SREBRENICA: VENT’ANNI DOPO

di Antonio Gregolin tutti i diritti riservati di testo e foto @2013

SREBRENICA E IL TEMPO DELLA MEMORIA

11 luglio 1995 – 11 luglio 2015. Venti anni dopo le foto che non ho mai mostrato.

imagesVenti anni. Venti mesi. Venti giorni. Venti minuti. Venti secondi. Tutto relativo dinnanzi all’orrore. Il tempo non mitiga e difficilmente cancella quello che lascia nelle coscienze di chi l’orrore l’ha visto ed è soppravissuto. Così se oggi in Bosnia chiedi di come fu la guerra di un ventennio fa, la risposta unica di molti, sintesi di questo massacro, sono le medesime lacrime di allora che rigano i volti dei testimoni di oggi. Piangono le vedove, le madri, le nonne di Srebrenica  (nord-est della Bosnia). 001_panoramaPiange anche chi da quella guerra ne è uscito sconfitto (che si tratti di serbi, bosnacchi o cattolici). Sconfitto non sulla carta, ma nella coscienza. Sì, perché a vent’anni di distanza dal massacro più efferato dalla Seconda Guerra, quello di Srebrenica  è solo una tappa, sanguinaria e strategica, della lunga tragedia genocida in Bosnia dal 1992 al 1995.

media_xl_857100Un nome che fino alla notte tra il 10 e 11 luglio 1995 era relegato ad una cittadina sperduta ne cuore dei Balcani, presidiata come enclave dai caschi blu dell’ONU olandesi che ne garantivano la sicurezza alla popolazione mussulmana, circondata dai serbi. In una manciata di ore destinate ad entrare nell’eternità, Srebrenica è diventata una città martire e simbolo nel contempo. Secondo le istituzioni ufficiali dopo i rastrellamenti e le separazioni tra uomini e donne da parte delle milizie serbe comandate dal generale Mladic (oggi incriminato di Genocidio all’Aia), che si farà riprendere dalle telecamere mentre accarezza i bambini e fa regali ai  colonnelli olandesi per le proprie mogli, dopo questi convenevoli di facciata, darà iniziò allo sterminio.

srebrenica-massacreI morti furono oltre 8.372 (stima approssimative), quasi tutti sepolti in fosse comuni, sebbene alcune associazioni per gli scomparsi e le famiglie delle vittime affermino che furono oltre 10.000. Diecimila morti in una notte e due giorni. Il tutto sotto gli occhi di una Europa, ancora una volta indifferente e assente. La stessa che oggi chiede l’annessione della Bosnia alla UE: madre-matrigna. E dire che un anno prima (1994) negli stessi giorni si chiudeva in Ruanda un altro efferato sterminio fratricida da un milione di morti.sreb-massengrab-DW-Politik-Srebrenica Ma la storia poco insegna agli uomini e  tanto meno ai politici. Così alle porte di casa nostra, ci siamo (e si sono) presi la comodità di guardare dalla finestra le tre etnie scannarsi: cattolici, mussulmani e ortodossi. Ma qui forse la religione conta poco, se confrontata con le responsabilità di chi a distanza ha lasciato che tutto ciò avvenisse. Da ieri a oggi, il simbolismo ha preso il sopravvento trasformando Srebrenica in una città “icona” più ancora di Sarajevo, Gorazsde o Mostar. E’ stata trasformata nella “capitale” dell’orrore in cui si riconoscono  i superstiti mussulmani “bosnacchi”. Un simbolo da sbandierare. Un’arma da utilizzare. Un ricordo da sfruttare.bosnia-460 La guerra del dopo è anche questa, che rischia di cancellare a sua volta altre stragi che non hanno avuto la medesima visibilità. Così accade che se oggi arrivi a Sarajevo, trovi un modestissimo e fatiscente museo statale (di una Nazione divisa in tre e senza unità) dedicato alla guerra civile, ubicato lungo il viale dei cecchini senza neppure un cartello che lo indichi; mentre in centro a pochi passi dalla cattedrale cattolica, grandi scritte invitano a visitare la mostra fotografica dal titolo “Srebrenica”. Lo stesso nome che puoi trovare graffittato su molti muri della capitale bosniaca. Memento, sicuramente. Ma più ancora oggetto-simbolo di quanti la guerra l’hanno ereditata: dentro e fuori.

