EMMA, LA PELLEGRINA CON LE ALI AI PIEDI

   di Antonio Gregolin      copyright@2016 foto e testo riservati

 EMMA, LA PELLEGRINA CON LE ALI AI PIEDI

E’ considerata la “abuela” più longeva al mondo.

E non si ferma…

Copia di DSC_9015Una nonna che vola, o quasi. Una arzilla signorina che a novantaquattroi anni seguita a camminare in completa autonomia con uno spirito pellegrino di altri tempi. Un caso quasi unico al mondo, con numeri da guinnes dei primati e traguardi ancora da raggiungere con le sue instancabili scarpe. Quarantacinque chili appena di peso. Trentacinquemila chilometri già percorsi a  piedi, fanno di questa “avuela” (nonna in spagnolo) una figura di grande spiritualità, cultura e umorismo. Se proprio dovete definirmi -dice li-, potete dire che sono un pò tocca!”. Non riesce a ricordarseli tutti i cammini che ha compiuto in trent’anni, questo non perchè non sia lucida, anzi. Bensì, perchè sono davvero tanti i pellegrinaggi: ventisei pellegrinaggi tra nazionali e internazionali compiuti e ripetuti. Quasi tutti i santuari mariani in Italia. Poi Lourdes (Francia) dove ha iniziato e vorrebbe terminare.Ancora: Fatima (Portogallo), Monterey (Mexico), Loreto, Czestochowa (Polonia), Nevers (Francia), Aparecida (Brasile), la più recentemente Lujan (Argentina). L’ultimo in ordine di tempo a Guadalupe (Mexico) con 1000km di strada.”Ma se il cielo me lo consentirà -aggiunge precipitosamente lei-, mica mollo qua. Prima però devo chiedere lassù….poi vi dirò dove ancora andrò!”.

LA “CAMPIONA” DEL PAPA Ormai è talmente tanto conoscitua nel mondo, che lo stesso papa Francesco l’ha voluta incontrare più vole. “Mi chiama la mia  campiona” dice Emma. Ma questa per lei è diventata la sua “croce”. “Sono costretta a cercarmi posti sempre più lontani dove non mi riconoscono, mi seguono, mi fotografano, Io sono una pellegrina che non cerca per niente la celebrità. Così scappo! Non dai miei doveri, ma dalla massa che mi vuole come un caso raro. Si dimenticano che sono solo “el buro de dios”, ovvero l’asino di Dio”, come ama definirsi l’anziana pellegrina.   

UNA PELLEGRINA D’ALTRI TEMPI Una quindicina di libri-diario redatti durante i suoi viaggi, raccontano in maniera semplice, immediata e sanguigna le sue incredibili imprese-avventure che sono un mix di emozioni ed esperienze tra il ieri e di oggi. Mentre parla (e parla molto, senza mai perdere il filo Ndr), cresce la convinzione che qualcosa di veramente speciale alberga in lei. Si ha quasi l’impressione di ascoltare uno spaccato di medioevo vivente. “Sono una pellegrina vecchio stampo. Non cerco alberghi o ristoranti quando sono in cammino: mi piacciono tanto i campi di grano, i ponti e non disdegno i tombini, anche se qui incontro spesso formiche, topini e sanguisughe. Per il cibo, diciamo che ho tutto con me nel mio carrello: due chili di pane secco vecchio (pesa poco), qualche formaggino (le piacciono tanto i formaggi), e del latte in polvere.  E un solo cambio d’abito. Tutto qua, con questo carico posso arrivare in capo al mondo. Anzi, da ogni madonna!”.  Emma è di certo una privilegiata.

