più per partecipare ad uno scavo, con la forza e la passione che viene dalla scienza e dallo spirito. Uno scavo stratigrafico oggi richiede la competenza dei fini e mezzi, che richiede anche molta fatica, considerando il clima politico-religioso e ambientale in cui si opera. Virtù e qualità che ho incontrato in tanti colleghi e amici mi hanno formato e oggi mi aiutano a servire la chiesa e la comunità scientifica in questo modo».
Avere sotto gli occhi l’evidenza dei fatti o dei segni, che significato ha? «È una grande responsabilità che cerco di affrontare con il lavoro di squadra. Allo Studium Biblicum siamo consapevoli di vivere un’importante stagione sulle orme di chi ci ha preceduto ed ha aperto molte strade di studio sui luoghi santi dell’Antico e Nuovo Testamento. Al lavoro esegetico e filologico, si aggiunge il lavoro di studio dei luoghi e dei materiali. I fatti avvenuti, lo studio dei testi e l’analisi della cultura materiale sono un patrimonio straordinario per conoscere il contesto nel quale sono fiorite le Scritture. Mi sento poi fortunato ad avere la possibilità di insegnare le escursioni a Gerusalemme, una sorta di topografia della Città di Dio. Quindi misurazioni, forme di edifici, iscrizioni, diventano segni speciali da leggere per capire come sono vissuti coloro che ci hanno preceduto».
Data la sua conoscenza della lingua ebraica, torniamo sulla recente innovazione al Padre Nostro, con i nostri preti che predicano senza conoscere la lingua madre con cui fu scritto il Libro Sacro. Ci dobbiamo aspettare ulteriori novità in futuro? «Tutti i preti formatisi negli ultimi decenni hanno studiato nella misura di base per conoscere le scritture: l’ebraico, il greco e latino. Qualche traduzione a suo tempo è stata affrettata, così oggi si cerca di essere il più fedeli possibile al testo, senza però stravolgere consuetudini e tradizioni locali. Sul Pater Noster, si sapeva da tempo la forma un po’ particolare della traduzione se confrontata con i testi in lingua originale. Cosa buona, resta avere un buon commentario per chi legge le Scritture e una valida traduzione della Bibbia, accompagnata da note a piè di pagina».
Quattordici anni fa vidi per la prima volta la Basilica della Natività di Betlemme, oggi l’ho rivista splendere grazie al restauro di maestranze italiane. Come valuta questo intervento, e quali sono le nuove scoperte? «Il grandioso lavoro di restauro fatto in questi anni presso la Basilica della Natività, è un dono per l’umanità. Fu così anche ai suoi albori, e poi durante i vari interventi degli imperatori dopo Costantino il Grande. Un plauso va a tutto lo staff dei giovani e valenti restauratori della Piacenti Spa di Prato, cui sono affidati i restauri delle preziose superfici mosaicate. Allo splendore degli angeli musivi, alle trabeazioni di Giustiniano, alle colonne decorate e dipinte con le scritte e i ritratti degli stessi crociati, vi saranno ancora nuovi frutti. Da anni assistiamo a belle modalità di restituzioni, rispettando l’antico, senza forzare con elementi moderni il restauro. Ricordo quando lessi per la prima volta il rapporto di scavo di padre Bellarmino Bagatti sulla Basilica della Natività, da alcune sue espressioni si capiva quanto fosse ricco questo monumento, sotto le patine stesse lasciate dal tempo, come poi si è visto».
La medesima impressione di stupore si prova vedendo il “nuovo” Santo Sepolcro di Gerusalemme. Lei è stato tra i pochi studiosi a poter assistere ai lavori di restauro, potendo osservare ciò che vi era sotto le lastre marmoree. Ci racconta alcune sue emozioni e osservazioni? «Ho seguito in un paio di occasioni i lavori di restauro parlando più volte con la dott.ssa greca Moropoulou che ha diretto i delicati lavori sotto gli occhi del mondo. Si discusse tantissimo sulla modalità di esecuzione del restauro stesso, e mentre guardavo togliere i marmi di rivestimento per pulirli dai secoli, mi chiedevo se questa fosse la forma più adatta di conservazione. Non avevo le risposte, perché non sono un restauratore, ma sinceramente in cuor mio avrei agito come gli antichi. Avrei cioè mostrato di più l’autentica roccia santa del “banco” su cui venne appoggiato il corpo di Gesù, ripristinando le cancellate come era per la chiesa costantiniana dell’Anastasis. Da archeologo, quando entro nella Basilica chiudo gli occhi e m’immagino come fosse questo luogo alle origini: vedo molta roccia e tante pietre lavorate e riutilizzate. Il giardino, le tombe e lo sperone del Calvario, incluse le cisterne e la porta d’uscita dalla città. Da cristiano mi pare ancora di sentire l’eco della voce di Maria di Magdala che grida: “È risorto…!”».
Secondo Lei il futuro riserverà ancora delle significative scoperte archeologiche in Terra Santa? «Questo è tempo di grandi “restituzioni”, perché l’archeologia nelle terre bibliche è sempre stata sconfinata, grazie alle tante popolazioni che vi sono transitate. Generazioni di archeologi sono stati pionieri di questa enormità di scoperte, che continuerà ad offrirci in futuro altre sorprese».
Quanto è cambiata (se è cambiata) la sua vita in virtù di questa sua professione che esercita anche sott’acqua, visto il brevetto di archeologo sottomarino? «E’ cambiata nel senso che svolgo di più attività accademica e un po’meno quella pastorale. In terra vicentina sono stato con i ragazzi e gli educatori dell’ACR che non dimentico perché fu una stagione di grande gioia e dedizione. Oggi mi metto a disposizione affinché un maggior numero di persone possano scoprire la Terra Santa, con la sua archeologia e geografia che porta il segno del mistero di Dio. Ho accostato la passione subacquea all’archeologia delle acque qualche anno fa per capire le rotte antiche delle navi dall’Italia verso Oriente. Immergermi, raggiungendo l’assenza di gravità, è un’esperienza di silenzio e tranquillità come fosse una sorta di ritiro spirituale. Nell’apprendimento, ho avuto maestri importanti che mi hanno dimostrato come anticamente le rotte non avessero solo l’unico scopo di commerciare materiali. Ma anche di esportare, importare e scambiare conoscenze, idee, usi e costumi. Questi movimenti di persone permisero il diffondersi in Occidente della buona notizia di Gesù di Nazareth. Il Mediterraneo antico resta così un grande serbatoio di idee e scambi tra i popoli. Questo c’insegna l’archeologia moderna. Una lezione dalla storia, che faremmo bene non dimenticare».