11 LUGLIO – 11SETTEMBRE

bosnia-srebrenica-mass-grave-2011-5-26-13-51-40Tanti sono gli anni trascorsi. E tanti sono i morti che Srebrenica registra nei suoi archivi e oggi accoglie nei suoi cimiteri (oltre 6mila sepolture e 150 nuove solo quest’anno). Con una data altrettanto simbolica “11” che ci riporta ad un altra tragica e fatidica data “New York  11 settembre del 2001”. Con un parallelismo che mi porta alla personale esperienza vissuta in ambo le parti e in tempi diversi. Con ricordi che intrecciano fatti, nomi e morti.

4Nei giorni di luglio del 2001 mi trovavo giusto a ridosso del giorno della memoria di Srebenica a Tuzla, dove avevo ricevuto il permesso dall’ufficio “missing” a  visitare “House of death “  come veniva chiamato il capannone bianco alla periferia della città, dove si custodivano seimila corpi da identificare, tutti rinvenuti in fosse comuni. Due anni prima avevo visto le voragini sui costoni balcanici, dove gli anatomopatologi europei e americani cercavano resti di corpi umani. Qualche mese dopo ritrovai gli stessi specialisti a New York richiamati in patria per l’analisi dei corpi. Strano destino. Identica sorte. Oggi quel processo d’identificazione per ridare un nome ai corpi e una tomba su cui piangere i morti di Bosnia, continua grazie ad un processo lento e scientifico che ha già permesso di identificare migliaia di vittime, oltre settemila. I 170 corpi identificati quest’anno sepolti nel giorno stesso dell’anniversario. Mentre dei carnefici di allora continuano a vivere da uomini liberi, spalleggiati da stati protettori oltre che da quella storia di cui si fanno scudo.

L’INFERNO BIANCO CHE NON PUOI DIMENTICARE

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E’ difficile lasciar pensare cosa significhi trovarsi solo, dentro una struttura bianca  dove l’unico rumore è quello dei condizionatori in funzione che devono conservare ciò che sta dentro le migliaia di sacchi bianchi accatastati come in un moderno magazzino merci. Solo che qui si conservano oltre seimila corpi (oggi solo qualche centinaio), in attesa di un nome e un numero. La chiamano la “casa della morte” il capannone-obitorio bianco che visitai a metà di luglio del 2001. Prima di oggi ho raccontato e mostrato queste foto, solo una volta nelle pagine di Avvenire,  perché parlare dell’inferno se non sei Dante, ti riesce difficile.

Ricordo che il sole cocente della Bosnia di quei giorni, segnava il prima e il dopo. Dentro il freddo dell’aria condizionata con le poche luci del capannone a rendere spettrale il luogo. Un mondo di mezzo. 1Ad accogliermi per spiegarmi quello che per lui era più di un mestiere, c’era allora Zatlan Sabanovic, 25 anni, studente di economia, mussulmano, che da tre anni era diventato il “Caronte” capace di trasportare la memoria da una sponda all’altra della storia. Ha ilvolto giovane, ma segnato dalla storia: “All’inferno in fondo, ti ci puoi anche abituare!” mi disse lasciandomi di stucco. “Basta avere la convinzione che ciò che stai facendo serve a non far dimenticare la storie con i suoi morti. Puoi aiutare il mondo anche così: non salverai vite umane, ma in qualche maniera capisci che puoi donare pace alle famiglie che soffrono per qualcuno che è scomparso. E tu glielo restituisci…”. Parla involontariamente come uno sciamano il giovane Zatlan, e lo fa mostrandomi il suo lavoro quotidiano: aprire sacchi bianchi, cercando tra un ammasso di carne sporca e decomposta oggetti (scarpe, documenti, orologi, ecc) che vengono poi lavati e fotografati, prima di venire impaginati in un libro che qui chiamano “il libro nero dei morti”. Qualcuno si occuperà delle analisi per il DNA. Altri della pulizia degli oggetti e altri di computerizzare i dati: “Quando vengono qui i famigliari delle vittime, non gli mostriamo ciò che sta dietro quella porta (il magazzino dei corpi).

3Gli consegniamo il libro che viene aggiornato settimanalmente, lasciandogli sfogliare le pagine per cercare qualche oggetto famigliare. Se lo identificano, chiediamo a loro un prelievo di sangue per compararlo con quello che abbiamo nel nostro data base. A quel punto se tutto collima, il numero d’identificazionecorrisponde ad uno delle migliaia di sacchi che abbiamo qui dentro”. Disperso non significa dimenticato” leggo suuna delle pareti asettiche del laboratorio. Il resto è pietà famigliare. 