SALUTE DI FERRO E MENTE ATTENTA  E’ una donna decisamente fortunata per avere una salute di ferro. Frutto probabilmente di un’infanzia trascorsa tra gli stenti di una estrema povertà: “Si mangiava patate e pane impastato con paglia e farina era una cosa rara da mettere sotto i denti tutti i giorni”. Un trascorso poi come inserviente-infermiera presso un istituto di suore, poi a causa del pericolo della guerra un lavoro come “dama di compagnia” nelle nobili casate mantovane, fino a diventare negli ultimi decenni assistente volontaria degli infermi.  A novantanni, ancora prestava servizio: “E lo presterei ancora se ce ne fosse di bisogno” dice. Pellegrina invece, lo è diventata solo in tarda età. Superati i sessant’anni, tempo in cui i più respirano il sapore della pensione, Emma ha invece avuto una esplosione di vitalità, trasformandosi in una pellegrina per gratitudine.

13754408_601143250047640_296282678360673408_nUN PAESE. UN NOME. UNA STORIA Casa sua, è una minuscola casupola in collina che pare fatta su misura, dove l’essenziale rispecchia il carattere dell’anziana. Siamo nel suo paese natale, Castiglion delle Stiviere in provincia di Mantova. Nel pittoresco borgo dove abita, tutti sanno chi è e cosa fa, ma qualcuno fino a poco tempo fa, dubitava di lei e dei suoi viaggi. Oggi che la stampa internazionale  racconta le sue esperienze, il suo nome rischia di essere accostato al giovanissimo santo Luigi Gonzaga nato qui, come alla nascita della Croce Rossa che fu fondata qui due secoli fa nei campi di battaglia di Solferino e S.Martino della Battaglia. Se gli infissi di casa sua sono chiusi per più di quattro giorni, tutti  sanno che Emma è in cammino.. “Tornerà, tornerà -ripete il vicino- Emma l’è un oso dur” dicono in dialetto mantovano. “Ce la farà anche stavolta!” esclama chi conosce Emma, e sa che la risentirà solo dopo che è rientrata in Italia. “Negli ultimi anni  –racconta la pellegrina- mi preoccupo solo di acquistare il biglietto aereo di sola andata per arrivare nella nazione dove vado a camminare. Cosa vuole, alla mia età hai solo la fortuna di pensare di partire- Il tornare è dato solo alla  volontà del cielo e della sua Provvidenza del cielo”. Ma un “angelo in terra” Emma ce l’ha: è Antonio, l’amico volontario che da qualche anno da casa la segue e gli organizza la logistica, i percorsi, compresi i voli di rientro. Per il resto, di “connesso” Emma conserva solo il cellulare di prima generazione, con i tasti grossi. Niente computer o GPS satellitare. 

Copia (2) di DSC04850_620x413TUTTO REGALATO Niente sponsor o scarpe tecniche: “Ad un pellegrino è sufficiente la fede. Il resto ti arriva dal cielo” ammonisce lei. “Le scarpe spesso me le regala qualche amico, che sa come io compro sempre quelle che costano meno…”. Un viaggiare essenziale il suo, ma con una licenza: “Non posso più permettermi di portare lo zaino, come ho fatto fino a ottantanni. Per questo ho trasformato un carrellino della spesa in una portantina che mi permette di caricare una valigia fino a 10 kg di peso, trainandola come fossi una “somarella”. Ma a pesare di più, spesso è l’acqua indispensabile al cammino…”. Così vedendo lungo il ciglio di una strada questa nonnina col carrello e giubbetto catarifrangente, dietro cui incolla l’immagine della Madonna che va ad incontrare, sorge spontanea la domanda: “Ma chi glielo fa fare alla sua età?”. “Semplice -risponde lei- vado ad incontrare la nostra madre celeste”.

 A 60 ANNI INIZIO’ TUTTO  “Non sono mai stata una sportiva e prima dei sessant’anni non ho mai compiuto alcun pellegrinaggio a piedi, tanto più da sola. Copia di Emma-Morinsini-2_1Fino al 1988, quando una brutta peritonite mi portò ad un passo dalla morte. I medici erano pessimisti, io invece restavo fiduciosa, promettendo che se avessi superato l’operazione, sarei andata da Castiglione fino a Lourdes a piedi”. Un voto disperato: “Invece sono guarita e nel ’90 andai prima due volte in bici a Lourdes, poi nel 1994 a piedi e da sola lungo tutti i 1300 km. Ricordo che allora un prete, santo nello spirito, ma inesperto nei pellegrinaggi, mi rassicurò dicendomi: “Vai e dove troverai un campanile, fermati, bussa e ti sarà aperto! Finii spesso col dormire in mezzo ai campi, sotto le stelle e quasi mai nelle canoniche, perché vedendo una donna sola e spossata dal cammino, venivo confusa per una barbona o fattucchiera”.