2“Si accomodi. Prego…” mi dice Zatlan, invitandomi ad entrare nel magazzino-obitorio. L’odore è di quelli che non puoi confrontare: “Dal ’99 abbiamo questi condizionatori –aggiunge il giovane-, prima i corpi venivano conservati dentro le miniere di sale per cui Tuzla è famosa nella storia. Oggi è facile lavorare così…”.  Lui sa che dovrò raccontare tutto questo, e forse per questo preferisce non parlare più e lasciarmi solo tra gli scaffali. Solo, in compagnia di seimila cadaveri. 1Solo, con la storia.

Solo, tra chi chiede le tue parole per  non essere dimenticato. In quest’inferno, capisci la vita. Tocchi il fondo.  E sei l’unico vivo tra migliaia di morti. Ti muovi con difficoltà e la timidezza di chi sa che la morte non risponde. Sai, che quel passaggio temporale è un tuffo nell’ignoto da cui non potrai mai più tornare.

Sì, perché non puoi tornare da Srebrenica, Ruanda, New York, Bagdad, Kabul, Damasco, Tripoli, Gerusalemme, ecc. Qualcosa di te è destinato a restare là. Per sempre!

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ALBUM FOTOGRAFICO…

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LA GUERRA CI HA RESO FRATELLI

di Antonio Gregolin  -tutti i diritti riservati su testo e foto copyright 2013-

 LA GUERRA CI HA RESO FRATELLI
La storia di due ragazzi, Suvad di Sarajevo e Davide di Vicenza. Uno figlio della guerra, l’altro che lo sente come “fratello”, come conseguenza “positiva” di un conflitto durato quattro anni alle porte dell’Italia  che grazie ad una Associazione di volontariato apre uno spiraglio sulla storia passata e futura della Bosnia.

 Ci sono i riconoscimenti dati dagli uomini e quelli più imperscrutabili offerti dalla storia. A quasi venti anni dalla fine del conflitto in Bosnia, la storia di due ragazzi, Suvad Cibra 27 anni di Sarajevo (nella foto a sx) e Davide Travaglini 17 anni di Torri di Quartesolo (nella foto a dx), segnano una svolta. Il primo cresciuto con la guerra, il secondo diventato amico fraterno di quel bambino giunto a Vicenza da un paese in guerra (foto in basso). Era il  1996 quando la sensibilità di un gruppo di vicentini diede avvio all’Associazione “Insieme per Sarajevo” con lo scopo di aiutare gli orfani bosniaci. Allora la guerra era ancora una ferita aperta nel cuore dell’Europa, e a portarne il peso erano soprattutto vecchi e bambini. In centinaia negli anni successivi, trascorsero periodi di vacanza presso le famiglie vicentine: “Non famiglie adottive –sottolineavano i responsabili di Insieme per Sarajevo-, ma famiglie-amiche aperte all’incontro”. Di incontri tra bambini di etnie diverse, famiglie che non si conoscevano con storie lontane e drammi nascosti, saranno condivisi per oltre un decennio tra Vicenza e comuni della provincia, con la capitale Sarajevo. “E’ come seminare in un campo sconosciuto –ammoniva allora Sante Bressan, ancora oggi alla guida dell’Associazione, che oggi è impegnata nel sostegno e sviluppo di realtà economiche locali-, con la speranza che i frutti che nasceranno saranno riconosciuti come un valore per il futuro”. Un seme di questi, ha portato frutto proprio questi giorni, vent’anni dopo la guerra e l’aiuto dei vicentini, con le vite di due ragazzi che si sono inestricabilmente unite. Vite a distanza quella di Suvad e Davide, ma con una solida amicizia cresciuta negli anni e sotto le ali protettrici della famiglia Travaglini: “Sta accadendo quello che auspicava Sante Bressan –spiega la mamma di Davide, Margherita Carrer-, quando ai tempi dell’accoglienza diceva che il progetto può dirsi riuscito, solo quando chi abbiamo ospitato inviterà un giorno i nostri figli nella loro terra”. Davide è andato nell’agosto a Sarajevo ospite dell’ amico bosniaco.