“MI DANNO DELLA MATTA” Sarà forse questa sua disarmante semplicità a renderla pressoché immune dai pericoli strada, fatta eccezione per la caduta accidentale in Argentina dell’anno scorso. Passato qualche giorno e nonostante il visto ammaccato, Emma si riprese e ostinatamente tirò dritto fino alla meta.Copia di Copia di 4149_5 “In trent’anni di cammini –ricorda lei- una volta sola ho avuto paura. Fu durante il viaggio dalla Siria a Gerusalemme nel 1998, quando dopo essere stata derubata, schermita e presa a sassate, degli uomini chiedevano “altro” da una vecchia e scalcinata donna come me. Riuscii a fermare un carretto e farmi trasportare per qualche chilometro, fino a quando i conducenti pretesero che gli consegnassi i pochi spiccioli rimasti. Altrimenti…” . “Il Signore però ha voluto diversamente, mostrandomi in lontananza un distributore di benzina. A quel punto ebbi la prontezza di dirgli  che là c’era qualcuno ad attendermi! Nel dubbio e per mia fortuna, mi lasciarono andare incolume…”.

ONE THE ROAD “Non trovo però differenze tra le strade del mondo e quelle dello spirito. La strada è unica, l’umanità è in cammino.52723b1c878tdpimax- Ciò che fa la differenza è “il sentici nel mondo o del mondo” come scrive il Vangelo”.”Credo di avere una naturale predisposizione verso gli altri. Frutto di quella educazione alla solidarietà che ai miei tempi significava sopravvivenza”. “Per più di trent’anni ho assistito gli infermi e malati terminali, senza mai chiedere un compenso fisso, ricevendo solo offerte, che spesso andavano oltre le mie necessità. Tra le mie certezze, vi è quella che la felicità sia amare”.“Ecco perché dico si essermi innamorata del cammino. Una sorta di vocazione che fatico a spiegare. Qualcuno dirà che sono una “pazza”, andarmene tutta sola per il mondo a  novant’anni suonati. Un prete arrivò a dirmi: “Ma chi te lo fa fare? Non è mica il Padreterno a chiedertelo!”. Risposi che era vero, ma avrebbe saputo lui rinunciare alla sua vocazione se gliel’avessero chiesto?”. “Un pellegrinaggio non è una vacanza. Molti dei pellegrini che incontro oggi per strada, si mostrano fiacchi e non sempre con lo spirito giusto”.

ORMAI E’ UNA STAR DEL CAMMINO Anche volendo evitare le tentazioni della modernità e popolarità, accade che questa ti si incolli addosso, al punto da trasformarti in un caso nazionale.images (1) E’ accaduto ad Emma nel 2015 durante il pellegrinaggio in Argentina, quando percorrendo i 1400 km che l’avrebbero portavano al santuario della Vergine di Lujàn (dove è tornata anche in questi mesi Ndr) , venne paragonata a Forrest Gump, l’omonimo personaggio del  film che aveva deciso di correre da solo per l’America, con  la gente che lo seguiva nel suo viaggio. “Successe pure a me, dopo che televisione e giornali argentini si interessarono del mio cammino, senza però che io parlassi con un solo giornalista. La mia solitudine diventò presto un corteo di migliaia di mille persone che mi seguivano. Ci furono problemi di viabilità, e tutto questo trasformò il mio pellegrinaggio, nel pellegrinaggio di migliaia di persone. C’era chi pensava che fossi una santa. Venivano a toccarmi e a chiedermi i vestiti. Mi ponevano al collo decine e decine di rosari al punto che non ce la facevo più e dovetti chiedere l’intervento la polizia che mi offrì una scorta.

“SONO IL NIPOTE DEL PAPA”   Durante il cammino, si avvicinò uno dicendomi di essere il nipote di papa Francesco.Copia di emma_2 Lì per lì non capii bene. Il giorno seguente tornò insistendo che  “Francesco voleva incontrarmi”. Lo ignorai ancora pensando ad uno scherzo. Fu un vescovo poi a presentarmi  ufficialmente quel giovane, dicendo che al mio rientro in Italia il papa mi avrebbe ricevuto. Diffusasi la notizia la gente iniziò così a consegnarmi centinaia di lettere da consegnare al pontefice”. L’incontro con Francesco è avvenuto un anno fa in Piazza San Pietro: “Mi emoziono ancora – conclude Emma-, ricordando le sue parole. “Vai avanti Emma, vai per la tua strada…” mi disse il papa. 

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“In quell’occasione gli consegnai un pacco di lettere da cinque chili, raccolte nella mia peregrinación argentina. Vedendo le lettere, mi rispose: “E’ proprio il caso che allora io vada a trovarli!”. Una benedizione che Emma ha trasformato in testamento: “Per questo non mi fermerò e camminerò per il mondo finché il cielo me lo permetterà”.          

GIULIETTA E ROMEO… DEI CAMPI

Di Antonio Gregolin – testo e foto riproduzione vietata copyright 2011-                                

GIULIETTA E ROMEO DEI CAMPI 

L’esperienza di un ragazzo siciliano e una giovane padovana che a ventuno anni, da operai decidono di diventare –contro tutto e tutti-  coltivatori biologici. Un esempio per i tempi della crisi.

Ad intrecciare questa storia d’amore, ci sono due giovani con la medesima età. Una passione condivisa, ma soprattutto oggi, l’attaccamento alla terra, tale da poter essere definiti come “Giulietta e Romeo dei campi”. Una doppia storia d’amore nata da un capo all’altro dell’Italia, che oltre ad unire le loro anime, sanciscono il loro legame sul campo lavorativo a stretto contatto con la terra. Hanno così reinventato il loro futuro di coppia. E dire che entrambi vantavano un posto assicurato dentro un capannone tra le industrie del profondo Nord, quando decidono di licenziarsi per inseguire un sogno: diventare agricoltori biologici.

Lui, Davide Russo è un ventisettenne siculo di Mirto nel profondo Messinese, cresciuto tra cielo, mare e terra, circondato da ulivi e agrumi nella masseria del padre “Pippo”. Lei, Mara Zulato, ventisette anni di Baone nella Bassa Padovana, ha fatto la spola fin da ragazzina tra il Nord e il Sud, dove andava in vacanza da parenti nello paesello di quello che sarebbe diventato il suo compagno di vita. Per anni la loro fu un’amicizia scandita dai tempi della scuola e dell’estate vacanziera in Sicilia. Poi la scintilla che diventerà amore giovanile, nonostante gli oltre mille chilometri che li separavano. Davide è cresciuto con i valori contadini del buon cibo, della vita all’aria aperta e la coltura dei campi. Mara invece, ha sempre respirato l’aria del Nordest produttivo e imprenditoriale. Ragazzi diversi ma semplici, entrambi con un diploma di pasticceri, ma con prospettive diverse da quello per cui avevano fin lì studiato. Il loro amore diventato ormai stabile, impose raggiunti i diciotto anni delle scelte drastiche, con Davide che nel 2008 decide di lasciare la Sicilia per trasferirsi laddove vive la sua “Giulietta”. “Una scelta sofferte –racconta Davide-, al punto che il giorno in cui lasciai casa mia, andai a salutare gli alberi e gli animali  del posto…”.