Sono lontani i tempi del pericolo. La capitale della Bosnia moderna è una città che pullula di gioventù, con uno smalto ritrovato anche con la recente inaugurazione della restaurata Biblioteca Nazionale incendiata dai  serbi durante la guerra, e rimasta per due decenni una ferita visibile nella città. Davide è tornato a Sarajevo dopo esserci stato per la prima volta con i suoi genitori a due anni, sempre per lo stesso motivo: incontrare Suvad che lui considera come un fratello: “Allora ero un bambino incapace di capire cosa fosse una guerra. Oggi mi considero un ragazzo prossimo alla maturità agraria, desideroso di comprendere cosa sia stata quella guerra” risponde Davide. Suvad invece è diventato insegnante d’inglese presso una scuola statale e fa da guida ai turisti italiani in visita. A loro dice con orgoglio che: “L’Italia è la mia seconda casa”. Entrambi coscienti che le loro vite sarebbero stata diverse senza questo incontro famigliare. Per Suvad resta comunque difficile spiegare ai turisti, come alle nuove generazioni bosniache cui insegna, cosa sia stata quella tragedia. la racconta, lo fa a bocconi per nascondere il troppo dolore che gli torna in mente: “Avevo cinque anni quando scoppiò la guerra e mi trovavo con la mia famiglia a Pale (la città che diventerà la nuova capitale della proclamata Repubblica Srbsca dal 1992 al ’95), come mussulmani – ricorda Suvad- fummo cacciati da casa e costretti per due mesi a vivere nei boschi come animali. Raggiunta Sarajevo, mio padre si arruolò volontario nelle milizie bosniache che difendevano la città. Purtroppo poco dopo sarebbe diventato una delle prime vittime e io uno dei tanti orfani di guerra”. Poi l’assedio: “Quando vivevamo come topi e bruciavamo anche le scarpe per riscaldarci dal freddo”. E gli anni duri di quel dopoguerra  che si trascina fino ai nostri giorni: “Ai turisti che giungono a Sarajevo –racconta il giovane- mostro come cinque luoghi religiosi differenti convivano porta a porta, lasciando senza risposta sul perché  per quatto anni ci si ammazzasse l’un con l’altro in nome della religione e appartenenza etnica”. Sarajevo resta quindi una città senza risposte sul suo passato e futuro. Terra dove oggi i carnefici e le vittime spesso sono costretti a rincontrasi per strada. Dove i rancori e il dolore covano sotto la cenere. Ma per Suvad i bei ricordi sull’Italia e l’Associazione “Insieme per Sarajevo” restano una vivida speranza: “Le famiglie di Vicenza hanno fatto molto per noi. Allora che eravamo piccoli, alcuni di noi non avevano neppure 4 anni, l’Italia significava “Gardaland”. Oggi, il tempo e la crescita ci porta a comprendere come quel portarci fuori dalla nostra quotidianità, fosse un modo per educarci a costruire un futuro diverso per la nostra Bosnia”.

Non tutte le famiglie però vantano la fortuna di Suvad e Davide. Non tutti i bambini una volta cresciuti si sono rivisti o mantengono rapporti così saldi. “Il clima del dopoguerra a Sarajevo non è stato facile –spiega il presidente Bressan-, e le dinamiche famigliari hanno avuto spesso difficoltà insormontabili, anche per i traumi dei bambini stessi. Il nostro impegno fu una goccia nell’oceano. Ma se anche una di queste gocce fosse servita come nel caso di Suvad e Davide, a diventare rivolo e poi fiume di speranza, possiamo affermare con soddisfazione che il tempo e la storia, oggi ci hanno dato ragione”. 

UNA FAMIGLIA SUONATA

di Antonio Gregolin   testo e foto riservate  -Copyright 2014-

  SPECIALE 100MILA CONTATTI  

LE GEMELLE CHE VANNO IN PALESTRA IN CAMPANILE

E’ un’intera famiglia vicentina, appassionata di campane. Nelle loro mani è depositato il futuro di una tradizione che rischia di sparire. Due gemelle di 13 anni, sono oggi tra le poche “campanare” in Italia che scelgono il campanile alla palestra. 