A Baone ad aspettarlo c’era Mara, come un mondo totalmente diverso da quello che aveva lasciato in Sicilia. Alle pendici del Parco Regionale dei Colli Euganei (Pd), chi oggi lavora la terra sono solo i vecchi. I giovani studiano e trovano impiego in ufficio o nei  capannoni industriali. L’agricoltura dunque è cosa per pochi, con l’industria che ha fagocitato campi e tradizioni e faceva sentire il giovane siciliano, arrivare da un altro mondo.  “C’è una nuova vita da rifarsi..” pensava Davide che accetta di lavorare come magazziniere e poi operaio in un’azienda locale: “Intravvedevo i campi solo nel breve tragitto da casa ai capannoni -racconta Davide-, e ogni volta qualcosa mi turbava dentro…”. Nel frattempo, viene assunto a tempo indeterminato, così che  il futuro per lui sembra assicurato. Per due anni Davide dimentica la terra e vive tra scaffali e pareti di cemento. I suoceri veneti, erano soddisfatti: “Ti abituerai…” gli ripetevano. Mentre il padre Giuseppe dalla Sicilia, percepiva  che  qualcosa nel ragazzo non andava

Il miraggio del Nord visto dal Sud sembrava essersi coronato con il posto in fabbrica, ma l’altro suo grande amore, quello per la terra, l’avrebbe presto indotto a compiere “la pazzia più gioiosa e faticosa della sua vita” come oggi la definisce Davide. “Ogni giorno mentre mi trovavo in fabbrica, mi ripetevo: tornerò alla terra. Ma non sapevo come e quando ciò sarebbe accaduto e mi dicevo che il tutto sarebbe rimasto un sogno!”. Così non fu, e prese presto quella decisione che lo portava contro tutto e tutti. Un giorno del 2010 la svolta. Prende in affitto alcuni ettari di terra da un contadino locale, e di lì a poco si licenzia per diventare a tutti gli effetti l’agricoltore che si sentiva dentro. “Affittai con qualche risparmio, quattro ettari di terra agricola nel territorio di Baone, cominciando a coltivare le mie idee e la mia passione”. Non gli bastava  essere un agricoltore tradizionale, in testa aveva un progetto più radicale: “Volevo dare agli altri ciò che la terra mi aveva dato, convinto che produrre cibo genuino, sia un modo per amare noi  come pure gli altri”. Mara con qualche perplessità, vede Davide determinato. Pensa inizialmente ad una sbandata giovanile, ma il ragazzo in pochi mesi e con l’esperienza di uomo cresciuto in campagna, diventa a tutti gli effetti un lavoratore dei campi del Nord. “Conoscevo la sua ostinazione e lo spirito di sacrificio di cui era capace –racconta Mara-, così lo lasciai fare, convinta che nessuno l’avrebbe fermato…”. Invece di trovare incoraggiamento, trovò subito chi lo ammoniva sull’errore che stava compiendo: “I primi a sconsigliarmi di coltivare ortaggi in quella terra, furono gli stessi agricoltori locali, avvezzi ai soliti metodi di coltura tradizionale. Figuriamoci dover spiegare loro che volevo mettere in pratica l’agricoltura biologica, la loro espressione facciale valeva più di ogni loro considerazione verbale”. In paese tutti lo vedevano come un sognatore ad un passo dal fallimento: “Qui –mi ripetevano- non se magna coi campi…!” Ma Davide non molla e oggi può sostenere d’aver dato la sua risposta. Trascorsi i primi anni e consolidata l’attività agricola,  il suo nuovo passo è stato l’acquisto di quattro ettari di terra e qualche altro campo preso in affitto. Oggi ha aperto un punto di distribuzione a Baone con il nome di “Orto del Sole” (www.ortodelsolebio.it), dove vende il raccolto dei suoi campi: pomodori, patate, peperoni, zucchine, meloni, angurie e perfino l’antico grano “monococco” con cui si sfamavano le legioni romane. Ma anche verdura e frutta ormai dimenticata, all’insegna della biodiversità che Davide vuole rispettare e fare riscoprire. “Mi sono fatto arrivare sementi antiche dalla Sicilia, varietà di verdure da varie parti d’Italia e ho piantato un frutteto di frutti antichi. Tutto rigorosamente di stagione, coltivato coi crismi della più rigida naturalità”. Dall’azienda al banco di verdura nei mercati biologici è stato breve, tanto che due volte alla settimana loro raggiungono le piazze di Padova e provincia per commercializzare la sua frutta e verdura.

Nel frattempo, la giovane fidanzata Mara, contagiata dalla passione del suo “Romeo”,  ne calca l’esempio pensando ad un possibile sbocco futuro insieme nei campi. I due diventano una coppia anche sul piano lavorativo. Le difficoltà degli inizi non mancano. I guadagni sono pochi e le fatiche tante: “Nella bella stagione – ricorda Davide- arriviamo nei campi alle cinque del mattino, per finire alle nove di sera. Le vacanze possiamo concedercele solo a dicembre e per due settimane, quando faccio ritorno in Sicilia. La raccolta della verdura non da tregua, basta guardare le sue mani”. “Oggi i campi che coltiviamo sono diventati nostri, e nella stagione dei raccolti possiamo anche assumere qualche giovane bracciante agricolo. Sempre più giovani disoccupati in questi anni vengono  a chiederci di raccogliere verdura, ma dopo essersi  accorti di quanto duro sia il lavoro nei campi, mollano tutto e se ne vanno…”.

CAM00126“La mia vita è radicalmente cambiata -aggiunge il giovane agricoltore-, e l’essere passato dal cemento ai campi è una rivoluzione che mi ha profondamente trasformato.  Oggi stagioni e luce sono i nostri indefessi datori di lavoro. In estate, prima arrivano i pomodori, i meloni, le angurie, le zucchine e la “pastinaca” (la carota bianca), e una infinita gamma di varietà orticole che sembrano scomparsi dai mercati. La biodiversità è una ricchezza di sapori e gusti, sempre più sconosciuti al nostro palato. I clienti ci chiedono tutto su misura. Le regole del mercato dettano legge e modificano i comportamenti”. Una tendenza cui Davide si oppone: “Cerco di proporre sempre ai nostri clienti varietà orticole che spesso neppure conoscono. Verdura colorate che arriva dal sud Italia o frutti da incroci selvatici. Oggi, più che i gusti, bisogna coltivare ed educare gli acquirenti!”. “Per noi –gli fa eco la compagna Mara-, tutto dipende dal tempo che fa, e  ritmi delle nostre giornate vanno ben oltre l’orario di fabbrica cui eravamo avvezzi. La nostalgia per il posto fisso ogni tanto riaffiora, ma  poi guardo lui e vedo il suo rapporto con la terra, e tutto mi passa…” .

1La vocazione per la coltivazione biologica (prima era stata anche biodinamica), per Davide  “non è una moda, ma uno stile di vita e sta tutto nella radicata conoscenza della terra” applicata alle moderne conoscenze di coltivazione. Per questo si limita al massimo nell’utilizzo di mezzi meccanici. L’unico sostegno, ce l’ha da un vecchio trattore che usa per dissodare i campi. Qui anche il frigo nell’azienda è “naturale”: “Conserviamo patate, zucche e meloni ecc. direttamente sotto la paglia come facevano i miei nonni. IMG-20151013-WA0020E funziona, credetemi!”. Eppure, Davide non ha rinunciato alla spensieratezza di una macchina sportiva e il palmare: “Chi l’ha detto che uno che produce naturale deve essere fuori dal mondo?”. Se poi gli chiedete il perché della sua perfetta abbronzatura, sorride e indica i campi. “Altro che la spiaggia!” risponde. Alla fine viene spontaneo se dopo tutto questa è la vera felicità? “Non so se sia felicità piena! Ma so per certo quanto sarei infelice senza i miei campi e questo lavoro…”, risponde il giovane con una saggezza naturale, che si avvale del sorriso della sua compagna, intenta a spostare casse di pomodoro, coltivati come “la terra comanda“. Un amore quello di questa “Giulietta e Romeo” che vogliono far cresce e matura proprio nei campi che coltivano.