Ci sono passioni che crescono nell’ombra, in silenzio e controtendenza. C’è allora chi oggi sceglie la palestra superaccessoriata, e chi più mestamente come la famiglia Rossetto di Montegaldella nel Vicentino, preferisce poche corde e una stanza disadorna dove allenarsi. Quella che vi raccontiamo è la storia semplice di questa famiglia (nella foto) che ha in comune la passione per le campane. Due dei tre figlioli, sono gemelle: quindi, giovanissime donne che amano un’arte considerata ancora tutta maschile. Campanari, per l’appunto! Marta e Chiara, sono gemelle di 13 anni che stanno uscendo dalla scuola media,con un fratello maggiore Valentino di 19. Papà Sandro invece e’ al mezzo secolo di vita. Una famiglia normale, se non fosse per quella loro comune passione per le campane. Unica mosca bianca della famiglia, mamma Cinzia, che resta la sola a non voler suonare. 


Per il resto la famiglia Rossetto, il suono e l’arte campanaria sembra averlo nel sangue. Fu papà Sandro, uno dei veterani della locale squadra campanari fondata nel 1980, ad avere avvicinare i figli alla corda. La dimostrazione di quanto una passione sia trasmissibile, c’è l’esempio delle due graziose gemelle, Marta e Chiara, che da un anno “frequentano con abnegazione –come precisa il loro maestro campanaro, Lucio Barbieri-, la scuola di formazione per diventare suonatrici di campane”. “I nostri tre figlioli –assicurano i genitori-, non hanno nulla di speciale. Anzi, sanno usano fin troppo lo smartphone e il computer, ma quando sanno di dovere andare in campanile, non c’è tecnologia che li trattenga. Vanno di corsa…”. Incuriosisce il fatto, al punto che proprio a queste giovane generazione di campanari è affidata la sopravvivenza di un’arte che ormai pressoché estinta. Un raro caso in cui la tradizione vince sulla  travolgente modernità. La stessa che in questo piccolo paese Berico, dieci anni fa impose di elettrizzare il sistema campanario, passando dalla manualità all’automatismo. Cosa successa in gran parte d’Italia, ponendo fine alla figura tradizionale del “campanaro-sacrestano”.

Sembrò la fine di un’epoca, con i vecchi campanari che venivano meno, e le giovani leve distratte da altro. A Montegaldella invece, questo scontro epocale ha mantenuto un  barlume di speranza nel recupero del “sonare le campane a man secondo el vecio sistema veronese”.  Il luogo dove questi campanari danno il loro meglio resta quindi il campanile, dove ogni settimana si odono levarsi le melodie delle 13 campane che suonano grazie a quelle mani che ricalcano gesti vecchi di secoli. Arte antica, tramandata con quella sapienza di ritmo e trasmessa da maestro a maestro, da vecio a bocia fino ai nostri giorni, con i volti freschi di Marta, Chiara e Valentino, che mostrano di divertirsi tirando le corde tra una chiamata e l’altra del maestro. Numeri che sostituiscono le note musicali. Ecco che un concerto di campane suona così: 5-6-9-grosse-1-4-7-quarte-terze-seste-2-9… 

In realtà, le due giovani gemelle sono tra le pochissime suonatrici di campane del Veneto e in Italia. Di ragazze alle corde se ne conoscono ben poche, ma il loro ardore spesso da filo da torcere agli stessi veterani. Lo conferma papà Sandrino: “Le piccole sono alle prime armi, ma promettono bene”. Per ora imparano e lo fanno anche osservando il fratello maggiore Valentino, che in campanile è entrato  quando aveva otto anni”.

Da dove nasca questa passione però, non se lo spiegano: “La sentiamo e basta, e finché ci piace, seguiteremo a tirare la corda…” rispondono le gemelle con le mani protese verso l’alto cercando l’equilibrio tra corda e campana portata a “bocca”. Per aiutarle nell’angusta cella campanaria di Montegaldella è stato installato da poco tempo una versione dimostrativa del complesso meccanismo che permette di suonare le campane in concerto. Un modellino su scala (v.foto sotto) con tanto di ruota e corda, identico a quelli che si trovano affiancati alle campane vere. “E’ il primo modello del genere installato in Italia –spiega il capogruppo Lucio Barbieri-, ed è il risultato di una nostra visita ai campanari inglesi di anni fa.

Là, vedemmo questo modello usato con funzioni didattiche e per allenare i provetti campanari. Da oggi grazie a questa innovazione che non contamina affatto la tradizione, non servirà più legati  i batacchi delle campane come si faceva un tempo -spiega Barbieri- per fare allenare i giovani campanari”. Così che le nuove generazioni di campanari possono oggi vantare di avere una palestra personale anche loro: ma in campanile!