IL GIALLO DELLA ROTONDA

 di Antonio Gregolin testo e foto coperte da Copyright 2014 riproduzione vietata 

IL “GIALLO” DEL PALLADIO

 C’è un “giallo storico” che in questi mesi assedia la più celebre villa del mondo:  la Rotonda di Vicenza, simbolo dell’architettura palladiana dal 1600 ad oggi.  03_20_bso_f1_492_1_resize597_334E’ il biondeggiare dell’antico grano monococco (Tritticum monococcum), autentico retaggio dell’agricoltura preistorica, tornato nei campi che circondano la monumentale villa del Palladio. Un fatto che potrebbe non balzare subito agli occhi di chi viene per ammirarne geometrie e armonie architettoniche. Un giallo, decisamente meno appariscente deicampi di colza gialla dell’anno scorso che aprì una gara fotografica pervicentini e turisti. Se il grano monococco non compete quindi  in bellezza estetica, ha il pregio di essere “storico” e naturale visto che non richiedere nitrati chimici per la sua coltivazione, offrendo qualità organolettiche tutte da riscoprire. Parliamo del cereale di cui l’uomo si èimages (3) nutrito per migliaia di anni. Una granaglia “addomesticata” nella mezzaluna fertile tra la Turchia e l’Egitto seimila anni fa, e soppiantato poi dalla selezione genetica di sementi ad alta produttività che hanno portato alle farine di oggi. “Il ritorno del monococco ai piè della Rotonda è comunque un fatto storico e un valore aggiunto all’immagine del luogo” precisa Niccolò Valmarana, erede della storica dinastia che qui abita da secoli, e oggi gestisce il fondo agricolo in conversione biologica.

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Niccolò Valmarana

“Una volontà e nello stesso tempo una necessità – precisa Valmarana-, per dare una risposta alle tante problematiche del mondo agricolo tradizionale, sempre più in sofferenza e difficoltà!”. Parliamo quindi dello stesso frumento che vedeva di cui si nutriva il Palladio? Lo chiediamo a Federico Pagliarin, 60 anni, agricoltore del Basso Vicentino, che una decina di ettari di coltivazione di monococco è uno strenuo sostenitore del ritorno della coltura di questo cereale che ha rischiato l’estinzione, e grazie a lui sta tornando a maturare nuovamente nei campi vicentini: “Era proprio questo grano antico assieme al farro che veniva coltivato ai piè della Rotonda – afferma lui-, di cui si sarà certamente nutrito anche il Palladio, nonostante lui frequentasse le cucine dell’alta borghesia veneta”. Così il paesaggio che è fusione di geometrie naturali e architettoniche, ieri come oggi, con il verde degli alberi e il giallo del grano su cui domina la villa, sta riprendendo le sembianze originali della villa di campagna di allora: “Vorrei che i quindici ettari con tredici di coltivazioni

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Federico Pagliarin

tradizionali della villa, tornassero alla coltura di un tempo –spiega Valmarana-, con i grani antichi e una agricoltura sostenibile e biologica che entrerà a regime già dal prossimo anno”, quando l’intera proprietà agricola porterà il suo nome. “Per quest’anno abbiamo seminato sei ettari di monococco e altri sei di orzo, ma dall’anno venturo l’azienda completerà la sua riconversione al “io” con l’introduzioni di semi e insetti. Non ultime le arnie di api, oggi visibili alla base della villa, come doveva essere un tempo quando la villa era una “industria” agricola-alimentare, oltre che la dimora dei miei avi”. Idee chiare con un pizzico di sensibilità che chiede di coniugarsi con le esigenze economiche di gestione, quella del Valmarana: “I vecchi grani pur offrendo minori rendite, riequilibrano le perdite con la totale assenza di interventi chimici e quindi un risparmio sulla coltivazione”. “Ciò significa maggior qualità e minor impatto sull’ambiente. images (2)Il tutto come valore aggiunto al contenitore villa che, dovutamente presentato, spero possa essere apprezzato dal turista come dai vicentini stessi”. Una Rotonda “più naturale” che tenta di ripristinare un dialogo  quasi impossibile con la storia e il territorio di questi ultimi decenni, frutto di scellerate scelte urbanistiche che farebbero inorridire lo stesso Andrea della Gondola (alias Palladio). “Binomio questo –aggiunge schietto Valmarana- che si mostra oggi come un trauma degli ultimi anni. Basti guardare al vicino Tribunale nuovo, autentico un pugno nello stomaco,considerato da Legambiente come uno dei dieci esempi in Italia di bruttezza e pericolo idrogeologico, che non ha nulla di armonico e non rende onore a quella Vicenza, capitale mondiale dell’architettura. Qual’era!”.images (1) “Più che una rivoluzione –aggiunge Pagliarin, che ha fornito il seminativo certificato- è una evoluzione agricola e ciò che sta avvenendo nell’azienda La Rotonda è sicuramente uno stimolo, come pure una vetrina importante per produttori e consumatori”. Un ritorno al passato che Pagliarin difende coi denti e tanta convinzione: “Ai dieci produttori del Basso Vicentino che Pagliarin ha “convertito” in Confraternita del Monococco e una prossima cooperativa per la commercializzazione del prodotto, lui spiega da buon missionario dell’agricoltura sostenibile: “Se nel piatto arriva la qualità con minori costi da parte del produttore, significa un risparmio per tutti. E intendo tutti, partendo proprio dalla ritrovata volontàdegli agricoltori che nel passato possono trovare speranze per il loro futuro”. Per i due ormai la strada è segnata, basta quindi “seminare la storia”. Una storia che ritorna alle sue origini, dove villa e paesaggio erano fonte della stessa meraviglia.

“E’ IL GRANO DEI SOLDATI ROMANI”

“Nutriva le legioni romane, i nostri nonni e credo che tornerà a nutrire noialtri stessi”. Ne è convinto Federico Pagliarin, agricoltore del Basso Vicentino che da un decennio ha riconvertito la sua azienda a coltura di grano monococco. “Parliamo di un grano preistorico – spiega lui con la spiga in mano- che ha un solo seme “vestito” con una colorazione più scura del grano commerciale di oggi, ma un valore nutrizionale straordinario, con antiossidanti e poco glutine”.  Parla quindi dei tanti pro e dei pochi contro che si hanno nel coltivare questo frumento: “Era il cibo degli antichi – aggiunge l’agricoltore-, che ha conosciuto anche nel nostro territorio una vasta diffusione fino alla fine della schiavitù all’epoca dei romani, impiegata per nella pulitura del chicco, per poi essere gradualmente soppiantato dalla genetica dei grani dicocco che sono quelli delle farine attuali”. Per il contadino di Lovertino la storia antica nella sua azienda è di casa, visto che è stata recentemente scoperta una villa romana nei suoi campi: “Credo che gli abitanti allora, mangiassero lo stesso frumento che io coltivo oggi, convintoche la sua minor capacità di produzione, possa essere ripagata dall’inesistente impiego di fosfati nei campi. Quindi consistenti risparmi per gli agricoltori. Se poi aggiungiamo i cambiamenti climatici in corso, viene spontaneo pensare che il monococco sia il futuro di molte aziende”. Ma Pagliarin oltre che promuovere il grano, è un pioniere dei gusti, tanto da farsi promotore di alcune idee rivoluzionare, come quella di fornire porzioni monouso per l’esercito americano. Più concreto è invece l’impiego nei forni artigianali dell’Alto Vicentino: “Fornisco sementi che trasformate in farine, servono per prodotti di panificazioni e dolciari, come il “Parpagnacco”,l’antico biscotto dei dogi. Per il monococco quindi si tratterebbe di una rinascenza alimentare, agricola e culturale.

 

 

 

 


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